“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 09 November 2017 00:00

"Follìar": ai bordi di un evanescente crepuscolo

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Se una delle più ampie ed angosciose suggestioni beckettiane – in Aspettando Godot – è lo spazio indefinito, privo di coordinate, che comprime e sbigottisce secondo dopo secondo le fragili esistenze dei protagonisti, nel lavoro della compagnia Asorri/Tintinelli è una strana sensazione di reclusione a sfinire progressivamente i due buffi personaggi, già perduti ai margini di un’esistenza come non pervenuta al mondo esterno.

Due attori, quasi stilizzate icone alla Charlot, dovrebbero provare le loro scene all’interno di uno spazio che un nastro adesivo – a spettacolo appena incominciato – cerca di definire come “scenico”. Pochi gli oggetti, c’è solo una finestra in alto (altro riferimento a Beckett, come in Finale di partita o se vogliamo anche a Pinter per la verticalizzazione dello spazio), che sigilla claustrofobicamente l’ambiente; nessun orientamento temporale, “né oggi e né domani” dice ad un tratto uno dei due saltimbanchi di cui uno è cieco e si lascia guidare dall’altro. Facile pensare dunque al totale e complesso sbigottimento beckettiano che è non soltanto condizione esistenziale, ma inevitabile paradigma drammaturgico, espressivo e squisitamente scenico oltre al quale si fa fatica ad immaginarne un altro che possa inglobare le istanze delle attuali poetiche teatrali. Quelle stesse poetiche che faticosamente guadagnano i piccoli spazi teatrali delle nostre città, confinati agli sguardi di una ben individuabile cerchia di spettatori e le cui esigenze di narrazione e la ricerca di un proprio linguaggio si scontrano con una costante rivelazione dell’infinita agonia dell’arte.
In Follìar tutto questo passa attraverso i pochi segni scenici, attraverso gli accenti, le mimiche, le intonazioni dei due personaggi; e così anche le parole, le frasi incomplete, indefinite ed imprecise si trasformano in una lingua funambolica che ha perso la corrispondenza tra significato e significante. In essa vi possiamo cogliere tutta l’irrequietudine di chi cerca con una propria poetica di aprirsi un varco nella contemporaneità delle nostre scene; l’interrogarsi sul senso di essere maschere e di essere personaggio, ma non solo, più genericamente sull’essere teatrante in un tempo nel quale arte e realtà sembrano non avere più nulla a che fare.
In Follìar accade allora che l’irrequietudine del ricercare un proprio 'ruolo' seppur “agli orli della vita” per dirla con Pirandello, nel teatro contemporaneo si concreti in oggetti, modi e disgregazioni drammaturgiche che ne sono allo stesso tempo ostinata cifra di un complesso interrogativo, ma anche limite estetico e concettuale oltre al quale è difficile che i linguaggi contemporanei riescano ad andare... ci disorienta e forse nel contempo ci conforta l’idea che paradigmi beckettiani siano come colonne d’Ercole dell’arte, costretta alla ripetitività di prove ormai frammentate che non hanno più alcun senso di costruzione.
Ha senso, dunque, la continua ricerca lungo l’assottigliamento di quest’ultima che si consuma e si svilisce, insieme alle sue tristi “marionette”, ai margini della realtà? Il lavoro di Astorri/Tintinelli appare un ostinato baluardo poetico all’indifferenza con la quale la voracità dell’oggi spinge l’arte sempre di più verso l’oblio, eppure guardando in questo lavoro segni già da lungo tempo sdoganati, cenni beckettiani, abbozzi charlottiani, l’impressione è che il teatro stesso si stia spontaneamente consegnando ad una sclerotica fine autoimposta. Arresa all’asfissia causata da una politica culturale disonesta, dalla distrazione generica rispetto alla pratica collettiva del teatro? Un progressivo ripiegarsi su se stesso? Uno svuotamento di forme e di concetti a vantaggio di una visione tragicomica e nostalgica dell’arte; un ricercare nella sottigliezza delle suggestioni linguistiche, espressive e mimiche un posto concreto per poetiche ai margini.
Perché, in conclusione, è lo spazio per la poetica – ovvero per nuove ed inedite visioni e codificazioni del teatro – ad estinguersi, a svanire come le due buffe icone di Tintinelli e Astorri che permangono in un tratteggio a noi familiare, preciso, scalfito nel nostro sistema di segni teatrali interiorizzato, ma di cui evanescente è il loro transito sul palcoscenico.



 

Follìar
di e con Paola Tintinelli, Alberto Astorri
produzione Astorri/Tintinelli
foto di scena Gabriele Lopez
Milano, Teatro della Contraddizione, 2 novembre 2017
in scena dal 26 al 29 ottobre e dal 2 al 5 novembre 2017

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