“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 28 February 2017 00:00

Anish Kapoor ed il MACRO, il MACRO e noi

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Il macroscopico ambiente del MACRO. Le opere grandi e la gigantesca installazione. Tutta la sala al piano terra adibita ad immenso laboratorio in cui sperimentare le più recenti invenzioni di Kapoor. E se volessimo abbandonarci ad un’escursione più spontanea, svestita di un senso critico troppo consapevole della sua stessa esistenza, per poter poi recuperare quest’ultimo lungo il sentiero, senza produrre un distacco troppo netto fra la piena sensazione e la sofisticata, mai del tutto soddisfacente elucubrazione? In quel caso cosa ci rimarrebbe di questa mostra, anzi, di questa manciata di ore trascorse in un museo come il MACRO? Il breve viottolo a zig-zag all’esterno dell’ingresso principale è affiancato da alberi. La circoscritta parentesi naturalistica squarcia idealmente il prospetto della struttura intagliandolo in una forma trapezoidale culminante verso gli alti battenti in vetro. Le cime di sottili tronchi solleticano lo spicchio di cielo che vediamo alzando lo sguardo prima di varcare la soglia. Il “salone delle feste” è bianco.

Volutamente immemori di specifici contenuti nozionistici su edificio ed esposizioni proposte, o di precedenti esperienze critiche, per l’occasione con la mente scevra di un’analitica predisposizione intellettuale alla visita, il primo pensiero va alle notevoli dimensioni delle opere che essa riunisce e contemporaneamente si rivolge ad immagini collegate, da un punto di vista soggettivo, a quel “paesaggio” espositivo nella sua totalità. Una struttura preesistente, quella in cui ci troviamo, completamente ripensata. Una specie di enorme garage dalle fredde pareti la nostra camera (in fondo sappiamo, però, che l’intero edificio è un ex stabilimento). Permane la grata laterale di ferro sul pavimento, corre lateralmente, lungo tutto il perimetro dello sproporzionato vano dai soffitti altissimi. Incombe la presenza del grande elemento nel mezzo dell’ambiente, lo domina. Ad un certo punto del percorso un disco scuro, attaccato alla parete, che presenta una non troppo accentuata concavità, emana riflessi sordi delle persone e delle cose, riflessi “morti”, asettici, ma al contempo caldi, anche.
Avvicinandosi con il volto all’equilibrata rientranza delle superficie di cui la nostra percezione non può cogliere la profondità, le figure alle nostre spalle si allontanano progressivamente, in proporzione all’approssimarsi degli occhi, provocando uno straniante ronzio prospettico nella testa, mentre il rosso dello scenario dominante su tutta la sala sembra rispecchiarsi nella zona inferiore del cerchio perfetto, che rielabora nella sua oscurità le luci circostanti. Anche se in realtà l’opera, leggiamo sulla guida, è Mirror (Black to Red), e quel rosso è previsto nell’effetto ottico.
Lì vicino, nello spazio intermedio fra le mura di quell’ala del vasto interno, si staglia un lineare agglomerato di una sostanza che sembra sabbia bagnata solidificata in un brulichio di corpuscolari appendici. Sembra essere stata bloccata nell’istante prima di seccare totalmente e farsi sbriciolare dal vento, eternizzandosi in una miriade di minuscole erosioni frastagliate. La scultura è composta di una piatta base ed una sorta di zattera inclinata, in bilico su di un breve perno piramidale. La parvenza terrosa è in un attimo contrastata dal liscio rosso onnipresente del Sectional Body Preparing for Monadic Singularity. Il colore gommoso delle gommose (per la precisione si tratta di plastica) strutture di Kapoor. Su grandissima scala i morbidi pertugi, larghi o stretti, come tesissimi ma malleabili cilindri di membrane, come apparati interni al corpo umano, cavità vulvari o nervi ottici che si accavallano, si solcano diagonalmente nello spazio tridimensionale di questa struttura a forma di grande cubo svuotato.
Camminiamo al di sotto delle estensioni tubolari, di questi diaframmi avvolti su sé stessi, che si allargano alle estremità come la “corolla” di un grammofono, aprendosi sulle varie facce del cubo sui diversi lati della stanza. Tanto tempo fa, negli anni ’90, una gigantesca versione di questo organismo, anch’esso rosso come un tendone da circo plastificato, campeggiò per diverso tempo come una solenne presenza aliena in Piazza del Plebiscito a Napoli. Un immenso tubo in pvc sospeso, in apparenza tirato fino a restringersi notevolmente nel centro, con i fori aperti dei padiglioni sui due lati opposti, lì sostenuti da un intricata impalcatura in acciaio. Aveva una valenza diversa. Qui, visto dall’interno, il suo corpo richiama tessuti vivi, pur nella sua indubbiamente ascetica “preparazione alla monadica singolarità”, in un mondo di sovrapposizione fra il principio matematico, quello filosofico e quello costruttivo della vita, nell’unicità archetipica del tutto, nella quale, sin dall’inizio, le dimensioni sono fuse nella loro identicità, nell’unicum.
Stazioniamo in una posizione centrale, all’interno, sulla base di questo solido appositamente pavimentata per farvici camminare dentro. È evidente. Corre sull’impercettibile filo delle corrispondenze quell’esplicito rimando ai conglomerati polimerici i quali costituiscono la maggior parte delle opere che attorniano il grande e freddo mostro, per il vero caratterizzato da una pressoché sacra e non inquietante stasi, e che attingono alla morfologia ed alla crudezza della materia dei tessuti organici, connettivi, delle aderenze nelle cavità interne al corpo. L’odore delle sostanze chimiche ci disgusta un poco, preferiamo osservare alcune delle opere non troppo da vicino.
Impressionarci è ciò che esse intendono fare, incarnando nel silicone, nelle vetroresine, nei tessuti intrisi di pigmento ed investiti di una teatralità granguignolesca, la raffigurazione delle sostanze corporee, del sangue, dei muscoli, della pelle, degli attributi sessuali, delle ferite che le arti visive hanno suggellato su supporti pittorici, sui disegni e nelle sculture. Si tratta del contraltare terreno e materialista della (maggiormente) spirituale architettura in pvc. Entrambe le tipologie di struttura sono parti del medesimo gioco dell’esistenza, parte l’una dell’altra.
Unborn, muscular, foetal, flayed (scorticato), inner stuff (materia interiore), sono in effetti i termini riferiti a quelle creazioni, presenti nei loro titoli. Ma così facendo rischiamo una nuova incursione nella critica tout court. Non è facile ricordare precisamente la conformazione interna del MACRO, anche dopo qualche giorno appena. Perché gli spazi vogliono essere suggeriti ed evocati, e vogliono evocare, non farsi capire. È intrigante vedere che un’altra sala compare dietro il bianco paravento murario di fondo della stanza appena visitata, e lo è anche sentirsi un po’ disorientati. L’ossatura elastica di padiglioni sospesi, le larghe rampe di scale che si percorrono, quelle a chiocciola che penetrano verticalmente lungo tutti i piani approdando sino ad un terrazzo finale, che nel momento della mia visita è quasi totalmente buio e si lascia sovrastare da moderni palazzi tutt’intorno, murales parzialmente celati, non del tutto registrati dallo sguardo.
L’alienante attrazione della modulazione contemporanea, la successione inconsueta di parti diversamente conformate, gli ambienti estesi o raccolti, decine e decine di nomi diversi di artisti, margherite in tessuto ricamato sulle pareti chiare, e altre ridotte composizioni di margherite vere, una piccola fotografia di Jodice, l’ingresso alla biblioteca del museo da cui s’intravedono metallici scaffali ricolmi di volumi, il disegno di neon nella parete di fondo alla tromba delle scale che si estende, che continua fin su. E nel cortile aperto al secondo (o terzo?) piano, nel passaggio esterno fra le due ali dell’edificio, con l’opera (ve ne sono altre della Leone, sparse in differenti zone del museo), che altro non è se non una grata in ferro variamente costellata dei piccoli rifiuti urbani incastrati tra le strette fessure; la nostra spazzatura che si deposita con i suoi plastificati colori sullo squallido piano di calpestio della rete metallica.
Ci sovviene nuovamente la grande sala che al momento appartiene a Kapoor. L’angolo che scompare in sé stesso, Corner Disappearing into Itself, anch’esso in metallo, ma di un metallo nobile. I tre angoli convessi, la base ed i due laterali, tirati a lucido da questo rivestimento in vetroresina ed oro. La sempre magnetica illusione dell’infinito negli specchi che si specchiano in loro stessi. Il punto focale nel mezzo, l’incontro in cui l’angolo si auto-fagocita e da cui insieme si rigenera. Il paradosso del movimento nella staticità, e viceversa. Riscendiamo qualche gradino con la memoria. Sul padiglione che aleggia al centro dell’atrio, nel vuoto attorniato dal ballatoio che dà accesso al piano nobile, lunghe strisce rettangolari di carta, appese come leggiadre pergamene al soffitto, discendono fino a toccare o distendersi in parte al suolo. Su di esse colori ed inchiostri reinterpretano segnali sonori, la melodia, lo scorrere delle note le quali modulano l’armonia che arriva al nostro orecchio (l’opera è di Daniele Lombardi). Tutto è muto tranne che su quei fogli. Anche il pianoforte lo è. Atmosfera sfrondata e a tratti appesantita. Poi fusti di esili ma rigogliose piante dietro lo schermo di un vetro. Video in cui persone spiegano cosa sia per loro arte (fra di esse anche l’appena scomparso Jannis Kounellis). Ecologia, senso dell’umano e collage. Finzione e riproduzioni fotografiche della realtà, e tante altre cose.
Visitare il MACRO per la prima volta è come andare in un posto nel quale da ogni uscita di qualunque sala si potrebbe forse raggiungere qualsiasi entrata, dall’esterno si può risbucare all’interno e poi di nuovo all’esterno, un luogo di complicate linee direzionali, squadrate e curve, di passaggi improvvisi e di più o meno solide delimitazioni. Qui si sale e si scende, si esce ed entra di continuo, ci si volta e ci si ferma in un movimento circolare fluido e ad un tempo cadenzato. L’effetto sorpresa è garantito. Nella seriale programmazione di contemporaneità degli edifici che devono esporre il nostro contemporaneo, con il pericolo di distaccata convenzionalità sempre dietro l’angolo, questa sede museale di via Nizza riesce a lasciarci il necessario spazio mentale per curiosare liberamente e per immaginare, e ci stordisce con la molteplice possibilità prospettica dei punti d’osservazione, con la non lineare articolazione dei suoi prodotti culturali.
Che vi sia o meno l’occasione di una grande ed osannata mostra d’autore, che siano presenti uno o più nomi da noi ritenuti apprezzabili oppure no, tornarci una seconda volta è di dovere per chi volesse verificare che l’attraversamento degli spazi intrapreso durante la precedente visita non lo si sia del tutto concepito nella propria testa, e che quella marea di oggetti e concetti sia ancora integralmente lì, per davvero.

 

 

 

Anish Kapoor
a cura di Mario Codognato
Museo MACRO
Roma, dal 17 dicembre 2016 al 17 aprile 2017

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