“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 22 January 2017 00:00

Uno sguardo appena

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All’epoca avevo ventitré anni. Ero decisamente un bel giovane. Ambizioni? Una nebulosa. Ma percepivo − sia pur latente nelle pieghe del mio animo − un che di assolutamente mio. Un appagante senso di essere depositario di potenzialità, per quanto vaghe nei contorni, del tutto assenti in quel poco che ritenevo di cogliere nel modo di essere di molti miei coetanei, con l’eccezione degli amici più stretti. Loro, quei miei amici, avevano deciso di continuare gli studi. Io di perdere tempo nelle aule universitarie non me la sentivo per niente. Gli anni del liceo, lo squallido grigiore didattico di quell’esperienza, mi avevano segnato al punto di convincermi che mi sarei fatto la necessaria cultura da solo. Altrove erano i miei pensieri.

Ambivo a un tipo di vita sebbene non ancora disegnato con precisione nei dettagli nella mia mente, ma tuttavia stimolante. Paradosso, ma solo in apparenza. Assecondando queste mie tendenze non mi è stato difficile raggiungere la posizione di addetto stampa di una filiera di fondamentale importanza economica, con il risultato di essere in grado di influenzare, con il mio ruolo, le strategie di sviluppo delle società facenti parte del gruppo.

È la moglie di Giorgio ad aprirci. Uno dei primi incontri da quando noi quattro siamo in pensione, dopo una carriera ad alto livello manageriale. Sessantenni con quel quid di velleità dinamica che ci accomuna a dispetto dell’età.
L’ultimo a ritirarsi dal lavoro è stato Giorgio. Dopo essere stato pressoché costretto a lasciare in anticipo sull’età pensionabile il suo ruolo di project manager a un nuovo arrivato sui trent’anni. L’azienda gli ha offerto la possibilità di rimanere in servizio per un altro anno, giusto per dare le necessarie consegne a chi lo ha sostituito. Quel giovane a Giorgio è piaciuto sin dal primo incontro, ne è rimasto favorevolmente impressionato sia per le idee chiare su come dirigere quello che sarebbe stato il suo dipartimento sia per gli obiettivi di sviluppo all’altezza del ruolo. Sicché gli è parso onesto fargli un dettagliato quadro aziendale, senza tuttavia tralasciare di metterlo in guardia dalle trame ordite dal direttore generale e dal capo dell’ufficio amministrativo, che tendono a influenzare per interessi personali lo sviluppo della carriera di colleghi dalla vocazione, per così dire mafiosa, e perciò facilmente manipolabili. Della faccenda Giorgio non ha fatto un dramma, gli è bastata una corposa buonuscita.
– Non ti smentisci mai, Enrico... in ritardo come sempre – è il coro di voci che mi accoglie accompagnato da mia moglie Laura. Lancio una rapida occhiata nel salotto dove dalle poltrone e dal divano in cui si trovano tutti in palese relax con bicchiere pigramente in mano colgo sorrisi tra l’ironico e il caldo benvenuto. L’ambiente è più che rassicurante, preludio di una serata che promette il meglio.
Marco è con la nuova amica di almeno trent’anni più giovane di lui. Sua moglie, ormai in preda alla sindrome bipolare, è definitivamente ricoverata in un istituto privato, che a lui costa un sacco di soldi.
Lele è solo. Ha avuto sin qui diversi legami con l’altro genere, ma niente di definitivo, ha girato mezzo mondo per lavoro, la ragione per la quale, secondo lui, non avrebbe mai potuto permettersi limiti di movimento. Così usa dire, ma pochi gli credono.

Eravamo compagni di classe, noi uomini. Stavamo bene insieme. Si studiava poco. Io, poi, meno di tutti. Ritenevo di avere ragione di credere che ci avesse visto giusto quel famoso giornalista del Corriere della Sera secondo il quale la povertà dell’insegnamento nei nostri istituti scolastici di vario grado dipendesse dal fatto che i maestri delle elementari non sono laureati, i professori della medie sottopagati e quelli universitari impegnati prevalentemente in altri lavori.
Ognuno di noi ha percorso poi la sua strada. Cosa avevamo in comune per tenerci in contatto anche dopo gli studi e nel corso delle nostre carriere lavorative? Interessi culturali, ma con interpretazioni talvolta contrastanti. Le idealità politiche in parte diverse, senza tuttavia momenti di tensione tra noi. Sta di fatto che il deprimente vuoto della società in cui viviamo, l’incerto senso dell’esistenza e quindi della condizione dell’individuo che rischiavano di contagiarci, non ci toccavano più di tanto. O almeno così ci sembrava.
Il sesso, quello sì, ci accomunava. Tante le nostre avventure, talvolta in compagnia, in altre occasioni separati − specie quando tra noi entravamo in concorrenza. Poi ci siamo sposati. Lele da parte sua ha sempre giocato da battitore libero, in perfetta coerenza con sé stesso. Tutte quelle storie venivano poi coronate da incontri a stimolante grado etilico, e ne parlavamo.
– Ho appena finito di leggere Rayuela – dico. – E mi è venuta un’idea – gli occhi che fanno un rapido giro del salotto.
Li vedo accomodarsi meglio sulle poltrone e sul divano, controllano in apparenza distrattamente il livello di ciò che stanno bevendo. Le donne per un attimo smettono di parlare tra loro.
– E qual è ‘sta idea? – è Marco che me lo chiede. Lui, più di tutti noi, ha un incontenibile bisogno di novità. Deve distrarsi da un tormento che non gli dà pace.
– Ma intanto, ditemi: chi di voi ha letto quel libro?
Tutti che scuotono la testa. Laura mi guarda, forse sentendosi un po’ a disagio.
– È Pablo Neruda che ha scritto: “Chi non ha letto Cortázar è perduto”. – Niente da dire Giorgio? Tu avevi iniziato a leggerlo. No?
– Sì, è vero. Ma poi l’ho piantato lì, mi è parso cupo.
– Be’ non sparare cazzate! Non è da te.
Una risata generale, con un buon rabbocco ai bicchieri.
– Ascoltatemi bene – riprendo. – La mia idea è questa, e posso dire di averla rubata a Rayuela. Un ruolo importante, in quel romanzo, l’ha il Club del Serpente definito come una sorta di ‘concilio dei filosofi’, ossia un gruppetto di intellettuali male in arnese di diverse nazionalità, che a Parigi usano incontrarsi nella casa, solitamente poco pulita, di questo o di quello facendo l’alba tra chiacchiere sull’arte pittorica, il cool jazz e altro, mandando giù bevande dozzinali e caffè di pessimo gusto. È chiaro che noi non siamo come quelli lì, ma se adottassimo virtualmente il concetto di Club potremmo arricchire i nostri incontri stimolandoci a elaborare un obiettivo da rendere in qualche maniera concreto. Insomma, tale da metterci così al riparo dalla noia se non dalla malinconia, che sono sempre in agguato... a una certa età.
Occhi sgranati, che messi insieme formano un incredibile punto interrogativo. Vuoi dire che non mi abbiano capito, mi viene da pensare.
– Proviamo con un altro goccio, dàì. Può darsi che riusciremo a immaginare a cosa si riferisce Enrico – questa volta è Giuliana, la moglie di Giorgio. Le altre, zitte.
– Ehi gente, non sto andando fuori di testa. Vi chiedo solo quel po’ di pazienza. Cercherò di non essere logorroico, come talvolta mi accusate di essere, lasciate che vi spieghi in sintesi dove voglio arrivare e soprattutto da dove partire, per capirci.
Mi fanno cenno di sì, qualcuno con una certa aria scettica.
E, stando attento a soppesare le parole, do inizio a quello che potrebbe apparire come il mio show. Per prima cosa dico che voglio richiamare l’attenzione di chi mi sta ascoltando sullo stato reale del rapporto tra gli esseri umani, limitandomi inizialmente a prendere in considerazione il mondo occidentale industrializzato, e non manco di anticipare che nei prossimi incontri dirò la mia anche su dove si rischia di finire con il pericoloso espandersi del capitalismo finanziario.
A questo punto le donne hanno già capito che per loro il discorso si fa se non proprio complicato perlomeno noioso, in quanto astratto. Maschilista, insomma. Si alzano e, sorridendoci, si spostano in un altro locale.
– Conoscete il mio debole per la letteratura e l’importanza che ritengo le si debba riconoscere. Senza trascurate che mi piacerebbe tanto qualche lettura in comune.
– Coraggio Enrico, da' inizio al pistolotto – Lele.
– No, tranquilli, nessuna lezione. Ma voglio fissare un punto di partenza, e a tale scopo tiro in ballo – scusate l’espressione un po’ rozza − uno scrittore che, chi più chi meno, ciascuno di noi conosce. Quello scrittore che ha voluto lasciarci a soli quarantasei anni ha detto cose di estrema importanza in una intervista che suona come un manifesto, vibra di sentimento e di logica. In quelle pagine lo scrittore ci ricorda che una parte ineluttabile dell’essere umano è sofferenza, e che soffriamo tutti da soli poiché la vera empatia è impossibile.
– D’accordo, parti da Wallace. Ma non drammatizziamo – Marco.
– No, no, niente drammi. Il grande Dave può solo aiutarci. Basta saperlo leggere. Adesso quello che dico è roba mia. Noi quattro ci conosciamo e frequentiamo da una vita, ma chi di noi può dire di sapere sempre con esattezza ciò che ciascuno degli altri tre sta pensando?
– Sempre Wallace... va’ avanti con roba tua. E facci sapere dove vuoi arrivare – Marco.
– Ludoterapia, mio caro Marco. È qui che vi voglio portare.
– Ludoterapia? E che è? Una questione di neuroscienza? Vuoi forse dire che siamo di quel tanto sbarellati da avere bisogno di assoggettarci a un metodo psicoterapico per restare, o semmai tornare alla normalità?
– No. Io penso che noi siamo normali quanto basta... e anche la nostre donne che stanno di là, e mi piacerebbe invece averle qui con noi. Anzi, Lele, va’ a chiamarle e falle venire a darci una mano, loro hanno un senso pratico superiore al nostro... diglielo e capiranno, vedrai.
Ora siamo tornati tutti in salotto. Le donne visibilmente curiose, e non solo.
– Senso pratico, ho detto. E non a caso. Dobbiamo farne uso tutti quanti noi per tentare di mettere a fuoco l’obiettivo di non abbandonarci al puro, e forse sterile, piacere di incontrarci, ma trarre dai nostri incontri una qualche consapevolezza su dove l’umanità si sta avviando più o meno rovinosamente. A meno di limitarci a sperare − come ha scritto Jacques Attali nella fase più attuale delle sue ricerche − che l’essere umano, dopo un susseguirsi di fasi storiche a dir poco tragiche, troverà la forza di darsi un colpo di reni per mantenere in salvo sé stesso e il pianeta sul quale vive.
– Cazzo! Filosofia allo stato puro – Giorgio.
– Mettiamola pure anche sul piano filosofico. Ma andiamo avanti. Fino a ora da voi non ho avuto alcun utile contributo in questa specie di ricerca, che comunque vorrei fosse divertente e non tediosa quanto velleitaria. Come temo la pensiate.
– Sta’ tranquillo, Enrico, sei sulla strada giusta. Il tuo è nella sostanza un tentativo per farci sentire più appagante il nostro ritrovarci, e non tanto risolvere aristotelicamente i problemi del mondo intero, ciò che è al di là di ogni umana possibilità – Jenny, la giovane compagna di Marco. Con un sorriso che incanta.
– Bene, Jenny. Mi hai dato lo spunto che cercavo di mettere a fuoco. Mettiamola così: quando ci si ritrova, il vero collante che ci tiene insieme è il piacere di ascoltarci e osservarci l’un l’altro andando alla ricerca di quegli episodi – chiamiamoli così – della nostra vita sui quali farci delle sane risate, con la complicità di un buon numero di bicchieri. Ma, fermo restando che nessuno di noi si aprirà mai completamente agli altri, perché non creare le condizioni per trasformare il tutto in forma di gioco?
– E come? Ce lo vuoi spiegare?
– Be’. Se il gioco deve servire a stimolare il nostro potenziale umano, cominciamo con il fingere di enfatizzare al massimo certi avvenimenti, non solo i nostri, che riguardano l’umanità abbandonandoci a una fantasia senza freni. E la musica come atmosfera, quella non deve mancare. Mai.
– Così come a te di certo non manca un quid di immaginazione... vogliamo dire nostalgica? – Marco.
– Spiritoso! – Osservo la nostre donne. Una più che evidente eccitazione traspare dai loro volti così come dalle posture e gesti che si alternano in continuazione. Se mai ve ne fosse stato bisogno è la conferma dell’eterno femminino.
L’obiettivo è a portata di mano. Anche gli uomini, sia pur contenuti, mi trasmettono lievi segnali di assenso. Non resta che organizzarci, dividendoci i compiti. Io voglio restarne fuori, mi basta avere lanciato l’idea. Parteciperò al gioco riservandomi quel tanto di trasgressività necessaria di volta in volta. Le fantasie guidate le lasciamo nelle mani delle donne.
– Alla musica penso io – Giorgio. – E cominceremo con Brothers in Arms, la calda voce con la magica chitarra senza uso di plettro di Mark Knopfler. Poi verrà il resto, non vi deluderò. C’è n’è per tutti gli stati d’animo.
La serata sta per concludersi.
Lele, quello che sembrerebbe il meno tranquillo di noi, vuol dire la sua: – Bene, mi domando però se vale davvero la pena che noi ci si debba fare condizionare da come vanno le cose nella vita e, per conseguenza, seguire regole di comportamento che, mi pare, appaiono tutt’altro che spontanee.
– Da come vanno le cose, o da come appaiono? C’è una bella differenza. – Marco.
– Basterebbe non chiudere gli occhi... per capire – Giorgio.

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