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Sunday, 11 June 2017 00:00

Sul fluire di un anno sabbatico

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Quella decisione l’abbiamo presa quasi d’istinto la sera in cui noi quattro, della stessa classe, festeggiavamo il diploma appena conseguito con voti sì e no decenti al Liceo Classico Parini della nostra città, Milano.
Avevamo scelto il miglior ristorante in Piazza della Repubblica. Il nostro legame negli anni di studio si era sempre più rafforzato grazie a un insieme di interessi – se così si può dire – che ci accomunava. Voglia di studiare, poca. Consapevolezza (ostentata) della nostra presunta prontezza mentale, intensa attrazione verso le nostre compagne di classe più disposte a divertirsi, con tanto di feste in casa di questo o di quello dove, dopo qualche ballo, si finiva regolarmente a coppie nelle varie stanze, talvolta persino in bagno con la ragazza dal tanga aperto come si deve, poco chiare le idee sugli studi universitari da seguire, ma la simpatica spocchia di chi non ha dubbi che nella futura vita lavorativa lo aspettano successi alla portata di pochi.


Il cameriere che ci serve è amico di mio padre, che è suo collega e lavora in un altro locale dello stesso proprietario. Dei quattro io sono l’unico di famiglia non ai piani alti della scala sociale. Al mio fianco siede Chalom, è ebreo, non religioso. Gli ebrei non usano fare proseliti, ma data la reciproca simpatia maturata fin dalle medie inferiori, quando ha compiuto tredici anni Chalom, su insistenza dei genitori, ha celebrato il suo Bar Mitzvah e, di sua spontanea volontà, mi ha invitato alla cerimonia. In quell’occasione ho avuto l’impressione che alcuni dei presenti mi guardassero con una certa curiosità. Sorpresa, può darsi.
Noi due abbiamo ancor più segnato la nostra amicizia anno dopo anno.
– E che cazzo – dice Chalom – Abbiamo appena concluso un ciclo di cinque anni, e già tra pochi mesi dovremo riprendere con impegni di studio più pesanti. Ma non sarebbe il caso di prenderci una pausa?
– Una pausa? – reazione di noialtri.
– Sì, un anno sabbatico.
Occhi sgranati da parte nostra.
Silvano mi è seduto a fianco. Mi guarda e dice: – Enrico, secondo te che altra bizzarria potevamo aspettarci dalla sua cultura ebraica?
– Quello che ha detto. Né più né meno.
L’ironico sorriso di Gianluca.
È bastata una bottiglia di Vin Santo per accompagnare il dolce di fine cena, e farci dire quasi in coro: – Grande ‘sta idea. È cosa da fare.
C’era del resto da considerare che nessuno di noi aveva ancora le idee del tutto chiare su quale indirizzo di studi prendere dopo quell’anno di libertà. Ma una convinzione comune l’avevamo, eccome. Dodici mesi da dedicare a prendere contatto con quegli aspetti della vita che ciascuno di noi era interessato a scandagliare. Un modo razionale, così pensavamo, di cercare un sicuro orientamento per i futuri impegni universitari.
– D’accordo, dunque, ma non possiamo andare allo sbaraglio. C’è da programmare con cura cosa fare, dove andare, e poi se andarcene tutti insieme o ognuno per conto suo... e in questo caso come tenerci in contatto – dico.

È bastato poco tempo per confrontare le idee e decidere. Due ore a casa di Chalom che doveva sentire il parere anche dei suoi genitori in vista di una loro tanto imprevista quanto urgente partenza per Israele dove c’era da controllare la gestione della loro filiale che commercia prodotti elettronici e ottica. La sede principale della ditta è a Milano, per cui non potendo incaricare Chalom di tener d’occhio come venivano condotti gli affari – dato che sarà assente per un anno – hanno dovuto cercare tra il loro personale un uomo di fiducia. E così è andata.
– Allora ce l’abbiamo fatta! Non resta che seguire il programma. Ognuno se ne andrà per conto suo. Insieme ci sarebbe il rischio di influenzarci a vicenda facendo venire a mancare la ricerca personale che sicuramente è la più efficace – Silvano.
– E per tenerci in contatto basterà scambiarci i dovuti hangout. L’era digitale ci aiuta. Non è così? – Gianluca.

Per quanto ami viaggiare in aereo, atterrare a Bali è stata per me una liberazione. Non sono neppure in grado di ricordarmi le ore di volo, con tanto di scalo a Dubai. La scelta dell’Indonesia non è stata casuale, mi ha aiutato una ricerca su Google. Il mio obiettivo: insegnare la lingua inglese in un orfanotrofio di quel Paese per conto di una start-up irlandese di volontariato, in cambio di ospitalità gratuita. Il che mi andava più che bene data la scarsità di mezzi economici di cui disponevo. Gli alunni avrebbero avuto dagli otto ai tredici anni. Salvo rare eccezioni.
Perché quella scelta? Dopo la laurea mi sarei dato al giornalismo, con particolare impegno sulla vita che scorre in certe aree geografiche che a me sembravano essere trascurate o non sufficientemente studiate nell’ambiente dei media sia della carta stampata così come del web.
Gli altri volontari, ragazzi e ragazze provenienti da diversi Paesi stranieri, avevano perlopiù la mia età. Avevamo due giorni liberi la settimana. Gite in motocicletta per tutta l’isola erano il nostro modo preferito per trascorrere il week-end. Ballavamo e cantavamo a suon di chitarra che alcuni volontari avevano portato con sé. Capitava anche che qualche mattina, svegliandoci alle quattro, ci imbarcavamo sulle canoe di pescatori che ci accoglievano con molta simpatia. Gente gioiosa.
– E in quanto a pollastrelle? – Mi chiedevano a turno in hangout gli altri tre in giro per diverse parti del mondo, alla ricerca di sé stessi.
– Many chicks for free... – rispondevo regolarmente, in un certo senso ispirato dal grande Mark Knopfler di Money for Nothing.
Sei mesi con i miei giovani allievi sono trascorsi in fretta. Quando la direzione mi ha chiesto se volevo rinnovare il mio impegno per altri due ho esitato un po’ prima di rispondere, ma poi ha preso il sopravvento il desiderio di tornare a casa. Mi mancava la mia famiglia. E io mancavo a loro, da certe mail che di tanto in tanto mi spedivano.
Durante il volo di ritorno ho letto molto. Mi ero ormai convinto che nella mia futura attività giornalistica dovevo ritagliarmi una posizione non generica, ma specialistica. Avrei scelto di pubblicare sullo speciale inserto culturale di quotidiani prestigiosi. Ma tutto dipendeva da me. Dalla mia cultura, specie letteraria e filosofica.
Mi rendevo conto che c’erano alcuni scrittori che avrei dovuto sforzarmi di conoscere più in profondità. E Tra questi, in particolare, il più impegnativo era Jorge Luis Borges. Ogni volta che avevo affrontato suoi scritti faticavo a immedesimarmi con quei racconti chiusi in sé stessi e permeati di mistico e voli metafisici. Non mi riusciva di arrivare convincentemente al cuore della narrazione. Eppure Borges, sia pur con un certo ritardo negli Stati Uniti e in Europa, era considerato uno dei più importanti narratori del secolo scorso. E c’è anche, per converso, da ricordare che in un saggio pubblicato in Francia – non ricordo l’autore – si è scritto che Borges “è stato un grande distruttore della letteratura...”, cito a memoria. Dunque, uno scrittore che per essere capito mette a dura prova il lettore. Dopo aver letto in aereo L’Aleph, i miei sentimenti sospesi su Borges sono rimasti tali. Cerco nella narrativa tracce, magari anche esili, di realtà grazie alla quale entrare in contatto con più situazioni esistenziali. Vivere, insomma, emotivamente altre vite oltre alla mia.

Tra meno di un’ora atterriamo a Malpensa. Oltre ai miei ridotti bagagli, sarà come portare a Milano il turbinio di hangout scambiati con i tre amici durante la mia permanenza in quell’isola dove ho vissuto, in un contatto intenso con i miei giovani allievi e con i colleghi volontari, avvolto nell’affascinante aura teologica-speculativa di un Induismo con una certa devozione verso gli “Illuminati” del Buddismo. Un’esperienza unica, sprazzi di luce che mi hanno dato più slancio per i miei anni a venire.
– E dimmi, stai tornando anche tu, Enrico? – Silvano.
– Sì, e tu?
– Da queste parti, dove tre secoli fa, Mason e Dixon hanno tracciato la storica linea di confine tra la Pennsylvania e il Maryland, tra il Nord industriale e il Sud schiavista, visito le città di provincia. I volti espressivi della gente segnati dalle ansie e dalle gioie, tutto quello che la televisione tende a ignorare. Sto vivendo un sogno per prepararmi al domani. Voglio diventare filmaker documentarista. Mi fermo ancora qualche mese, poi torno e avremo un sacco di cose da raccontarci.
– Beh, ragazzi. Ma parlate solo di voi? – Gianluca.
– Parla tu , dài. Poi vi dirò di me – Chalom.
– A parte la Brexit, che mi ha fatto incazzare come una biscia, fin qui le cose sono andate bene. Con la scusa di cercarmi un’università dove voglio venire a studiare il digitale, ho girato mezza Gran Bretagna. Amicizie tante. Botte di birra scura non poche. Per altri aspetti... vi lascio immaginare. Ho telefonato ai miei, mi spediranno qui tutto quanto mi occorre. Vivrò in un appartamento dell’università. A Londra. Comunque, prima o poi prendo un volo, e verrò a trovarvi quando saremo tornati tutti quanti.
– Ma allora io sono l’unico sfigato! – Chalom.
– Perché’? – chiedo.
– Per la semplice ragione che dopo un mese di lavoro gratuito presso una ditta olandese, che si occupa di prodotti elettronici e ottici, mi hanno allontanato sostenendo che potevo passare alla ditta di mio padre, loro presunto concorrente, informazioni sullo studio di nuove tecniche. Di conseguenza, sono dovuto tornare temporaneamente in Italia per cercare di chiarire con quegli stronzi olandesi che io volevo soltanto accrescere la mia conoscenza di quel tipo di attività industriale, e non carpire informazioni. Dopo il rientro dei miei genitori da Israele, sono subito tornato qui nei Paesi Bassi a prendermi quel tanto di vera vacanza che desideravo da tempo. Con tutte quelle deliziose ragazze del luogo che pedalano tranquillamente in bicicletta mettendo in evidenza ciò che le loro gonne, corte ai limiti di quanto si possa desiderare, tentano di nascondere. Per arrivare alla fine di quest’anno sabbatico vedrò poi dove trasferirmi, sempre comunque in Europa. Vi farò sapere, mi mancate.

Non poteva andare diversamente. Siamo ormai rientrati tutti. Ed eccoci da dove siamo idealmente partiti: lo stesso ristorante di Piazza della Repubblica.
– Un bilancio? – chiede Chalom, intuendo che ero lì per domandarlo.
– Col procedere della mia esperienza in Indonesia, ho avuto la certezza che se non avessimo preso quella decisione oggi saremmo meno pronti ad affrontare i primi passi verso la nostra vita d’ora in poi. Mi iscriverò alla facoltà di Lettere Moderne, perché ritengo che sarà un plus nella mia auspicabile attività giornalistica – dico.
– A Londra studierò le tecniche del web. È il futuro. Sebbene non mi senta in grado di immaginare dove ci porterà. Vedremo – Gianluca.
– Marketing è quello che fa per me. Non fosse altro perché la mia famiglia è impegnata in un’attività aziendale che rende bene. E poi abbiamo la filiale in Israele alla quale per ovvie ragioni che non sto a ripetervi siamo particolarmente interessati – Chalom.
– Quanto a me, la permanenza negli Usa devo dire che mi ha come stregato, ma non ho ancora deciso se mi trasferirò definitivamente là a studiare. Che volete, l’American Dream è una realtà sotto gli occhi di tutti quelli che, come me, hanno avuto modo di constatarlo sul luogo. Ma chi può dire come andranno le cose nel mondo... dati i tempi che stiamo vivendo? – Silvano.
La serata sta per chiudersi. L’ultimo bicchiere è per un augurio collettivo. Ma questa esperienza, vissuta a nostro modo, avrà un senso?

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