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Sunday, 12 February 2017 00:00

Nada y pues nada y nada y pues nada

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Erano gli anni Cinquanta. Da Piazzale Susa ci facevamo a piedi il Viale Argonne fino a Piazza Ascoli, dove nel suo stile fascista volto al Romanico si erge il palazzo che ospita la Scuola Media Statale Tiepolo.
Tutte le mattine dell’anno scolastico. Io e Stefano Bonali. Avevamo da poco compiuto i tredici anni, durante il tragitto fumavamo goffamente le prime sigarette della nostra vita.
A quell’ora nelle vie a lato dei marciapiedi dove camminavamo il traffico milanese era già tendente all’isterico.


Siamo a vent’anni dopo. Bonali ha aperto un ufficio di commercialista nel Centro della città, la clientela di alto livello sociale che gli procura un reddito di tutto rispetto. Ha una moglie e due figli maschi che frequentano la stessa scuola elementare di Barbarella, mia figlia. Da pochi mesi suo padre ha avuto un grave incidente stradale alla guida dell’auto. Gli hanno dovuto amputare le gambe. Lui, Bonali, pur forte che sia di carattere, sta rischiando di cadere in una profonda depressione. È molto legato al padre, che ora vive solo essendosi separato dalla moglie da ormai tre anni, prima dell’incidente.
Con Stefano ci vediamo frequentemente, in qualche occasione anche con le mogli. Cerco di tenerlo su di morale. Siamo legati da una forte amicizia. Talvolta ho l’impressione che stia migliorando, ma quando meno me lo posso aspettare mi accorgo che è a rischio di ricaduta. C’è poi la faccenda della ragazza moldava che tiene in ordine la casa del padre, e in qualche circostanza gli fa da badante. Ed è qui che sorge il problema con la moldava, perché Bonali sospetta – anzi, ormai crede di averne le prove – che la giovane conceda al padre invalido qualche intima prestazione in cambio di una certa confidenza con il libretto degli assegni di lui.

Sono quasi le due di una notte stellata. Seduti a un tavolino all’aperto di un bar, in una coinvolgente Via Dante, ci scambiamo opinioni sugli ultimi libri letti. È una passione che abbiamo in comune. Cerco così di distrarlo per osservarlo meglio senza che lui se ne accorga.
– Tu lo sai, Stefano, che quel racconto mi ha quasi fulminato quando andavamo alle medie.
– Lo so. Me ne hai parlato così tante volte che alla fine mi sono sentito come obbligato a leggerlo.

Dunque? Si tratta di Un posto pulito, illuminato bene. L’ha pubblicato nel 1926 Ernest Hemingway. Fa parte della raccolta intitolata I quarantanove racconti.
– Era notte, come da noi adesso – Stefano.
– Ormai ubriaco dopo tutti quei brandy, il protagonista. Non c’erano ormai più clienti. E i due camerieri aspettavano con una certa impazienza che il vecchio, all’apparenza ottantenne, si alzasse e se ne andasse. Così da consentire loro di spegnere le luci e chiudere il locale.
– Uno dei due dice che pochi giorni prima il vecchio ha tentato di suicidarsi. Era disperato, senza una ragione. Ha un sacco di soldi. Lo ha salvato la nipote tirandolo giù da dove aveva tentato di appendersi per il collo con una corda.
– Dopo un ultimo bicchiere, si alza e barcollando un po’ se ne va verso casa.
– Il cameriere più anziano spegne le luci e – quando il giovane se n’è tornato a casa sua... dove dice di sperare che la moglie lo stia aspettando – si mette a conversare con se stesso.
– Già. Che si diceva mai? Ricordi?
– Si rendeva conto che prima o poi anche lui sarebbe finito tra quelli che fanno tardi di notte seduti in un caffè. E già coglieva il senso del nulla. Il nada. Recitava persino nella sua mente il Padre Nostro secondo il suo sentire del momento... Nada nostro che sei nel nada, nada sia il tuo regno... E così anche l’Ave Maria.
– Così, davvero!
– Già. La  struggente intensità di quella semplice parola... quel nada.
– Ma perché proprio nada?
– La località dove si svolge la storia è imprecisata. Ma è certo che siamo in terra di Spagna, dove lui, Hemingway, da giovane ha combattuto contro Franco. E ha scritto molte storie ambientate in quel Paese che tanto amava. In particolare le corride.
– Quando a sua volta è caduto in depressione per un’epatite, si è ucciso sparandosi in bocca con il suo fucile da caccia. Aveva sessantadue anni. Un uomo vigoroso come pochi e scrittore di culto che non ha avuto la forza di affrontare la malattia.
– Mah. Direi piuttosto la vecchiaia.
– Sì, penso proprio che tu abbia ragione, Enrico. E c’è da rifletterci, credimi.

Ci sono opere d’arte – in questo caso è la scrittura – che per i pensieri che destano, lo stato d’animo e l’impatto emotivo, rimandano per analogia a espressioni di altre forme artistiche. Ripensando, nel rincasare, alla serata con Stefano Bonali al bar di una Via Dante ancora sensibilmente avvolta da luce e brioso sentimento, mi è come apparsa nella mente una certa opera, la più famosa, di Edward Hopper dal titolo Nighthawks, che ha ritratto con rara maestria una situazine di umana solitudine. Una su tutte, per l’intensità di cui è permeata, quella che rappresenta una sorta di nulla esistenziale di opache figure accanto al banco di mescita di un bar americano.

Nell’accompagnarmi, per un tratto, a casa Stefano mi parla di sé, di suo padre, di altro. E mi pone delle domande.
– Per come ti conosco io, Enrico, tu fortunatamente non hai una visione nichilista della vita. E sei del tutto alieno da qualsiasi forma di depressione. Sei anche un buon lettore. Ma che mi dici di certi grandi scrittori che in fondo ci aiutano con le loro opere a esplorare l’animo umano offrendo al tempo stesso al nostro faticoso piacere della lettura, che non vuole essere di solo intrattenimento, scritti come quel racconto del vecchio al caffè di cui abbiamo parlato, e che trattano di una disperazione in apparenza senza scampo? C’è un nesso in tutto ciò?
– Capisco cosa vuoi dire, Stefano. Se poi pensiamo che alcuni di quei grandi artisti si sono tolti la vita, la faccenda sembrerebbe ancora più oscura. Tuttavia vorrei anche dire – e ora, lasciamelo fare, volo alto – che un omaggio al carme di Ugo Foscolo riguardo al riscatto individuale ultraterreno attraverso il ricordo in questo caso ci sarebbe d’aiuto. In momenti di buio non lasciarsi andare ma reagire è un imperativo. Fermo restando che è pressoché impossibile, ogni volta che capita di pensarci, comprendere appieno qual è il tortuoso percorso interiore di quegli artisti, di cui stiamo parlando, che devono conciliare il lodevole quanto duro impegno per portare il lettore a riflettere ‘su che cazzo è l’essere umano’ (dall’intervista rilasciata da David Foster Wallace a Larry McCaffery) con il contradditorio epilogo della loro esistenza.
– Si potrebbe rispondere a questo tuo rovello – che se vogliamo è anche il mio – con la bidimensionalità di ciò che gli scrittori narrano. In particolare nei racconti. Molto più che nei romanzi, non di rado ridondanti. Un buon scrittore lascia all’immaginazione del lettore la libertà di individuare il punto d’arrivo, in sostanza la conclusione, della storia che ha narrato. E noi due, proprio oggi che ne abbiamo parlato, sappiamo che Ernest Hemingway è noto anche per la teoria della ormai famosa ‘punta dell’iceberg’. Non è così? – Sì. Adesso però lasciami pensare come posso organizzarmi per togliere mio padre, e naturalmente anche me stesso, dalla depressione. In realtà un’idea ce l’avrei: domani mi metto in contatto con Ottobock.
– E che è?
– Ha sede a Cremona, ed è un Centro Protesico dalla soluzioni avanzatissime. Da loro posso comprare quella che loro chiamano ‘La Ferrari’ delle gambe artificiali. Così mio padre potrà alzarsi dalla carrozzella. Camminare. E non solo in casa.
– Fantastico! Vedi, Stefano, anche questo è un esempio eloquente quanto basta. Tornando al ‘Niente’ – l’hemingwayano ‘Nada’ – se siamo lettori attenti e portati all’approfondimento è un grave errore concludere che esprima in assoluto uno stato di vita dal quale non si può uscire se non drammaticamente. La narrazione si sviluppa a diverse intensità e livelli emotivi, e l’interpretazione va ricercata tra le sue pieghe, comprese le più recondite quasi si trattasse in certi casi di un insvelabile mistero. No? Una lettura pregiudizialmente estrema, di superficie, è improponibile. Perché la storia narrata chiama sempre i vari lettori come a una collaborazione con lo spirito di chi l’ha scritta, giacché, se letta secondo una visione esistenziale aperta alla pluralità, ci porta a pensare un modo prossimo al reale, o almeno verosimile, dell’esistente anche quando tratta situazioni seriamente problematiche. – E qui è proprio il caso di richiamarci, per le profonde implicazioni che comporta, a Jonathan Franzen con il suo Leggere, scrivere, resistere al vuoto. Il debito di Franzen, Wallace, Carver... e non pochi altri verso Hemingway! Che dire.
Guida lui l’auto verso le nostre case, lo osservo e colgo nei suoi occhi scintille di una gioiosa serenità recuperata che mi coinvolge. E mi domando se anche lui, come me, in questo momento stia sperando che, una volta a casa, la moglie sia ancora sveglia... aspettando il marito.

 

 

Ernest Hemingway
I quarantanove racconti
traduzione di Vincenzo Mantovani
Einaudi, Torino, 2007
pp. 554

Jonathan Franzen
Come stare soli
traduzione di Silvia Pareschi
Einaudi, Torino, 2003
pp. 279

Edward Hopper
Nightawks
olio su tela, 1942

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