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Tuesday, 26 March 2013 10:29

CICLO BERGMAN (parte VII) - Il silenzio

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“Dopo l’uscita de Il Silenzio ricevetti una lettera anonima, piena di carta igienica sporca; potete immaginare dunque come il film, che per gli standard odierni sembra piuttosto innocuo, fu ritenuto molto ardito. Ci furono persino delle persone che mi telefonarono minacciando la mia vita e quella di colei che era mia moglie a quel tempo”.

(Ingmar Bergman)

 

Dopo aver avviato la riflessione tutta teologica del rapporto uomo-mondo-dolore, Bergman si avvia a chiuderla. Lo fa argomentando all’interno di un percorso artistico che parte nel 1956 con Il settimo sigillo e che porta ad un trittico di opere che hanno come tema cardine l’allontanamento progressivo di Dio. Il Dio mostruoso, ma allo stesso tempo amorevole di Come in uno specchio diventa un Dio che dubita di se stesso in Luci d’inverno, e nel terzo episodio della trilogia, Il silenzio (1963), semplicemente scompare. Il film in questione è un’opera dura e impegnativa. A tratti addirittura sperimentale ed ardita (ancora una volta straordinario l’apporto di Sven Nykvist, secondo il giudizio di molti grandi cineasti il connubio Bergman-Nykvist è stato fondamentale per le fortune professionali di entrambi) con addirittura qualche audace (per l’epoca) scena erotica. La storia narra di due donne, due sorelle, Ester e Anna, che, durante il viaggio di ritorno in Svezia, sono costrette a fermarsi in una città (dalla non specificata collocazione geografica) di nome Timoka. Con loro anche il figlio di Anna, Johan. Dopo il viaggio in treno il terzetto va ad alloggiare in un albergo in centro. Capiamo subito che Ester è molto malata e passa le intere giornate a letto. Anna invece esce in strada, frequenta bar e teatri di avanspettacolo alla ricerca di incontri occasionali con l’altro sesso. Suo figlio intanto vaga per i corridoi e le stanze dell’albergo (il film ispirerà le famose sequenze di Shining di Kubrick) giocando con la sua ombra e facendo la conoscenza di personaggi surreali: un goffo uomo paffutello che aggiusta una lampadina, un gruppo di nanetti che fa le prove per lo spettacolo, il cameriere dell’albergo che gli regala cioccolata e poi gli fa vedere le foto di un funerale (forse di suo figlio). Il tutto in quasi totale silenzio. I personaggi secondari infatti si esprimono in un linguaggio incomprensibile per i protagonisti (solo i nani parlano una lingua conosciuta, lo spagnolo) e l’unico modo per comunicare è gesticolare, mimare. Ester intanto si aggrava, il cameriere dell’albergo va spesso ad aiutarla e confortarla (personaggio quello interpretato da un bravissimo Hàkan Jahnberg ai limiti del surreale particolarmente riuscito). In un momento raro di pace la donna riesce a masturbarsi, ma poi piomba nuovamente nella disperazione. Anna invece appaga la propria lussuria rimorchiando e invitando in albergo un barista. Suo figlio la scopre ed avvisa innocentemente la zia. Quest’ultima raggiunge suo sorella ancora tra le braccia dello sconosciuto. Anna inveisce contro di lei, contro il suo modo di vivere, contro la sua inutile volontà di trovare un senso. Ester torna in camera, lasciando la sorella abbandonata al pianto. Il giorno dopo Anna decide che è giunta l’ora di ripartire. Ester invece si aggrava, è sul letto ormai moribonda. Chiede al cameriere foglio e penna per scrivere il suo testamento. Ha intenzione di lasciare la lettera nelle mani di suo nipote. Johan la raggiunge e conserva la lettera. Poco dopo mamma e figlio sono in treno. Il piccolo Johan apre il foglietto e vi trova scritto alcune traduzioni di vocaboli di quella strana lingua parlata a Timoka. Una di queste è: hadjek, anima.

Un film di sicuramente difficile lettura. Abbiamo però alcuni elementi chiari. Innanzitutto qui torna veemente il concetto di incomunicabilità già presente in altre opere del regista. Il silenzio del titolo pervade lunghi tratti della pellicola che in molte scene rimane muta. Fantastica l’idea di rappresentare tale condizione ambientando la vicenda in un paese immaginario che parla una lingua incomprensibile. In alcune sequenze poi il piccolo Johan, affacciandosi alla finestra, vede dei carri armati attraversare la strada. Una città forse in guerra, in cui tutto può accadere. Bergman concede qualche indizio in un’intervista specificando che Timoka è una parola estone che significa “appartenente al boia” e che ha iniziato a pensare al soggetto del film in seguito ad un sogno ricorrente: “Mi trovo in una grande città straniera. Sono in cammino verso una parte della città dove c’è il proibito. Non si tratta soltanto di loschi quartieri di piacere, ma di peggio. Là sono le stesse leggi della realtà e le regole della vita sociale ad essere abolite. Tutto può succedere e tutto succede. Ho fatto questo sogno più e più volte. La cosa irritante era che io ero in cammino verso il proibito, ma non ci arrivavo mai. Mi capitava sempre di sbagliarmi o di cambiare sogno”. Ad ogni modo, abbiamo idea che questo sia stato, come lo stesso autore confessa, solo l’input della sceneggiatura e non la sua intima essenza. Sicuramente nell’idea di Bergman, d’accordo con Nykvest, c’era l’intenzione di “essere spudoratamente impudichi”, e si riferisce allo stile del film parlando esplicitamente di “lussuria cinematografica”. L’accoglienza, d’altronde, non fu indifferente, fu censurato in alcuni stati, compresa l’Italia. Nel nostro Paese venne poi riproposto eliminando la scena dell’autoerotismo di Ester. Ma in che senso possiamo accomunare quest’opera al discorso avviato nelle due precedenti? Innanzitutto ricordiamo che fu lo stesso Bergman ad accomunarle, salvo poi smentire tutto anni dopo (vedi Ciclo Bergman parte V – Come in uno specchio). Aggiungiamo poi che nelle intenzioni iniziali del regista il titolo doveva essere “Il silenzio di Dio” (Bergman si rese poi conto che un titolo del genere sarebbe stato troppo esplicito, impegnativo e audace). Assistiamo quindi ad un conflitto, quello tra le due sorelle, fatto di carne (si toccano, si rifiutano) e spirito (si guardano, si urlano contro) mediato dall’innocenza rappresentata dal fanciullo Johan. Il bambino scopre il mondo e ne è destinatario. Negli occhi innocenti del ragazzo possiamo intravedere lo stesso autore e le due controparti femminili potrebbero essere i conflittuali aspetti della sua stessa anima (da sempre Bergman nelle sue opere si appresta ad effettuare una vera e propria seduta di auto-psicanalisi). Tutto ciò però è ormai lontano dalla “grazia di Dio” (in questo film la parola Dio non viene mai pronunciata) e la fede, l’unica rimasta possibile, è quella nel prossimo (i personaggi non si capiscono, devono esprimersi a gesti e “fidarsi” che ci si sia intesi). L’arte (altro elemento che ritorna spesso nei lavori del maestro a simboleggiare un potente rifugio contro il dolore) è forse una delle pochissime cose che possono infrangere l’incomunicabilità. Chiare in questo senso le due metafore con Bach protagonista. Nella prima, Anna seduta al bar sfoglia il giornale e l’unica parola che riesce a leggere è il nome del grande compositore tedesco. Nella seconda, più esplicita, Ester sta ascoltando alla radio una melodia di Bach e chiede al cameriere dell’albergo: “Come si dice nelle vostra lingua 'Musica'?”, il simpatico cameriere capisce e risponde: “Musica”. Il finale poi lascia una chiara eredità nelle mani del piccolo Johan. La zia Ester, ormai morente, abbandonata al silenzio di Dio, devia la sua fede nell’uomo e la sua anima. È interessante sapere però che anche qui le prime intenzioni del regista erano diverse. Infatti le parole scritte sul foglietto nella prima versione della sceneggiatura erano: “angoscia” e “gioia”. Bergman pensò poi di racchiuderle entrambe in un'unica parola: “Anima”.

Da sottolineare ancora una volta la prova delle attrici. Bergman aveva una quasi fissa compagnia di attori che utilizzava nei suoi film. In questo caso le due attrici scelte si superano, in particolar modo la Thulin, che dà una prova impressionante fornendo al suo personaggio un dolore esistenziale autentico. Bergman stesso commentò (ironicamente) la prova delle due attrici: “Erano dotate, disciplinate e quasi sempre di buon umore. Che Il silenzio, in un certo qual senso, sia diventato la loro disgrazia, questa è un’altra storia. Il film fece sì che i loro nomi divenissero internazionalmente noti. E l’estero, come al solito, si degnò di fraintendere la peculiarità del loro talento”. Il film fu accolto con pareri discordanti. Il critico cinematografico Mario Verdone (papà del Carlo nazionale) apostrofò Bergman con l’appellativo di “teppista”, sottolineando la scabrosità con cui venivano trattati i temi del film. A distanza di pochi anni invece l’opera acquistò tutto il suo valore e oggi, se il pubblico ha legato il nome del regista a Il settimo sigillo e Il posto delle fragole, cinefili e critici invece sono concordi nel ritenere Il silenzio un’opera tra le più importanti e complesse della filmografia del maestro e gli innumerevoli riferimenti simbolici l’hanno trasformata in una delle più affascinanti di sempre.

 

Retrovisioni

Tystnaden (Il silenzio)

regia Ingmar Bergman

con Ingrid Thulin, Gunnel Lindblom, Jorgen Lindstròm, Hàkan Jahnberg, Birger Malmsten

produzione Svensk Filmindustri

sceneggiatura Ingmar Bergman

paese Svezia

lingua svedese

colore b/n

anno 1963

durata 91 min.

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