“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 14 May 2017 00:00

D-Alpha-Nag

Written by 

Si trasformava il dolore di molti nel ricordo di uno solo. Si trasformava il dolore, che è lungo e naturale e vince sempre, nel ricordo personale, che è umano e breve e sfugge sempre.

(Roberto Bolaño, 2666)

 

Per poco una mareggiata non mi investì in pieno. Camminavo sul mare e guardavo lontano, all’orizzonte, dove le ondate parevano animalesche schiene irsute che danzavano contro la luce squillante, tenebrosa, elettrica, che spaccava le nuvole ad ovest e si insinuava verso i golfi cittadini, striati di luci. Le ultime da Cape Canaveral non lasciavano dubbi: era una questione di mesi, ormai – e quindi di giorni – e il meteorite ‘D-Alpha-Nag’ avrebbe impattato contro la Terra. Tennyson era stato perentorio: “Succederà un gran caos”. “Cavolo, Tennyson” – avevo ribattuto – “altro che caos... vi sarà ben più di un caos!”. Ed era un gran caos già in quel pomeriggio sul lungomare, lucidato dal vento e dalle mareggiate, infilato in quella luce giallastra da tropici intristiti, come se qualcosa di freddo e di crudele dovesse accadere da un momento all’altro.

Ma nessuno sapeva. Né Tennyson, né Gropius avevano lasciato trapelare nulla. Le colline brulicavano nel vento, già le prime luci della sera si accendevano su quelle striature verdi dei campi lontani mentre il mare infuriava ancora di più, mentre il mare pareva l’unico essere semovente a conoscere la verità. Il meteorite avrebbe colpito il mare, forse per questo lo sapeva, presagiva, sentiva le scariche di miliardi di forze incoscienti che si sarebbero sprigionate. Fra pochi giorni Tennyson darà l’allarme al mondo. Non saranno più solo quelle facce biancastre e allucinate – come di matti tellurici – degli esperti del Pentagono e di Cape Canaveral a sapere la verità, ma anche gli altri tellurici folli terrestri, perduti nelle vaghe contemplazioni stellari e campestri, nelle varie nazioni, nei vari mondi e microcosmi, teddy boys, malavitosi, ragazze di vita come la vecchia Beverly, come la dolce strana Valery dagli occhi di fiamma, politici, dittatori in blu, lacchè di palazzo, intellettuali, filosofi, scienziati, chimici, biologi, storici, alcolizzati, paludati filologi, atei, agnostici, gnostici e cattolici, buddisti e animisti, immigrati dagli occhi di bragia, santuomini onorati, capi di stato, papi, ministri e cardinali.
Ancora poco e tutti lo sapranno. Questi pensieri mi attraversavano vorticosamente il cervello mentre ora quasi correvo sul viale a mare, diretto verso casa. Entrai, chiusi la porta e un suono metallico, lungo e incandescente mi colpì la membrana parietale del cervelletto. Era la nuova suoneria telefonica, acci sua. Risposi. Era Tennyson. Il giorno dopo sarei dovuto essere a Cape Canaveral, con lui, Gropius e gli altri tredici senzienti. “Altro che Canaveral” – disse Tennyson con la sua consueta ironia semi-insipida ma rugginosa e tetanica – “fra poco qui ci sarà un Carnival, ma proprio funereo”. Abbassai. Il giorno dopo ero là, seduto intorno a un tavolo mentre Gropius, vestito di blu, impeccabile come sempre, ci spiegava, col suo solito tono pacato, le ragioni di quella scelta.

Per il momento mi ero salvato. Reduce da un’affabulazione di sogni, di intrichi sognati e onirocritici, mi stavo appena riprendendo. Dora era andata via, aveva portato lontano dalle stanze blu di questi ultimi anni i suoi capelli colore del grano, i suoi occhi verdi nati dalle spume del mare di queste tempeste. Erano giorni di incontrollati sogni e bisogni. Ma credo che quella stanza austera, quel tavolo oblungo, Gropius nel suo doppiopetto blu, Tennyson semi-ubriaco, Maggie serrata in uno sguardo drogato, gli apparati, quei nomi assurdi, il Cape Carnival di quella sera fossero pura realtà. Neanche la Psiche Collettiva riusciva a consolarmi. Tennyson, dio, Tennyson, almeno lui aveva la sua Velvet Blu... se era triste si metteva al volante della Velvet e sorrideva. Ricordo un viaggio che facemmo insieme, in una giornata di pioggia. I tergicristalli ansimavano pesantemente sul vecchio vetro, il rumore dei marchingegni regolati al massimo era diventato un tutt’uno con lo scroscio di pioggia insistente, spasimante e allucinante che ci invadeva ogni dove. Forse era aprile. Si, era aprile, era uno degli ultimi giorni in cui vidi Dora, raggiante, splendente di oro e di verde in un acquazzone, coi capelli bagnati, col sorriso di fiamma, che mi guardava in una strada dai riflessi settecenteschi. Pioveva forte, il cielo però era quasi sereno e le spade dell’aprile ferivano i fianchi. Basta. Era lo stesso aprile in cui ero in macchina con Tennyson, si tornava dalla campagna dove avevamo fatto un’incursione escursione fra la pioggia rutilante. Tennyson fumava guidando e la cenere della canna appena rollata gli cadeva – ma che gliene fregava, allora! – sulla camicia e sui pantaloni. La birra l’aveva lasciata svuotata sul tavolo di una vecchia osteria, con un vecchio padrone che si alcolizzava di cielo. Com’era felice, lui, al volante della sua Velvet Blu, sembrava colore dell’estasi armonica di un suono lucente.
Io, invece, ero lì, nella mia stanza, mentre oggi il telefono non suonava, non brulicava nell’anima quella suoneria algente e rampicante. Non avrebbero chiamato né Gropius né Tennyson né Dora. Soprattutto Dora. Tu non ricordi la casa di questa mia sera, Dora, forse è meglio così. Nemmeno io.
Rifui in strada. Non avevo la Velvet. Camminavo. Lucide nuvole si stancavano troppo a correre dietro a raffiche di libeccio a 200 all’ora. Ero fregato dall’esistenza. Riuscivo a sentire impeti nuovi. Cosacchi cavalcavano su cavalli indiani, portando dei secchi sulle pianure d’argento, sulle montagne innevate, sulle baite degli uomini azzurri. Era puro il cielo quel giorno. Puro come le nostre coscienze edipiane o ulipiane. C’era silenzio, non potevo resistere. Finii quel giorno in una bettola semisconosciuta, in un bicchiere di d-drug. A annegarmi.

Per il momento mi ero salvato. Fu Tennyson a riportarmi a casa, nella sua Velvet. Mentre precipitavo con la testa sul mio bicchiere lo avevo giusto intravisto, seduto a un tavolo nell’angolo a est, a sorbire birra della grate full dead. Ripresi conoscenza e Tennyson, di fronte a me, declamava con magniloquenza e serietà – quasi con preoccupazione – (e non esagero a dire che pareva Gropius nel suo discorso di ieri) le virtù della birra artigianale che distillavano in quel locale. Altro che bettola semisconosciuta, cazzo di caciocavallo, altro che! Quella era una delle migliori distillerie artigianali rimaste sulla costa ovest. La distilleria era dietro la casupola grigia, in un cortiletto che confinava col molo 7, un vecchio molo in disuso da anni, dove vedevi aggirarsi Harold col cappello da cow boy o Zumbùn col suo monile d’oro al collo, vestito da cruciverba, a sorseggiarsi Beverly che si sparava negli occhi. Sembrava di vederli, lì, nel molo tutti e tre, con Beverly che pareva la Suzanne di Cohen – Suzanne takes you down... – suonava la vecchia canzone e sapeva di sete e sudore. Insomma – continuava Tennyson – lo sai che lì hanno ben sette qualità di birre? La Red Sterenz, fatta con la castagna essiccata di quelle colline dal salmastro irrorate, la Meditatio Guli, chiara, dal sapore di castagna anch’essa, ma forte – ripeteva – forte, forte, cazzo! Da meditazione! – Calmati Tennyson – meno male che l’ubriaco ero io, ieri sera, calma – dovetti pronunciare e sillabare, dal mio letto riarso. “Poi” – riprendeva – “c’è la san Nicoletto, speziata, all’anatra all’arancia, che servono anche calda, semiviennese, ottima nelle giornate di mistral; poi c’è una weiss, erede di quelle birrazze monacensi, sfiancate, che si chiama Postumia, nel senso che è bella forte e disintegrata. Poi la Red, Red e basta, la più forte, a 12 gradi, che è la mia preferita. Proprio quella che stavo trangugiando ieri quando sei finito con la faccia nella merda che avevi davanti. Cosa bevevi? Se vai alla Artigianal Fake bevi la birra capito? Non quelle schifezze cocktailizzate”. Aveva finito di parlare, Tennyson, e io mi stavo sollevando.
Volevo restare muto per il resto del giorno. Il vento non era cessato e sferzava le finestre del soggiorno piagnucolante del mio appartamento. Sfogliavo una rivista di pubblicità insenziente. Vanno tanto di moda, tutti vanno al supermercato insenziente a riempirsi di fagocitante avvenire. Accesi una lampada e dissi a Tennyson che volevo star solo. Cinque secondi dopo sentii il motore della Velvet che squittiva come un cammello scuoiato. Probabilmente tornava alla Artigianal Fake. Cazzi suoi. Ammiravo il vento. Essere come il vento, divenire animale come il vento. Tennyson c’era riuscito, era un grande animale nel vento al volante della Velvet, rosacrociano della sua Red.

Era un’estate dalle tinte rossastre. Credevo. Un’estate fatta di tetti e di lumi visti dall’alto, di città mediterranee che mi sorridevano troppo. Maggie l’avevo vista all’inizio dell’estate; di Tennyson non sapeva nulla. Quei senzienti mi avevano rotto; decisi di filarmela dal mio appartamentino piagnucolante in un eterno libeccio e presi una macchina volante per paesi mediterranei. Ora stavo salendo le scale di un edificio, in una città mediterranea d’Europa, per salire sulla terrazza. Vi era della musica, saranno state le otto di sera. Tutto intorno brulle colline spezzate a destra da una linea di mare che spuntava, rosso, fra i palazzi. Di fronte, ma proprio di fronte alla terrazza, il Partenone era un gigante solitario e abbattuto dagli acciacchi, un grande vecchio che andava illuminandosi nella sera nascente. Un po’ di musica sulla terrazza, qualche ragazza che parlava col barman in inglese, il barman, lui la sapeva lunga. Presi un cocktail e fumai una sigaretta appoggiato al parapetto. Infiammante quella striatura di tramonto, incredibili le luci bluastre che si andavano accendendo intorno al vecchio signore adagiato sulla collina. Un vecchio signore, forse nato dalla mano di Zeus, padre di Atena, la dea dall’occhio di civetta, la dea imperscrutabile come il diavolo sulle colline. Intorno, sotto, la città brulicava. Grida, canti suoni di mercati, di voci, di puttane nei vicoli, di magnaccia, di venditori, di turisti, di musiche ignote, di voci popolari dalle terrazze, di violetti concerti nel tramonto striato. Era quella la città che mi aspettava quella notte, così bluastra, così perfetta. E mai, ripeto, mai, avrei pensato, di lì a poco, di incontrare Tennyson alla bettola di Zorbas, di fronte a un piatto di souvlaki e vino bianco.

Tennyson intanto si recò a Port Metal. A Beverly ragazza di vita chiese notizie del capitano d’Arce. “Perché lo cerchi?” – ribattè lei. “Ho bisogno delle sue parole” – fece Tennyson – “ho bisogno della sua voce nerastra nella mia notte di accoltellato”. “Abita dietro la Manganellaro” – disse lei – “al numero 4 del vicolo queens, vicino al molo 5”... “Grazie Beverly, lo sapevo che mi saresti stata d’aiuto, a presto!” Ciò detto Tennyson di diresse a piedi verso il vicolo dietro il quale s’apriva la calata dei vecchi pescherecci, ormai in disuso: uno di quelli era l’Arca II, la vecchia barca del capitano d’Arce.
Un portonaccio di legno ti faceva entrare in uno stretto corridoio con una scala stretta e ripida ripida – erano vecchi e abbastanza alti i palazzi sui moli – e all’ultimo piano abitava il capitano d’Arce. Mentre saliva le scale Tennyson fu colto di sorpresa da una porta che nella scarsa e tetra illuminazione s’aprì; era Marcantonia Zoe, più larga che lunga, che usciva a buttare la spazzatura. Ballonzolava per le scale, camminava a destra e a manca, trascinata dal suo peso, nanerottola che si perdeva nella notte fumando sigarette di contrabbando, e guardò Tennyson sotto le spesse lenti dei suoi occhiali, di sottecchi, ghignando... all’ultimo piano il capitano aprì la porta ed era come se lo stesse aspettando presagendo forse la sua visita. La casa era piccola, stretta, coi soffitti alti, una vecchia casa di pescatori... il capitano riconobbe subito Tennyson – non poteva dimenticarlo (il meteorite e tutto il resto) – e lo fece accomodare su una vecchia poltrona unghiata dai gatti. Capitano d’arce – disse tennyson – si ricorda del meteorite di cui mi parlò quella sera di fronte a un vino delle colline metallifere e noiose, un vino forte, crisantemo dei cinghiali irsuti... Certo – rispose il capitano – fui io a parlarti di un meteorite che forse, e soltanto forse – noooh – avrebbe impattato sulle lastre di ghiaccio dei poli terrestri... Capitano, lei disse che non era vero, era solo un meteorite di parole, di schizzi di segni di penne che s’incaponiscono sulla carta e si perdono, segni che ruotano, e s’aggrovigliano, si intersecano, sbafano e ritornano netti e poi di nuovo si contorcono nelle spire di un minoico stupore per poi sdipanarsi lungo i fiumi della mente e sciogliersi e lentamente morire e vanire nel niente di un bianco di carta tornata pura e inanellata di bianco... sì – disse perentoriamente il capitano – era un meteorite di parole, quello di cui ti parlai. Non avrai mica preso tutto sul serio? Io no – ribattè Tennyson, ma Gropius si, Maggie sì, Pablo sì... a proposito, sa dov’è ora Pablo? Ma l’ha detto Maggie... Ora è ad Atene, chissà, magari perduto negli scontri di piazza per la crisi bancaria... Ma lasciamolo perdere... e il meteorite? Esso non esiste – rispose il capitano d’Arce – è solo una parola, una vertigine di segni graffiti su carta nati dalla mia mano dopo un bicchiere di aleatico dolce – da dessert. E fu perentorio.
E proprio fu perentorio mentre su Port Metal si stava addensando un temporale elettrico a coprire la notte. Saette schizzavano dal cielo verso la terra in zete che si squamavano rapide verso le rocce marine, zigzaganti fruscii animaleschi e perduti, lumi dal tono incredibile e dalla voce di terra, di rimbombo luminescente e caduto per sempre. Le parole del capitano furono subito affiancate dal battere incessante della pioggia sulle persiane e sui vetri della vecchia casa, dal cadere dell’acqua sull’acqua negli acquitrini del porto fra le vecchie navi da pesca, fra le viuzze battute dai venti di salmastro e lucenti d’astro piangente. Il temporale illuminava a tratti le stanze del capitano. Il suo volto stesso si illuminava a tratti nella notte della sua casa di Port Metal, fra le luci seminascoste dal buio. E così a tratti Tennyson poteva vedere quel volto ancora più stupito, ieratico, sorpreso in una smorfia di allucinazione, come il capitano Achab nelle notti di tempesta. Un volto magro, con corti e radi capelli brizzolati, un volto quasi scarnificato dal tedio di giornate passate a scrutare i libecci, occhi di bragia e fiammeggianti sotto piccoli occhiali che il capitano metteva per leggere. Lo fissava e lo scrutava dai suoi occhi di fiamma e Tennyson era come sperduto in tetri tramonti. I tuoni rombavano sempre più forti e l’elettricità e la sua ansia invasero Port Metal. Si – continuò d’Arce – quel meteorite che hai paventato o sentito o gridato più forte è solo un fruscio di carta sotto le dita unte di un vecchio. Tennyson voleva provare a parlare, voleva provare a dire al capitano che lui lo aveva sempre saputo, aveva sempre saputa la verità, certo quel meteorite non poteva esistere. Ma come, come spiegargli che Gropius lo teneva per certo, tanto da aver formato i dodici Senzienti, gli iniziati, i prodromi dell’edipico potere, coloro che dovevano annunciare al mondo la notizia? E come, come dirglielo – ahimè, che dire... – che proprio Pablo era il più coinvolto dalle sessioni organizzate da Gropius?  E invece era tutto finto. Lui, Tennyson, l’ubriaco caledone scemo, l’aveva sempre saputo; l’aveva sempre saputo fra una san Nicoletto e una Red Sterenz, fra una Meditatio e l’altra, sempre. Il capitano ora era serio. “Devi dirlo a Gropius e a Pablo. Cerca di raggiungere Pablo in Grecia e poi, poi nient’altro. Aspetta che si calmi il temporale, e lascia Port Metal”.
Doveva lasciare Port Metal, Tennyson, doveva e non sapeva da dove iniziare. Uscì dalla casa del capitano che era notte fonda, le strade erano rigagnoli d’acqua, anzi fiumi in piena per quella campestre anima che possedeva Port Metal, e si incamminò sotto una pioggerella – adesso – leggera. Prese per Manganellaro Road e si diresse verso la macchina lasciata lì vicino. Era come procedere in un fiume, le ruote lasciavano scie di striature di acqua. Era come avanzare nelle profondità del mare che avvolgeva Port Metal. Ahimè, ora doveva lasciarla e partire, partire su una macchina volante e dirigersi nel mediterraneo intristito da scontri per i denari impazziti. Basta. Rivide la sottile striscia di terra davanti ai cantieri navali, allagata fino all’orlo e per strada non c’era davvero nessuno. Per strada il buio elettrico della notte al velluto aveva tutto invaso e sotterrato. Port Metal in una notte d’inverno vaniva e svaniva, lasciando immagini di mostri e fantocci che sorridevano nella notte. Sorridevano e amavano dee dai nomi di fanciulle e fanciulle dai nomi di dee, come nessuno sapeva, lì, vicino a quelle carcasse lunari che intristivano nella notte di luna appesa sulle nostre teste come una lampada spenta.

Nelle viuzze strette del quartiere sotto l’Acropoli c’era una quantità non bene definibile di ristoranti, trattorie, bettole, osterie. Mi ritrovavo a girare a vuoto, seguendo ora questo ora quel gruppo di persone, cercando di mescolarmi alla folla e di vivere il più possibile vicino alla gente di quella città. Tutto brulicava di vita e di movimento nella sera estiva; difficile pensare che pochi giorni prima, per le strade di quella stessa città, si era scatenata una sorta d’inferno, con scontri armati fra polizia e manifestanti. Intanto mi trovavo nelle viuzze semi-orientali che fiancheggiano gli antichi dèi di pietra che sorgono perennemente illuminati in cima alla collina: bazar, venditori, imbonitori, contrabbandieri, malandrini e borsaioli si catapultavano in giravolte per attirare l’attenzione dei turisti. Era una scia di colori che si muoveva dalla piazza principale attraverso i vicoli, attraverso i pietroni e le vecchie case che d’antico non avevano nulla. La grecità classica stava in alto, separata da recinti; il resto era mediterraneo bazar rampicante e vociante. Vidi innumerevoli insegne di locali, Ta kaira, parakaloutes, karakkolis, moustakki, ecc. ecc. quando fui attirato da un’insegna che recitava semplicemente il nome dell’oste, Zorbas. Era una piccola osteria con pochi tavoli all’aperto, stracolmi di gente. Riuscii a trovare un buco in un tavolo già pieno, strettissimo e mi feci un piccolo spazio. La confusione era enorme e devo dire che non mi sentivo in gran vena quella sera, dopo due o tre cocktail presi sulla terrazza dell’hotel, vicino a due ragazzone inglesi. Quando, a un tratto, in un angolo – esattamente l’angolo opposto al mio – vidi Tennyson che beatamente sorseggiava vino Retsina davanti a un piatto di spiedini. Mi alzai e lo raggiunsi: “Tennyson, che ci fai qui? Pensavo di essermi lasciato alle spalle voi senzienti sbiancati, inanellati di bigi vapori”. “Pablo!!! Cazzo, lo sai che sono venuto fin qui apposta per cercarti? Devo darti una notizia sensazionale! Siediti, cavolaccio, e assaggia questo Retsina!”. Mi sedetti e bevvi due o tre sorsate di quel potente vino bianco, resinoso, marinaresco, forse lo stesso che Odisseo fece bere al Ciclope. “Pablo, il meteorite non esiste, d’Arce lo sapeva da tempo”. “Come?” – ribattei – e chi cavolo era questo d’Arce? Mai sentito. “Storia lunga, caro mio, storia lunga” – mi fece l’amico – “ma non dovrai stupirti... stupisciti intanto davanti a questo spiedino, si chiama souvlaki. E stupisciti ancora: io conosco questa osteria, si mangia benissimo, una delle poche rimaste autentiche nel processo di gentrification che ha investito tutti questi luoghi turistici. Un luogo autentico, frequentato dai turisti, vero, ma anche dalla gente del posto. Immaginatelo d’inverno, quando solo gli ateniesi lo frequentano... incantato da musiche silenziose, da volti dai profili d’ebano, da fanciulle che sorridono lentamente mentre portano vesti sinuose e si nascondono dietro le Georges Karelios fumate elegantemente... Vi si mangiano ottimi antipasti e ottimo pesce e ottima carne. Eccellente in tutto insomma. Vi ero stato anni fa, con un’amica di nome Tuxella, del Pireo, che non rividi più”. Ok ok – dissi – ma allora, il meteorite, d’Arce? Lo sai che mi sembra improvvisamente che voi, dico voi – Gropius, te, Maggie e gli altri semizombies incalcolabili – non siate mai esistiti? Qui, adesso, lo credo. Certo – fece Tennyson – è la sensazione del viaggio, ti sposta anche nel tempo. Tu credi che non siamo mai esistiti perché laggiù apparteniamo tutti a un altro tempo. Forse, laggiù, solo Port Metal si salva. Nel senso che appartiene al tempo vero. Non sono ubriaco, credimi, sta attento. Non esiste il potere edipico, non esiste la pace perenne, siamo in un tempo d’infausta democrazia, non troppo rimota, in tempo di crisi, come puoi ben vedere da questi avvenimenti. Siamo catapultati in una sorta di tempo tangibile, non nel tempo della nostra memoria, Pablo. La nostra memoria, memore del passato, ha creato un vuoto fatto di un incredibile, fantasmatico spazio-tempo futuro, mentre adesso siamo tornati al tempo reale. Qui non esistono meteoriti, Pablo; le crisi sono ben altre, terrestri. Insomma, forse solo d’Arce, laggiù si è salvato. Forse solo lui e la pazza Port Metal. “tempo reale, tempo futuro, non ti seguo Tennyson”, ribattei io che, davvero, l’unica cosa che avrei voluto fare era finire d’un fiato la bottiglia di Retsina. Intorno, la folla mutava. Dalle famiglie e dai gruppi di turisti con bambini al seguito adesso la frequentazione di Zorbas era cambiata: adesso gruppi di giovani, di uomini che parevano audaci scrittori, di poetesse dai capelli neri lucenti di nero di perla. Tennyson non riuscivo a capirlo. Parlava di un meteorite, di un tale d’Arce, di cose che non ricordavo più. Ora ero sera, ero sera e basta e questo mi bastava. Diventavo notte, e mi bastava; diventavo notte e volevo essere affumicato di note di musiche che mi svolavano intorno. Balaustre di note, mari greci di canti. Volevo solo incanti. “Credimi Tennyson, basta. Piantiamola. Pensiamo piuttosto al souvlaki e al vino bianco, nella notte che avanza”.

E la piantammo. Nei giorni successivi abbiamo girato per la città, immemori ormai delle storie passate, lasciate a svanire in un cristallo d’oltreoceano. Siamo saliti fino in cima, fino al Partenone, opera di dei costretti a sommuovere pietre, a sventrare montagne, a costruire colossi. La dea Atena, la dea dall’occhio di civetta, nata dalla mente di Zeus, da lassù poteva osservare e proteggere la sua grande città. Vi salimmo in un meriggio infuocato. Ci infilammo nelle schiere di turisti rossastri, resi paonazzi dalla salita, nascosti dietro cappellini bianchi e colorati, in pantaloni corti, una massa informe di cappellini, di zaini e di occhiali da sole che si inerpicava per l’erta un tempo teatro di riti pagani e di canti pieni di parole che risuonavano simboliche e misteriose. Quando vi fummo sotto sembrava che il colosso dovesse travolgerci da un momento all’altro; ieratico e contemporaneamente semovente, sinuoso sotto il solleone e il fuoco che ci pungeva le pupille inaridite. Ci sedemmo e contemplammo il vasto panorama: il mare e le colline brulle. Sotto, continuava a brulicare la città nei suoi ritmi mediterranei, fascinosi e malandrini. Ridiscendemmo e nel discendere ci fermammo nell’agorà, sotto l’acropoli. Pini e vegetazione mediterranea – come ninfe verdicanti – facevano una leggera ombra, persa nel grido allampanato delle cicale. Piccoli intrichi che un tempo furono strade, templi, terme, mercati; templi, ancora intatti, si ergevano in mezzo agli alberi come solitarie divinità, stanche, perdute e sperdute in silenzi remoti, ora svegliati dalle grida stridule di un turista americano o giapponese. E poi uscimmo dalla zona archeologica, con una certa fretta, perché Tennyson doveva spostare la macchina. L’aveva lasciata in un garage a pagamento ma doveva far presto perché era sabato e fra poco il garage avrebbe chiuso chiudendo con sé la macchina fino a lunedì. Riattraversammo le strade-bazaar, solcate costantemente da turisti nonostante la calura terribile; attraversammo vicoli stretti fra palazzi, con verdurai africani che ti guardavano bieco, mentre altri africani fumavano e contavano banconote sulle porte delle loro botteghe. Per fortuna il garage era ancora aperto: consegnammo il bollino ai guardiani – due europei dell’est abbarbicati su sedie a sdraio con coca cola e sigarette – e prendemmo l’auto. Allora il traffico di Atene ci avvolse: incredibile, disordinato, rutilante e sfrecciante. Ma ne fummo contenti. Non era questo il nostro desiderio, fonderci, almeno per un po’, con le persone del luogo? E quello era un altro modo di fondersi: l’atto di guidare, di entrare in una strada, di girare, di mettere la freccia, di guardare gli altri automobilisti fermi ai semafori, ecco, era da noi reso estremamente naturale, come se fossimo due ateniesi imbottigliati nel traffico pomeridiano del sabato ma che alla fine conoscevamo e non ce ne importava proprio niente. In Syntagma c’erano ancora i segni delle recenti lotte: la polizia aveva chiuso un tratto di strada e faceva deviare per altre corsie; si vedevano, di lontano, cassonetti rovesciati, macchine incendiate, alcuni palazzi devastati. La rabbia della gente. Di coloro che brulicavano anonimi per le vie. La rabbia di una città mediterranea presa alla gola da simulacri di governi, da simulacri di democrazia. Che strano – pensavo – per la città dove è nata la democrazia; per la città dei filosofi, di Platone e Aristotele e di Pericle; e la gente di adesso, gente mediterranea, dai volti segnati, dalle palpebre scure, dagli occhi di fiamma, deve pagare gli errori e gli orrori di una democrazia. Vuota parola – credevo – vuota come il rincorrersi di un clacson nel pomeriggio bastardo. Tennyson volle puntare verso il Pireo. Non so perché, forse ripensava a Tuxella. A un certo momento disse: “Come mi era piaciuto il Pireo, Pablo, mi era davvero piaciuto. Anche lì negozi, bar e bazar come vicino all’acropoli, ma tutto più autentico, lì la gentrification ancora non era arrivata perché non era arrivato il turista, oppure vi era arrivato sporadicamente. E sai perché non c’è arrivato? Semplice: perché non c’è niente da vedere, a parte vicoli sporchi e forse anche pericolosi. Ma è bellissimo: strade che corrono verso il porto, piene del caos delle auto, fra vecchie carcasse di autobus e taxi, vicoli pieni di spazzatura, spacciatori, prostitute, accoltellatori sicuri; e, in fondo, il porto, i suoi odori, i suoi odori di frutta venduta da ragazzi in ciabatte, venduta da africani ormai grecizzati, che sono diventati l’anima del quartiere”. E Tuxella? feci io. Eh – riprese il mio amico – Tuxella era splendente e aveva occhi di pantera, mani di fiore estivo. Chissà dov’è, se ancora vive in questa città dilaniata o se è partita sul mare o forse semplicemente si è perduta nel mio passato dimenticato negli anni. Forse troppo dimenticato.

Intanto ci mescolammo alla vita del Pireo; un odore acre di bitume, di lavori stradali, di cantieri, di mare putrido che avanza nei suoi verdastri baluginii ci venne incontro; innumerevoli vecchie botteghe si aprivano nei vicoli, mercatini di verdura e di pesce, uomini che gridavano le loro merci, che ti squadravano di lontano, che capivano subito che non eri della città. Qui i turisti non sono arrivati, Tennyson aveva ragione. Qui la situazione terrea della crisi la leggevi in faccia alle persone. Da una delle bottegucce-osterie fece capolino un vecchio che ci squadrò con aria interrogativa. E proprio nella sua bottega entrammo perché Tennyson voleva assaggiare una salsa di pesce che solo al Pireo – diceva – sanno fare. Chiedemmo subito due piatti di quella specialità – naturalmente – accompagnati da abbondante Retsina. Il vecchio apparecchiò la tavola e subito mi accorsi di un disegno e di alcune parole che erano state scritte sulla tovaglia. Vi era un cerchio disegnato, su quella tovaglia, e alcune parole che si leggevano male: Ng lpha... mi sforzavo di leggere ma non riuscivo a capire il resto di quella frase. La feci vedere a Tennyson il quale, da par suo, prontamente mi disse: “Lascia perdere e mangiati questo Peskaritis, un piatto veramente eccellente!” non dubito sulla sua eccellenza, Tennyson, ma guarda bene questa scritta, non ti fa venire in mente niente? Guarda!!! Non l’avevo visto prima, guarda – è pazzesco – guarda la firma che c’è in fondo al disegno. “Arce” – si leggeva distintamente - “Arce”. “E allora?” rispose Tennyson guardandomi bieco. Ma non ci pensi? Arce, è il capitano d’Arce! E la forma del cerchio potrebbe essere il meteorite, e... quelle parole sbiadite potrebbero essere “D-Alpha-Nag”. “Potrebbero, Pablo, ma anche no”. Non lo so, Tennyson – dissi – sei stato tu a riferirmi della visita al capitano d’Arce a Port Metal, e che lui ti ha confermato che il meteorite non esiste, che è solo un meteorite di carta, inventato, tracciato con penne e matite, come grovigli di parole, parole che si intersecano sulla carta e si perdono nel nulla, nel vuoto... riconoscevo l’aura di altalenante follia che vivevamo laggiù... le angosce, le ansie, le ansie portate dai venti di libeccio iperveloci, lo stridio dei pennoni delle barche che sembravano dire “ahimè non viviamo, non viviamo nella realtà del mondo...” ah, Tennyson, tu sapessi quante volte avrei voluto ascoltare una storia come la tua! Tennyson, in tutta risposta, chiamò il vecchio e, biascicando un po’ di greco, gli chiese cosa fossero quei disegni e quelle parole sulla tovaglia. Il vecchio cadde dalle nuvole, e poi una nuvola del ricordo lentamente discese nei suoi pensieri... Sì, ricordava un uomo vestito da marinaio, barbuto, che era entrato nella bottega – diversi anni prima – e gli aveva accennato a un meteorite che sarebbe sorto nelle menti di alcuni perversi governanti – sì – ricordava. Il mondo alla rovina, la crisi, il sistema monetario in ginocchio, un paese sull’orlo della guerra civile... questo era ciò che sapeva il vecchio... e ora, in più, una storia di meteoriti e di scritte inani, di invenzioni nate nella mente di astrusi e mefistofelici governanti. “Cosa volete, disse il vecchio alla fine, non posso ricordare più di questo... ricordo solo quell’uomo e forse fu lui a fare quei segni sulla tovaglia, ma altro, davvero, mica posso dirvi. La nuvola della memoria va e viene e quando va, è forse per sempre”. Forse per sempre, ci ripensavo, a quella frase. Forse per sempre. Un uomo – forse d’Arce – era stato lì e aveva tracciato dei segni a proposito di un meteorite, un meteorite che non esiste. Una storia di carta, un’invenzione a dir poco romanzesca. Forse per sempre la memoria non poteva più esserci d’aiuto. Dovevamo immagazzinare più ricordi possibili, vivere e immagazzinare momenti, prima che quella nuvola, la nuvola del ricordo, sparisca dai nostri occhi forse per sempre.

“Ma non dovevamo piantarla?” disse Tennyson con sguardo bambinesco, di fronte al Peskaritis. “Vero” – controbattei – “piantiamola e non pensiamoci, almeno per ora, perché troppe suggestioni avanzano forse nel tempio di una mente provata”. Le sirene delle navi, ululanti a tratti, facevano rabbrividire e quasi tremare i tavolini... ma fuori era un incanto. Aveva ragione il mio amico, il quartiere del Pireo era veramente suggestivo. Lui ci era stato anni fa, quando pensava che camminare fosse un’arte. Fosse un’arte non solamente da praticare e da esprimere nei nostri lungomare, accarezzati dal libeccio sulle colline, le terrazze, i lampioni, le riarse piante piegate dai venti di sale... lui aveva percorso tutta Atene a piedi, era sceso e salito dal mare alla collina, aveva percorso sotto un sole di fuoco quei viali che correvano verso il mare, a intossicarsi di traffico. Era un’arte camminare per quelle strade, bisognava camminare come se si creasse un’opera d’arte, un dipinto, una scultura o che so io. Perdersi nelle strade, perdersi fra la gente, era questo ciò che contava, secondo lui. Uscimmo dall’osteria del vecchio, lo salutammo e percorremmo quindi a piedi alcuni vicoli del Pireo. Le gru del porto erano mani gigantesche che parevano afferrarci da un momento all’altro, i cantieri navali si accasciavano forse per chilometri dietro al basso muro che divideva la parte industriale vera e propria dalla zona dei mercati. Improvvisamente, alla fine della strada, si aprì una piazza vorticante di alberi frondosi, unguenti felici per il sole portuale. Alcune bancarelle stazionavano nella piazza: verdurai, calzolai, venditori di pesce, artigiani che forse dovevano la loro arte a messaggeri degli dei dagli alati calzari. Lo sai perché si chiama Pireo? Mi disse Tennyson. Lo sapevo, ma al momento non riuscivo a ricordarlo, so che c’era di mezzo la parola “pira”, “fuoco”. “dal greco pür, che significa fuoco, poiché il faro era una sorta di grande torcia di fuoco”. È vero, me lo ricordavo adesso. Eravamo in quel baluginante quartiere che prende nome dal fuoco, dal fuoco di segnalazione, dal fuoco che indica la via ai naviganti, ai perduti naviganti nelle tenebre. E bruciava, il quartiere, bruciava come aulente braciere di sensazioni e di canti, di voci scolpite nel meriggio. Prendemmo un caffè a un banchetto nella piazza alberata, ci sedemmo. Il Mediterraneo mi aveva conquistato. Ero nuovamente felice di essere mille miglia lontano dagli incartapecoriti senzienti, da quel mondo cui più ormai non appartenevo, da cui mi separavano momenti infiniti di aria compressa, di aria senza ossigeno volatile nei cieli, percorsi da un velivolo audace e veloce. Ed era un piè veloce quello che vidi nella piazza. Lo seguii, inanellai di stupore di sguardo la sua linea serpentina che correva verso di noi, verso Tennyson. Sollevai gli occhi: quel passo alato apparteneva a una ragazza in jeans e maglietta. Sorrise al mio amico, di un sorriso vero, inondato di cuore. Si fissarono qualche attimo e si abbracciarono. Ci presentammo. Lei allungò la mano e disse, come in un canto lontano, “piacere, Tuxella”.

E allora d’Arce, nella notte di Port Metal, cominciò lentamente a pensare. E a ricordare. A ricordare come era nato l’inganno del meteorite, le falsità che lentamente stavano percorrendo le strade e le città al di là di Port Metal. Tutto nacque per gioco – lo aveva detto del resto – tutto nacque per il gioco delle mani unte di un vecchio, di un corridore dei mari, di uno sguardo carezzevole ma anche vendicativo. Il gioco, lentamente, quando poteva risultare utile a qualcuno, si tramutò in serietà. Non che intercorressero rancori personali fra D’Arce e Gropius, no davvero. Si trattava semplicemente di rimediare a una vecchia storia, forse fatta di inganni, forse di idee sprecate. E fu così che Gropius il macchinatore – un vero e proprio macchinatore che poteva contare sulle più alte sfere del potere politico – innalzò la blanda rete ingannatrice del capitalismo edipico proiettando una metà del mondo in una sorta di futuro extraterritoriale e extrasensoriale: per viverlo, questo futuro, bastava semplicemente crederci. E milioni di persone vi credettero. Insomma, fu relativamente facile montare l’inganno. Un inganno che poteva essere spezzato solamente attraverso la lontananza, il viaggio, l’irruenza di velivoli lanciati in particelle d’aria senza ossigeno. D’Arce, lui, era tanto che non viaggiava più, rimaneva a Port Metal e proprio la sua cittadina era l’unica ad essersi salvata. Il creatore del gioco si era salvato insieme al suo spazio, fuori dallo spazio-tempo dell’inganno. Roba da non crederci. D’Arce rifletteva nella serata temporalesca, rifletteva e pensava per non far svanire il pensiero, il ricordo. Non pioveva più ma sembrava adesso alzarsi un vento furibondo, aria che spazzava ogni cosa, una tormenta ululante come non era raro avvenisse a Port Metal. Ricordava gli inganni, i momenti di quegli anni ormai lontani – per lui, pensava, anche solo un anno è portatore di lontananza – i disegni ideati insieme all’allora folle Gropius. E, ripensandoci: Gropius, Gropius, Gropius... un nome silenzioso e sconosciuto, allora, per D’Arce. Allora Gropius era solo Peppo il portuale di scoglio, uno che potevi incontrare ogni mattina vicino al molo e ai pescherecci. Poi, la metamorfosi: incredibile. Una metamorfosi che ti trasformava in una sorta di sommo detentore di potere, detentore creatore di dittatori, di mondi ieratici costruiti a tavolino, di una forma nuovissima di governo basato sul controllo delle menti – Edipo, Freud – un potere che se ne infischiava delle griglie rivoluzionarie dell’Anti-Edipo. Non Anti-Edipo ma Edipo, il capitale Edipo. Poi, ripensandoci, negli anni... negli anni, negli anni Peppo era divenuto una sorta di piccolo imprenditore marittimo, aveva espanso lentamente la sua longa manus su varie attività... metamorfosi di metamorfosi, negli anni: quanti? Questo proprio D’Arce non riusciva a ricordarlo, no davvero. Da semplicione frequentatore di scoglio a manipolatore di coscienze, incredibili sono gli anni. Ma lui era rimasto sempre lo stesso, D’Arce, uguale negli anni, baciato forse anche lui dalla longa manus faustiana di un diavolo compratore di anime. E il tavolino, le sedie, la bottiglia d’acqua sul tavolo, l’aleatico ben riposto sulle mensole, la poltrona, le cucce dei gatti. Tutto intorno a lui come quel giorno negli anni; quel giorno in cui vide Peppo l’ingannatore, l’architettatore di imbrogli sovrumani, quando lo vide per l’ultima volta. E sorrise, dentro di sé, per una sorta di moto inconscio, sorrise del mondo. Ora ricordava, ora riusciva a ricordare. L’inganno era nato dal nulla, come i signori manipolatori di cervelli dal nulla nascono. Saper ricordare, tenere forte l’immagine del ricordo, razionalizzare il ricordo, renderlo quasi formula matematica brancolante negli occhi accesi e vividi, questo era importante. Ora ricordava, D’Arce, magari avesse ricordato tutto quando Tennyson gli stava di fronte. Magari. Ma i ricordi vanno e vengono, sono le nuvole silenti del pensiero e si mettono lì per lasciarci soltanto una voglia squallida di passato.

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook