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Sunday, 25 March 2018 00:00

Numero civico (quarta parte)

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Quando la segretaria si era finalmente affacciata in sala d’aspetto, accanto a lei, dal corridoio, erano sbucati fuori un uomo ed una donna vestiti di scuro, entrambi sulla quarantina, mi era parso che mi avessero guardato un po’ di sottecchi, non con un’aria cattiva, ma come colti da un’irresistibile curiosità, come per spiare chi fossi. Avevano già le loro giacche indosso e si dileguarono in pochi secondi, sgusciando via dalla porta con molta fretta ed in perfetto silenzio, quasi scomparendo magicamente in un soffio di vento. Gli altri pazienti non si curarono minimamente di loro e viceversa. Trovai anche quest’altro episodio piuttosto strano, pure questa volta senza sapere precisamente il perché.

La tanto cortese signorina non li aveva nemmeno salutati. Eppure dentro di me qualcosa mi diceva che non erano estranei, anzi. Potevano essere pazienti di vecchia data, ma nella mia mente tutto appariva troppo poco convincente. Del resto quando più tardi fuggii via in preda al panico ebbi come l’impressione che in quella sala d’aspetto si stesse recitando una macabra farsa e che l’oggetto a cui tutte quelle finzioni erano rivolte fossi proprio io. Mi stavano aspettando, era come se mi avessero gettato una sfida. Non sono forse io colpevole dell’averla colta? Mi dica, caro dottore, non sono stato io ad insistere nelle mie ricerche del duecentonovantanove, nonostante sembrava non ci fosse verso di trovarlo? Non mi sono lasciato guidare da quell’oscura forza, quando tutto intorno a me cercava di distogliermi, di strapparmi via da quegli orrori? Ed io ero lì, non ascoltavo né i miei cattivi presentimenti né le benevoli energie che tentavano di tenermi lontano da quel posto. Quando mi distesi sul lettino era ormai troppo tardi, non potevo più sfuggire al destino che mi fece compiere quel gesto. Forse un po’ lo sentivo, lo sapevo! Ho il dubbio di essere andato lì già con l’intento di distruggere quella creatura, certe volte. Il medico mi aveva fatto aprire parzialmente la camicia sul petto. Lei si era chinata sopra di me ed aveva cominciato a tastare la zona del collo e le articolazioni delle spalle.
“Le fa male qui?” mi domandò pigiando lievemente nella zona sottostante, sul nervo alla base del collo.
“No, per nulla, a dire il vero”.
“E se premo più forte?”.
“Neanche”.
“Oh! Ma troveremo il punto giusto, vedrà”.
La guardavo da sotto in su. Continuava a non esserci abbastanza luce per trattarsi di una visita in uno studio medico, ma non dissi nulla per timore di offenderla. Da quella posizione il suo viso cominciava ad assumere un aspetto più tetro, a causa dell’ombra sotto il mento e gli occhi. Sembrava quasi invecchiata.
“Qui non sente dolore?”.
“No, nemmeno qui”.
Stava compiendo dei piccoli movimenti circolari con le dita, in una zona vicina alla precedente. La cosa curiosa è che i mal di testa intensi che in quel periodo cominciavano ad assalirmi quasi regolarmente, in quel momento sembravano totalmente scomparsi. Non capita forse anche a lei di non avvertire più il dolore che ha denunciato proprio quando un suo collega la sta visitando? Avevo avuto solo un leggero principio di fastidio poco prima, nella sala d’aspetto, poi era del tutto passato. In quel momento addirittura mi sentivo più rilassato del solito, grazie al piacevole massaggio che le sconosciute mani stavano imprimendo sui miei tendini. Non vedevo come un tocco così delicato potesse farmi rendere conto di dove fosse situato il fulcro del dolore che spesso attanagliava la mia testa, a volte aggredendomi sino collo.
“Oh ma troveremo il punto, non tema!”.
L’inflessione un po’ alta, quasi entusiastica del suo tono di voce, cominciò a farmi sentire un tantino a disagio. In un primo momento pensai addirittura che fosse un po’ sadica.
Poi lentamente lasciò scivolare le mani dal collo al capo, senza farmi più alcuna domanda. Avvertivo i suoi polpastrelli spingere, stavolta con più forza. Li sentivo lungo la linea che dalla base del cranio, dietro l’orecchio. Risaliva sino alle ossa laterali della testa, più su delle tempie. Iniziai ad avvertire una sensazione strana e sconosciuta persino agli attacchi più acuti dei miei mal di testa. Era come se piccoli nervi risalenti sino all’attaccatura dei capelli stessero ardendo. Come se una sottile e profonda rete di vene si stesse seccando, indurendosi sempre di più. Fui scioccato dall’acuirsi così veloce di quella specie di fitta continua, ne fui così spiazzato e stupito che non avrei neanche saputo comunicare ciò che stavo provando. Avevo gli occhi sbarrati. Li avevo spalancati ancora prima di rendermi conto che ormai stavo fissando la faccia della dottoressa, la cui ombra incombeva su di me, a pochissima distanza dal mio sguardo, come quella di un macigno che ti stia per schiacciare il viso cancellandone tutti i tratti umani, lasciando null’altro che un’irriconoscibile maschera maciullata, mollemente immersa nel sangue.
All’improvviso recepii l’immagine della sua espressione, mi resi conto che la stavo osservando con fissità. La sensazione di indurimento mi aveva stordito, ora guardavo una specie di ghigno che non riuscivo bene a capire. Gli occhi di lei... di quella “creatura” erano ora inanimati e scurissimi, come privi di pupilla. I bei riflessi grigi e sfuggenti, seppure un po’ cupi, che avevano dato luce a quelle iridi, del tutto scomparsi. Sperimentai con orrore il cambiamento che dall’inizio della visita avevo visto accrescersi in quel suo mezzo sorrisetto sarcastico.
Quella sardonica faccia era prorotta ormai in una smorfia animalesca ma ad un tempo senza espressione, tirata a tal punto che una serie di rughe ininterrotte giravano attorno a tutto il profilo del surreale volto. In quella porzione di millesimo di secondo che passa fra l’osservare ciò che è mostruoso ed il farsi stringere inesorabilmente nella morsa del panico e dell’angoscia più nera, io capii di essere stato raggirato, ma solo per mia colpa. Avevo visto chiaramente i presagi che mi avevano accolto lungo il sentiero e non me ne ero andato. La mia mente assimilò il fatto che nessuno in quello studio avrebbe dovuto sapere il mio nome poiché io non mi ero presentato, non avevo mai chiamato e men che mai avevo prenotato una visita. Eppure tutti dovevano esserne a conoscenza, tutti mi aspettavano. La paura voleva divorarmi, impressa in una smorfia che ancora ricorre nei miei incubi, sotto spoglie che andavano oltre ogni logica dimensione dell’Universo.
Eppure mi accorsi che qualcosa di umano era ancora rifugiato in quei tratti: la trasformazione non era del tutto completa. Non so come spiegarlo... il modo in cui quel volto mi guardava era una commistione di due diverse attitudini, o meglio; era come se una perfida occhiata ironica si celasse sotto una sembianza di assorta apatia, la pelle di quell’essere che non poteva più corrispondere alla dottoressa, cominciò ad assumere un tono sempre più smorto, a tratti bluastro, simile a quello di una persona che muoia per assideramento.
Il terrore mi paralizzava, completamente: non riuscivo a far nulla. Molti dicono che ci si senta gli arti bloccati, a me è sembrato che d’un tratto un peso gravoso costringesse i miei a rimanere attaccati al lettino. Naturalmente non volevo credere che fosse la realtà, ma dentro di me sapevo che i miei occhi non avrebbero mai potuto trasfigurare la visione di un essere umano a quel modo. Iniziavo a capire, proprio in quell’istante, in quei lunghissimi, estenuanti secondi trascorsi nell’agghiacciante prospettiva di essere ucciso.
Sapevo che voleva ammazzarmi. Mi sentivo come se stessi per andare in iperventilazione, non potevo calmare il respiro neanche per un attimo, ma dovevo assolutamente farlo: dovevo urlare! Dovevo scacciare quell’espressione che sembrava non guardarmi più, passare oltre me, come se mi attraversasse. Sto  per morire! Pensai, aiuto! Sto per morire! Il volto all’incontrario che non emanava più suoni, che dall’alto gravava sulla mia faccia, era quello di un’entità estranea che abbia due fredde sfere vitree al posto degli occhi, che possa percepire la presenza di un altro essere come se lo fiutasse. Non mi restano molti anni davanti. So che in questi anni non potrò vedere nient’altro di simile e questa è per me una consolazione. In quell’istante le urla mi si strozzarono in gola, i pochi capelli che avevo in testa erano totalmente drizzati.
Non riuscivo neanche a muoverla, la testa, ero costretto a guardare il mostro! Le dita della creatura scorrevano vibranti ed ora gelide sulla mia calotta, fra i corti capelli bianchi, appuntiti come spilli. Non appena si posarono sulla cute provai il dolore immenso di una freccia dritta dentro al cervello, una frustata che fece impallidire tutti miei precedenti mal di testa. Al solo parlarne ne sento ancora la lugubre tensione. Avvertivo la forza incontrollabile dei muscoli tesi sotto le ossa del cranio. Premevano e premevano, era come se le mie meningi stessero per essere massacrate senza pietà. Perché dovevo soffrire in quel modo? Il male in persona doveva avermi trovato. Devo dirle che credo di sentirmi meglio rispetto a prima. Certe sensazioni però tornano, tornano sempre. Tornano in una mattinata, riaffiorando gradualmente, con una lentezza esasperante. Sai che di lì a poco l’onda nera dell’angoscia ti investirà come l’inchiostro di seppia, eppure il momento sembra sempre rimandato. La metafora perfetta per me è quella di una fredda risacca che ti lambisce le caviglie ed i polpacci mentre sei accasciato e senza difese sulla riva del mare d’inverno. Sai che un’onda anomala sta per arrivare e che nulla potrà impedirti di essere investito in pieno perché non hai la forza di alzarti ed andartene. L’acqua scorre e si ritira mollemente fin quando la rabbia del mare non si scatena in un velocissimo istante, inghiottendoti in un sol boccone. Così l’angoscia reale, quella abissale che solo poche persone maledette dall’attitudine ad aggrovigliare i propri pensieri in una matassa, senza riuscire più a sbrogliarli, conoscono, continua a bussare alla mia porta.
Non pensi che io abbia rimosso tutti i discorsi che sono stati fatti in questa stanza, caro il mio dottore. Ma non riesco a distaccarmi dall’insieme di quegli abominevoli istanti. Ora non tendo più a gettare la spugna ancor prima di cominciare, ci sto lavorando, ma è sfiancante a volte il dover convivere con me stesso come assassino. Non mi chieda di nuovo di non credere a ciò che ho visto, la prego. Quando quelle dita senza sangue si posarono sul mio capo e quel dolore mi stravolse, finalmente la voce poté liberarsi dalla morsa delle corde vocali avvizzite dalla maledizione di quell’essere.
Cacciai un urlo che credo avrebbe fatto rabbrividire anche un orco. Le gambe le sentivo ancora bloccate. Allora cercai di allungare le braccia all’indietro, verso il volto della spaventosa presenza, la quale si era per un attimo allontanata dal lettino. Capii di essere in balia di un malevolo incantesimo. Non sapevo che sarebbe stata la creatura stessa a cercare la sua morte, forse perché solo in quel modo avrebbe ottenuto la mia condanna. È un’impresa raccontare di nuovo questo punto... la creatura era destinata a vincere comunque, portandomi a compiere quello scempio, e non si può negare che abbia raggiunto il suo obbiettivo.
Tornò all’attacco. Da dietro, nel più inspiegabile dei silenzi, mi serrò completamente il collo fra le mani, con una furia che sembrava inarrestabile. Da quel punto in poi non potei più urlare, la forza con cui tentava di strangolarmi andava ben oltre la malignità, si trattava di un gesto gratuito. Dopo capii che il senso, lo scopo di tutto era la mia sofferenza, era la paura a torturare tutto il mio essere. Non so come il mio corpo abbia potuto resistere. A volte, nei miei incubi, posso ancora avvertire la pressione che mi fa esplodere la testa ed il momento esatto in cui il sangue si abbatté contro la parete interna dei bulbi, facendomeli sentire come se stessero per schizzare fuori di lì a poco. Le mani non si allentavano, ormai respiravo solo un irrisorio filo d’aria, null’altro poteva salvarmi contro la violenza delle gelide mani del mostro.
Sono morto, sono quasi morto, ci siamo!
E invece, quando meno me lo sarei aspettato, la presa che strangolava il mio collo si allentò considerevolmente. Una calda cascata di sangue precipitò nel mio petto e le vene della testa sbatterono regalandomi ad ogni colpo un nuovo respiro. Vidi di nuovo quegli occhi inespressivi capovolti sulla mia testa, sfilai una mano dai polsi lividi a cui mi ero disperatamente attaccato, in quell’inutile intento di separarli dal mio collo. In un attimo l’istinto mi fece ritrovare a rovistare con la mano sinistra sullo scaffale poco distante. Sfiorai con i polpastrelli il liscio dorso di un libro, dovevo lottare per riprendere confidenza con la sensibilità delle mie dita. Sudato e con il cuore scalpitante le feci vibrare convulsamente sbattendo la mano in aria e a destra e sinistra come se stessi spolverando confusamente.
Presto, presto!
Gli arti riprendevano poco a poco il loro vigore, forse un’altra stretta improvvisa sarebbe bastata a mettere la parola fine. Invece non so come trovai la forza di afferrare quello che a tatto sembrava essere un cubo, una sorta di fermacarte. Presi l’oggetto nel modo più saldo che potei, non c’era tempo di soppesarlo. Ma era più che sufficientemente pesante. Avevo gli occhi fissi in quelli della creatura, inquietantemente assenti, immobili. Tonc! Fu come un tonfo netto, e poi di nuovo uno ed un altro, ed ancora un altro colpo. Al quarto sentii un orribile rumore di ossa dure che si frantumavano in minuscoli pezzettini, come vetro. Lo spigolo del cubo doveva essere ormai penetrato in uno strato umido, di carne viva e bruciante, poiché il sangue che colava a fiotti sulla mia faccia era bollente, quasi incandescente. Il volto grigiastro, ora sporco di rosso, restava placido, svuotato di qualsiasi vigore, di qualunque intenzione.
Un plastico e secco inclinarsi del capo aveva costituito l’unica reazione al mio feroce attacco. Soltanto dopo l’ultimo significativo rumore le mani appartenenti a quella marionetta livida, che aveva d’un tratto sostituito la rassicurante presenza della dottoressa, lasciarono la presa intorno al mio collo. Ed anche il resto è per lei storia nota. Nessuno era venuto in mio soccorso e non era credibile che non avessero sentito le mie urla. Ma se le avessero sentite avrebbero come minimo dovuto fuggir via, avendo scelto di non aiutarmi. Invece erano tutti lì, mi attendevano ancora in sala d’aspetto. Il cuore mi batteva all’impazzata, anche la testa mi faceva piuttosto male, ma andava migliorando. Quando realizzai di essere ancora vivo non sapevo se credere a tutto ciò che era successo in quei pochi minuti. Ero ancora debole, respirai l’aria a grandi sorsi e mi tirai su lentamente, sedendo sul lettino. Era come se dentro il mio collo fosse appena stata pompata via un’enorme otturazione, era teso ed indolenzito. La luce soffusa si rischiarò nella flebile percezione dei miei occhi e del mio cervello, entrambi estremamente provati dallo scampato soffocamento. Fu quello l’istante in cui vidi cosa ero stato capace di fare. Guardai in basso e l’immagine si mise automaticamente a fuoco. Disteso sul fianco sinistro, dandomi le spalle, era riverso il corpo della dottoressa. Un’enorme chiazza di liquido che a quella luce pareva essere nero, denso ed esteso come un lago, campeggiava sul pavimento, tutt’attorno e sotto la testa della donna. Anche il camice bianco ne era sporco. I suoi capelli, disordinatamente sparsi per terra, continuavano ad inzupparsi del sangue che sgorgava incessantemente da quella ferita a dir poco terrificante che le avevo procurato. Di nuovo mi mancò il respiro, cosa avevo fatto? Che cosa dovevo fare? Mi avvicinai a quel corpo con molta cautela, quasi aspettandomi che la creatura risorgesse per scagliarsi di nuovo contro di me con tutta la sua furia.
Girai intorno al suo profilo stando ben attento a non finire con le scarpe nel sangue. Ma era ancora una scena molto surreale, non c’erano odori e rumori nella stanza, tutto era vago ed immobile. In quel posto dove il tempo si era fermato il sangue di una vittima continuava a scorrere. Ero letteralmente scioccato, allarmato in una misura che forse non avevo mai conosciuto prima nella mia vita. Sentivo che ad ogni centimetro che guadagnavo con estrema fatica, chinandomi verso di lei, il cuore, ormai del tutto fuori controllo, aveva un profondo sussulto. Una forza repellente mi spingeva a voltarmi dall’altra parte e conquistare l’uscita. Ma fu la mia coscienza a vincere: avevo il dovere di constatare ciò che anche per colpa mia era accaduto. Avevo il dovere di guardare in faccia quella donna. Dapprima il mio sguardo si posò sul cubo che aveva uno spigolo completamente rosso e visibilmente scheggiato. Poi scorsi lentamente quel breve spazio che separava l’oggetto dalla sua testa. Mi accorsi in quel momento di stare tremando, esattamente nel medesimo istante in cui mi resi conto che non si trattava dello strascico di quel trauma fisico che poco prima avevo subito.
Ero terrorizzato dall’idea di incontrare quei vitrei occhi sbarrati e scoprire che non erano affatto come li avevo visti prima, guardando dal lettino, dal basso verso l’alto ed alla rovescia. Dimmi che non è così, dimmi che non è così, continuava a lamentare la mia mente, sprofondata nella più sinistra angoscia, nel dubbio che gli occhi che mi sarei trovato dinanzi potessero essere ancora quelli umani, luminosi ed innocenti della dottoressa.




(continua...)

 




leggi anche:

Roberta Andolfo, Numero civico (prima parte); Il Pickwick, 30 dicembre 2017
Roberta Andolfo, Numero civico (seconda parte); Il Pickwick, 28 gennaio 2018
Roberta Andolfo, Numero civico (terza parte); Il Pickwick, 25 febbraio 2018

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