“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 07 November 2017 00:00

"Sembrava danzasse"

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Ci sono storie che stanno in piedi da sole, piantate come sa star piantato sulle gambe un buon pugile sul ring; ci sono storie che vanno scovate, recuperate alla memoria condivisa e sottratte all’oblio cui talvolta le condannano tempo e casualità.
Ci sono storie – e c’è una storia di cui qui ci accingiamo a dar testimonianza – che per farsi raccontare s’avvalgono del linguaggio del teatro, che ne sibila le parole in fiato d’attore e ne sublima le immagini in gesti di scena, con corredo accessorio, fatto di luci, suoni, filmati: apparato di contorno che s’aggiunge a completare la (ri)costruzione d’una memoria lontana e dispersa, d’una storia piccola e misconosciuta.

Parliamo di un pugile, tedesco a tutti gli effetti ma di etnia sinti, quindi uno ‘zingaro’, e questo non ti facilita certo la vita se sei nato sotto il Reich, meno ancora se fai il pugile e sei più forte dei detentori del primato della razza; parliamo di una storia raccolta e raccontata da Roberto Brunelli su l’Unità e in cui s’imbatte per caso Gianmarco Busetto, per poi tradurla in scrittura scenica. L’esito è il lavoro a cui assistiamo a Galleria Toledo, nell’ambito di Stazioni d’Emergenza, 9841/Rukeli, ed è messinscena che vibra per la stessa forza intrinseca che l’anima e la pervade e che pulsa in virtù della (anche dichiarata in esergo) partecipazione empatica di chi la inscena, la dirige e la recita. E il tutto viene trasmesso da palco a platea, facendo passare in secondo piano sporcature ed imperfezioni che pure lo spettacolo qua e là denota. Ma, nelle storie che stanno in piedi da sole, c’è qualcosa che le travalica, c’è come un’aura che le circonfonde e dona loro valore aggiunto.
Così vediamo Gianmarco Busetto vestire sia i panni del narratore che del narrato – e quindi narrare e interpretare la storia di Johann Trollmann, peso medio di buon livello, la cui carriera fu compromessa dall’accidente di appartenere al ceppo etnico “sbagliato” in una Germania in preda al delirio ariano – attraversando un ventennio di storia tedesca attraverso la vicenda umana e sportiva di un pugile che aveva sbagliato anche i tempi del suo boxare, visto che, anticipatore di successivi ballerini del ring come Sugar Ray Robinson o Muhammad Ali, aveva uno stile di combattimento incentrato sulla grande mobilità, decisamente in controtendenza con quella che era la boxe dell’epoca, fatta in prevalenza di staticità e potenza. E fu per questo che a Trollmann, detto Rukeli – ovvero “albero” in lingua sinti – fu imposto dapprima di combattere con pugili più grossi e più forti di lui, poi addirittura, quando nemmeno così la Federazione nazista ne riuscì ad arginare l’efficacia, di farlo con l’obbligo di non muoversi dal centro del ring, “praticamente come chiedere ad un’anguilla di combattere nella vasca dei coccodrilli”.
La parabola di Rukeli è necessariamente discendente, costellata di sconfitte annunciate, fino al confino definitivo in campo di concentramento, passando per la morte sociale (la rinuncia alla famiglia prima, la sterilizzazione poi, infine la reclusione... mentre la boxe gli era stata ormai di fatto preclusa dalle leggi razziali), morte sociale che prelude a quella reale, nel campo di Wittenberge, dove era riuscito a riparare sotto falso nome grazie ad un sotterfugio col quale fu fatto risultare morto nel campo in cui era precedentemente recluso, Neuengamme, dove la fame e la fatica l’avevano ridotto ormai a una larva identificata da un numero, 9841. Appuntamento con la morte rimandato solo di poco, visto che a Wittenberge fu riconosciuto da un kapò, anch'egli ex pugile, il quale pretese di combatterci, finendo in breve al tappeto e vendicandosi poi dell’onta subita ammazzando Rukeli a badilate qualche giorno dopo, abbattendo quell’albero fiero che non ne voleva sapere di crollare.
Busetto si cala nella parte con abnegata partecipazione, veste i panni del pugile (anche se il fisico corpulento ce lo fa apparire più come un massimo appesantito che come un medio asciutto e sgusciante qual era Trollmann), si cosparge di talco per ricordare l’espediente adottato da Rukeli di ricoprirsi di farina prima di un incontro – in segno di scherno verso l’arianizzazione del pugilato tedesco, che voleva gli atleti fossero pura espressione d’identità razziale – e diventa per un’ora e passa ai nostri occhi quel pugile di cui parla, ce lo fa vivere e percepire nell’essenza di quel tormento che fu la sua vita.
Sulla scena Busetto adopera tutta la compenetrazione fisica di cui è capace, oltre alla già rimarcata empatia col personaggio che interpreta; le uniche incertezze che riscontriamo vertono su un tono di voce che indulge ad un surplus di roco inasprimento e nell’evidente discrasia tra l’interpretazione e l’uscita temporanea da essa per far partire i filmati mediante il proiettore posto in scena, cosa che avviene più volte, così creando piccole cesure che stridono con la continuità narrativa e interpretativa dello spettacolo. Ma si tratta di nei che non inficiano significativamente lo spessore della storia e il suo farsi racconto scenico, nel quale Busetto riesce a far vivere e percepire anche i momenti più truci e toccanti – dalle violenze subite da parte della Gestapo al rapporto di tenerezza negato con la figlia – che quel pugile ballerino, nato nel momento sbagliato nel posto sbagliato, conobbe nel corso di una vita divenuta un calvario: “Rita, perdona tutto quello che non ho potuto”, sono le parole accorate che gli sentiamo rivolgere alla figlia, tumefatto dalle percosse delle SS, messo al tappeto da un avversario con cui non poteva combattere, dal quale aveva provato a fuggire come quando sul ring schivava i colpi di avversari più potenti ma meno rapidi; ma dal ring era stato ormai fatto scendere e l’avversario più grande, il nazismo, fu implacabile.
Di Johann Trollmann, detto Rukeli, resta il ricordo e rimane il riconoscimento postumo (solo nel 2003) del titolo che gli era stato usurpato. Di Johann Trollmann, detto Rukeli resta il ricordo e la memoria grazie anche a questa messinscena, che racconta una di quelle storie che stanno in piedi da sole, come sa star piantato un buon pugile sul ring: uno come Rukeli, che quando boxava sembrava danzasse.

 



Stazioni d’Emergenza
9841/RUKELI
di e con Gianmarco Busetto
regia Enrico Tavella, Gianmarco Busetto
suoni Enrico Tavella
luci Leonardo Fol, Giorgia Cabianca
graphic project Marina Renzi
produzione Farmacia Zoo:È
lingua italiano
durata 1h 5’
Napoli, Galleria Toledo, 6 ottobre 2017
in scena 6 e 7 ottobre 2017

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