“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 31 March 2018 00:00

Sopravvivere alla solitudine

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“Chi è senza speranza non solo non scrive romanzi ma, quel che più conta, non ne legge. Non ferma a lungo lo sguardo su nulla, perché gliene manca il coraggio. La via per la disperazione è rifiutare ogni tipo di esperienza, e il romanzo è sen’altro un modo di fare esperienza”.

                                                                                      (Flannery O'Connor)

 

 

Non poteva che essere Jonathan Franzen con la vivezza della sua raccolta di saggi Come stare soli a farci apprezzare l’intensità delle parole con le quali la scrittrice statunitense ci parla di letteratura.
Avevo poco più di dodici anni e già l’idea di leggere e poi scrivere mi affascinava. Dopo tanti libri letti, per lo più adatti alla mia giovane età, mi sono imbattuto in Martin Eden di Jack London. Una folgorazione: sarei diventato uno scrittore, come l’autore... e il protagonista del romanzo.
Ma la vita ha un suo percorso, tracciato dal caso.

Sui venti mi lanciavo lungo la carriera manageriale di un grande gruppo assicurativo multinazionale, e solo dopo l’età pensionabile mi sono dato alla narrativa.
Nella parete di fronte alla scrivania dove sto scrivendo queste righe li osservo in un quadro dipinto dal mio amico Gigi Valsecchi. Lei, Laura, seduta sul divano con al fianco i nostri figlioletti Andrea e Massimo.
Solitudine. Sono passati pochi mesi da quando Laura è mancata.

Certo, nessun matrimonio è privo di passaggi stretti. Specie se i figli hanno proponimenti appassionati di cui si attendono la realizzazione, pur consapevoli che comporta seri sacrifici economici da parte dei genitori.
Scuole private tra le più prestigiose. Eppure ce l’abbiamo fatta.
Creatività e concretezza sono state le eccellenze educative che mia moglie e io abbiamo trasmesso ai figli ambiziosi.
Da poco trascorsi i quaranta, Andrea è Capo Ufficio Stampa della più importante filiera del nostro Paese e si avvia verso ulteriori successi. Nel volgere di pochi anni, per Massimo, alle soglie dei cinquanta, il salto da un giornalismo fotografico a livello internazionale a un’accentuata attività di filmaker era nella logica della cose. Basterebbe riguardarsi MoneyArt, il documentario dove Jacques Attali, grazie alla sua partecipazione, supporta l’opera con la consueta ricchezza estetico-culturale di moderno Pico della Mirandola, mentre l’occhio vigile, la mente lucida e l’acuta curiosità dell’autore ne esaltano l’insieme. In costante ricerca per ogni parte del globo, Massimo realizza poi The Sense of Beauty. E c’è ben altro nel suo futuro carnet professionale.
Le mogli di Massimo e Andrea, Sara e Manu, non nascondono l’orgoglio per il talento creativo e il dinamismo dei mariti.

− Riprenditi in mano la tua vita, papà − mi dice Massimo con la solita benevola aggressività volta a scuotermi  dal torpore. − Non puoi relegarti tra le mura di casa... a fissare il vuoto!
Pochi giorni dopo, è domenica, essendosi ormai convinto che mi serve una scossa, Massimo prende una drastica decisione e mentre ci facciamo una pizza a casa mia mi informa che lunedì passerà a prendermi e mi accompagnerà in Questura per farmi rilasciare il passaporto.
− E perché mai? − chiedo sorpreso.
− Vieni con me un paio di mesi a Bali. Ti farà bene, credimi.
Pur avendo mantenuto la casa a Milano per quando gli serve programmare nuovi lavori con i suoi collaboratori italiani, si è trasferito con la famiglia in quell’isola indonesiana. Fino a quando si vedrà.
Ed eccomi a Bali. Una deliziosa villa di tre piani in mezzo al verde con piscina visitata talvolta da piccoli serpenti. I gechi per casa non si contano.

È lì che Massimo vive con Sara e il figlio, tredicenne Leo che studia in inglese alla Green School in padiglioni di bambù senza parete all’interno di una striscia di jungla vicino al fiume Ajung e ai campi di risaie.
In questi giorni ci raggiunge l’altro loro figlio Tommy, iscritto a Videogame Development all’università di Londra. E da Marsiglia arriva la sua fidanzata Agnes. Due anime portate al volontariato sociale.
Qualche giorno per cercare di ambientarmi, sforzandomi di liberarmi dello stato d’animo depressivo per la perdita di Laura. Poi vengo a sapere da Massimo che Leo una mattina lo ha preso timidamente in disparte dicendogli: − Papà, ho visto il nonno sorridere.
L’idea di Massimo sembra funzionare.
L’impegno dei famigliari presenti per non farmi sentire intimamente solo è più che evidente. Cerco nei limiti del possibile di rendere esplicita la mia gratitudine. E credo di riuscirci. Di notte dormo in un grande letto con Leo, lui nasconde sotto il cuscino il suo video-computer, e difficilmente si addormenta prima della due.
Sono momenti di serenità per me. Dalle finestre il debole lucore di Ubud mi riconcilia con la vita. Ma non c’è giorno che il mio pensiero non voli a Milano, dove vivono Andrea con la moglie Manu e i figli Niccolò e Gabriele. Mi mancano. Sento un forte bisogno di avere anche loro vicino.
Scrivo. Sono alle prese con un racconto a puntate che, al mio ritorno, spero di pubblicare sul webmagazine con il quale collaboro.
− Vedi, papà, che avevo ragione. In poco più di una settimana hai scritto quattro capitoli di un nuovo racconto. A Milano eri sul punto di spegnerti anche nella scrittura.

Vuole darsi al pugilato, Niccolò. Nelle ore libere dagli studi della media superiore frequenta pressoché ogni giorno una palestra gestita da personale che ha al suo attivo una serie di successi in quello sport.
Estate di tre anni fa. È sabato.
− Ma davvero nostro nipote pensa a un futuro di sportivo, magari professionale? − Chiedo a Laura.
− Sì, così mi ha detto Andrea.
− E gli studi?
− Cercherà la scuola che più risponde alle sue esigenze. Del resto, anche nell’ambiente dello sport la cultura rende migliori.
Pochi attimi e prendo il telefono.
− Che ne dici, Nicky, se questa sera ce ne andassimo a cena in un buon ristorante, noi due soli?
− Certo, nonno. Portami al giapponese, ti piace il sushi? 
− Se piace a te, ragazzo mio, senz’altro piacerà anche a me.
Un delizioso incontro generazionale. Brioso anche: ci siamo fatti due mezze bottiglie di un ottimo vino bianco. E per me la personalità di Nicky, il suo rapportarsi al mondo al di sopra della superficialità così diffusa nei tempi che corrono non è stata una scoperta, bensì la conferma di quanto avevo intuito sin dall’inizio della sua adolescenza. Un giovane in costante ricerca interiore. Rifugge dal conformismo.
Terminate quest’anno le elementari, suo fratello Gabriele sprigiona una incontenibile vitalità. Non solo esteriore. C’è in lui quel modo di essere che fa pensare a un suo futuro da protagonista. È stato a Bali, ospite di suo cugino Leo. Ora gradirebbe tornarci. E nel frattempo, a distanza, i due passano gran parte dei loro giorni a godersela coi videogiochi su Skype. Uno spasso ascoltarli.

Una grazia non remissiva. Lei, Laura, si teneva lontana dalla sterile retorica della famiglia, ma il vincolo di affinità che ha saputo serenamente trasmettere a noi tutti − a partire da me − per poi farne ragione di vita ai nostri figli, nipoti e altri membri, ci ha fortemente segnati nei nostri più profondi sentimenti. Ha interpretato il senso umano in maniera che non se ne possa scordare.
Ovunque siamo stati, sin dall’inizio, posso dire che non v’è chi non la senta ancora presente. In riva al mare a Milano Marittima, quando Massimo e Andrea erano poco più che i nostri cuccioli, pochi anni dopo a Druogno, grazioso paesino nella Valle Vigezzo, quindi a Barzio in Valsassina sopra le montagne di Lecco, sempre felicemente presi dalle nostre prime conoscenze con altri genitori e loro ragazzini in vacanza. Fino all’approdo nella dolce Valbelluna a Trichiana “Paese del Libro”, così definito perché ha dato i natali ai fratelli Cortina. Laura protagonista.
Tutti luoghi dove la nostra famiglia ha trovato serenità e ci riportano il felice senso della sua spirituale presenza. E ancora Trichiana, che la custodisce − occorre dirlo − laddove chi ci raggiunge e si unisce a noi può godersi il Parco delle Dolomiti Bellunesi, quello che viene definito Patrimonio dell’umanità. E lei è per sempre lì come Nostro patrimonio, con la sua forza intatta nei ricordi, nei sentimenti di chi l’ha conosciuta.

− Voglio scrivere un romanzo, dice Andrea.
È domenica e siamo a pranzo a casa nostra, Laura è ancora con noi. Una sorpresa per tutti, emozione. Che mio figlio potesse darsi alla narrativa era un intimo pensiero che tenevo per me. Sperando che quel giorno venisse.
− Fantastico! − dico. − Sei giovane, ingegnoso quanto basta. Ma non aspettare troppo, come ho fatto io.
− Sì, ma il lavoro...
− Io ho scritto anche di notte, come Camilleri, dico osservando con curiosità la sua reazione.
Il sorriso di Manu: Andrea in rapida carriera. Anche Sara accenna a sorridere. Suo marito Massimo racconta la vita con le immagini.

“La scrittura è una forma di libertà personale. Ci libera dall’identità di massa che vediamo formarsi intorno a noi. Alla fine, gli scrittori non scriveranno per diventare gli eroi fuorilegge di una sottocultura, ma soprattutto per salvare se stessi, per sopravvivere come individui”. Sono parole di Don DeLillo in una lettera che ha scritto a Franzen.
Ci stavo riflettendo da un po’ di giorni, su quelle parole. Mi sforzavo di interpretarne il senso. Ed è normale, considerato che da anni sono impegnato a scrivere. Ma c’era qualcosa che mi bloccava. Il mio rapporto con la scrittura è cambiato alla radice, e chissà se riuscirò mai a recuperarne la sostanza. Poi una sorta di illuminazione: la spiegazione l’ho trovata analizzando l’insistenza dei miei figli perché mi addentrassi quasi senza sosta nell’ambito dove potrei tradurre in realtà il romanzo della mia vita. Quell’insistenza di Massimo e Andrea ha lo scopo di tenermi quanto più lontano possibile dal vuoto coniugale.
Mi occorre una pausa. Lunga, forse.

Entro in quella che una volta chiamavamo la cameretta, dove dormivano i nostri figli. L’essere solo talvolta ti spinge a muoverti per casa senza uno scopo preciso. Quei poster pieni di colore che adornano la stanza mi colpiscono quasi fosse la prima volta. La potenza del colore, che sembra sprigionarsi agli occhi per aiutarmi a dare sostanza ai miei giorni.
Automaticamente accendo ITunes. È Van Morrison che canta: le note di When the Leaves Come Falling Down sono un segno dell’esistenza che non può essere trascurata né col pensiero né col rapportarsi agli altri ignorando l’intenso appagamento dello stare insieme.
La tristezza non può essere ragione di vita. Ce lo impone la nostra natura.
Avverto la necessità di non fuggire. 
C’è la famiglia, mi dico. Esseri umani come me, che fanno parte di me. Serve un colpo di reni. Rilanciare la sostenibilità del presente pensando al futuro che possa dargli un senso e se ne nutra serenamente, e quel che più ha valore, in certe situazioni, rivivere con gioia il passato.
Perché il passato, quando vissuto nell’amore, non può essere considerato perso nel nulla per sempre.
Ed eccoli nella mia mente i due piccoli. Gabry e Leo, che giocano, scherzano, fingono di litigare, e incarnano una realtà vitale che devo conservare... e non solo per me. Con forza, senza cedimenti.

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