“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 13 December 2016 00:00

La cortigiana in attesa

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Nuova produzione del Teatro i per Erodiàs di Giovanni Testori, secondo dei Tre Lai scritti agli inizi degli anni Novanta (essendo gli altri due Cleopatràs e Mater strangosciàs, usciti la prima volta per Longanesi nel 1994, un anno dopo la scomparsa dello scrittore).
Tre lai, tre lamenti che ricordano volutamente le composizioni medioevali, tre narrazioni autobiografiche che ruotano intorno ad altrettante dimensioni dell’amore. Non è escluso che Testori abbia voluto rifarsi alle cantiche dantesche, per il sentimento generale che sottende i monologhi.

La suicida regina d’Egitto resta avvinta alla sua disperazione, al rimpianto per Antonio e per l’intesa carnale che li univa, in un vortice linguistico e tematico che ruota sempre attorno alla tristezza per la perdita della potenza e ricchezza di un tempo, per la perdita del possesso sessuale del corpo amato, un lamento che non conosce evoluzione né consolazione. La madre piena di remissiva tristezza trova la sua consolazione nell’attesa del senso che si rivelerà alla fine dell’esistenza, in un monologo pregno d’amore materno e di rustica saggezza contadina che evoca l’incedere aulico e teologico del Paradiso. La gran dama e cognata del re inveisce nell’inferno della sua rabbia contro l’amato profeta che non le si è concesso, e di cui ha voluto la morte per vendicarsi di un desiderio mai corrisposto; deride il dio che si è fatto uomo perché non può credere ad un dio dei reietti e dei poveri, lei che non avrebbe mai potuto rinunciare agli agi del suo rango; non riesce a por fine ai suoi affanni perché l’amata testa decollata la distoglie, in un delirio allucinato, dal compiere l’estremo gesto. Ma mette in atto una piccola evoluzione tematica, e di registro, quando rammenta l’invito fattole dal Battista di aspettare, si dona una speranza di sciogliere il dubbio circa la verità di quel Gesù, solo dopo la fine del monologo successivo.
Perché nei lai sono frequenti i richiami metatestuali. “E voi, de giù, / perché in treno state / d’uscir dai vostri posti? / Non conossete / de la platea i costi?”. E ancora: “No, / non fuggite; no! / Ess’ello, / de certo, / sfilerà no de giù e giù / nel mezzo de lì, lì della platea...”, ammonisce gli spettatori Cleopatra, dopo che l’ha morsa l’aspide. La madonna dell’ultimo monologo rimanda alle eroine che l’hanno preceduta, chiudendo con “E l’è inscì, / o cara gent, / che in la terra sdesulada / la va a fini’ / ‘sta poara et granda trislaiada”. Ed Erodiade non è da meno: “Fin quand / [...] finida la sarà / la terza lamentada”. Un teatro che non cerca di nascondere la sua natura di artifizio, di costruzione letteraria consapevolmente post-moderna, dove le epoche e i luoghi non sono quelli propri dei personaggi coinvolti, dove gli elementi alti e quelli bassi convivono in una lingua succo di ingredienti frullati presi da ogni dove: richiami a Jacopone, a Dante, a Leopardi, all’opera, alla saggezza popolare dei vernacoli. Scrittura già inevitabilmente teatrale, anche se si limitasse ad essere declamata su un palco vuoto, privo di elementi scenici e di regia. Pura parola per sola voce, piena com’è di ritmo e musicalità al suo interno. E come giustamente scrive Sandro Lombardi – ricordando la sua messinscena di Erodiàs – la protagonista presenta all’inizio una voce strozzata, come quella dell’eroina che la precede, che a poco a poco si fa più intima fino ad arrivare al sussurro, per poi giungere ad un borbottio incomprensibile in mezzo a singulti e a risate soffocate, da cui si stacca solo lo “specciare” suggeritole dal Battista. Una evoluzione della voce che testimonia la speculare evoluzione della psicologia del personaggio. Ma una necessaria evoluzione di stampo prettamente teatrale. Perché a leggere bene il cambiamento in Erodiàs, l’ascesa su per i tornanti del purgatorio, non ci si può fermare alla sola pagina scritta, pena la riduzione del lamento alla dimensione della pura spettacolarità, del gioco sapiente (mai fine a se stesso) e strabiliante del funambolico linguaggio. C’è ovviamente bisogno della messinscena, del corpo attorale che veicoli l’umanità del personaggio, che celebri nella voce e nei gesti la carne e il sangue tanto evocati nei lamenti.
Renzo Martinelli immagina una situazione scenica dal forte impatto visivo, che segna coordinate ben precise sul personaggio interpretato da Federica Fracassi. La scena si presenta separata dalla platea tramite dei pannelli di plexiglass, a mo’ di vetrine, con su scritto “ERO” e “DIAS” (il pubblico le legge a rovescio), fissati su supporti di acciaio. A sinistra, a metà pannello, sono poggiati dei coni di carta. Sulla superficie di destra del pannello, giace una marionetta di legno senza testa. Dietro ai pannelli, una poltrona e una sediolina di legno. Accanto alla poltrona, un manichino con costume settecentesco, senza testa: tra le mani del fantoccio spicca la testa di Erodiàs, con tanto di barba posticcia. L’effetto è comico e straniante, ironico e macabro. La nobildonna vuole forse evocare ciò che più le manca? Quel profeta che ha tanto bramato e che ha fatto ammazzare, certa che non lo avrebbe mai avuto? Voci chiamano il nome di Jokanaan, rumori sinistri come clangori e cigolii irrompono sul palco. È una burlona questa Erodiade, vuol forse spaventarci come il fantasma di Canterville, giocare con la tragicità dell’episodio biblico per esorcizzarlo. Magicamente il busto del manichino si solleva, mentre la gonna resta a terra. Sorpresa! Erodiade esce dalla gonna e rimane in body color carne, ma prima fa il gesto di estrarre un dildo dal didietro, che pone in un cubo di plastica trasparente illuminato da un neon. Ecco un elemento simbolico e di riduzione del senso: invece che ad una testa (posta in un bacile su un trespolo, secondo le indicazioni del testo), l’eroina si rivolge all’oggetto-segno del godimento erotico, e ciò è possibile proprio perché lei sa di recitare, di trovare una variante alla recita scritta per lei e che è costretta ad interpretare nel limbo del suo eterno vagare. Vaga per le terre lombarde la “dama squinternada”, non trova requie all’assenza del profeta, di cui conserva la testa ormai rinsecchita. Federica Fracassi dà ottima prova dell’inquieto ricordare della donna, che come un criceto in gabbia corre da fermo, si agita, si siede e si alza, mima l’amplesso e modula la voce in un turbinio continuo di emozioni. E il comparto sonoro rimanda gli elementi disparati del monologo, proponendo voci fuori scena che si ripetono (“Porca concubina / feticistica sentina” o anche “A morte isto! A morte isto! / E a morte, insiem con lui, Cristo!”), colpi di pistola, suoni di carillon, musiche dalla Traviata, rumori di lame, il tema di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, campane a morto tubolari. Donna che ha distrutto il giocattolo più bello, Erodiàs dialoga con la Salomè-burattino senza testa, mentre narra del piano ordito per convincere il sovrano ad eliminare il riottoso profeta, di come abbia gettato la procace figliola nel letto e nel posto che fino ad allora era suo, tramandandole il suo stesso desiderio. Un desiderio impulsivo, pre-razionale, per il godimento del potere, degli oggetti, dei sensi. Una condotta pre-logica, immatura, incapace di pensiero astratto, di comprendere e dare credibilità al pensiero, al logos (“Agnus qui tol... / Qui tollis incus’è? / Di’ su, / eh?” ed anche “t’arei mostrato / che il tuo futur crocefissato / non eva né spirito, / né carna / né sangouo, no, / non quello, e neppur vene, / né cosos, / come se dise, / come? / Ecco, sì, ‘des remembro: / logos;”).
Ma il personaggio testoriano conosce il beneficio del dubbio, un momento di sospensione dalla reiterata virulenza del laio, un’ipotesi di uscita dall’incessante tormento dell’assenza d’amore. E sebbene esso richiami il meta-testo quando, invocando Giovanni di lasciarle compiere l’estremo gesto del suicidio (“Lassa / che faga anche me / come la Cleopatràs / in del prim’atto!”) sembra rivolgersi anche all’autore (“E fuor della scena finalmento / ‘me spettralico frammento / lassa me me andare, / sì ch’el terzo laiar, / de dopo l’intervallo, / se poda finalmento cominciare!”), appare in tutta la sua tragicità la richiesta di una risposta, di un senso, di una presenza, di una conferma a quella realtà così fieramente testimoniata dal profeta, in un crescendo drammatico che coinvolge e commuove in modo diretto e viscerale. È un corpo a corpo con il destino, con l’assenza, con l’immutabilità del reale che prelude ad ogni ipotesi di Speranza, spenta com’è la sua precedente idolatria (“Atea, sì, / atea, / m’hai fatta doventare! / ... / anche de quell’intatto / e lontanissimo mio iddio / m’hai fatta dubitare.”) e deserto il suo vuoto presente (“Cosa succed mo’, chi? / Cosa chi, ‘dès? / Chi, ‘dès e inscì?”). Un vuoto che si traduce in atteso cambio di tono, abbassamento di volume, fino al silenzio richiesto al pubblico ed ottenuto (“Silensi, giò, / silensi, in la platea!”), da cui arriva l’unica possibile soluzione, quella sussuratale dalla testa parlante: “Specciar, / specciare, / l’è l’uniga manera,”). Aspettare, aspettare, aspettare per poter vivere in questa valle di lacrime. L’attesa suggerita da Giovanni, e che Erodiàs ripete con rassegnata perplessità, nel gioco del testo rimanda alla fine della terza lamentazione, con il richiamo al lettore/spettatore tipico dei grandi classici, e si risolve, nel finale del monologo, con una veemente ripresa del vendicativo spirito primigenio, con lei che minaccia di mangiarsi tutta la testa prima di sgozzarsi per dimostrare al mondo intero che il regno annunciato dal profeta è solo una tragica menzogna. Ma è qui, in questo prefinale umanissimo e dolente, che la regia sceglie di introdurre uno scatto, un detour, rispetto al dettato testoriano, e Federica Fracassi rende anche quell’ultimo sussulto d’orgoglio del finale un’invocazione sofferta e sincera, reale, coinvolgente, vibrante.

 

 

 

 

Erodiàs
di Giovanni Testori
regia Renzo Martinelli
dramaturg Francesca Garolla
con Federica Fracassi
assistente alla regia Irene Petra Zani
suono Fabio Cinicola
luci Mattia De Pace
consulenza artistica Sandro Lombardi
creazione costume d’epoca Cesare Moriggi
consulenza e realizzazione oggetti di scena Laura Claus
produzione Teatro i – con il contributo di Regione Lombardia/NEXT
foto di scena Lorenza Daverio
durata 1 h
Milano, Teatro i, 30 novembre 2016
in scena dal 16 novembre al 5 dicembre

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