“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 24 September 2016 00:00

Non "Ho.me" stessa

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Dolce ma non docile, muove i suoi passi lo straniero sul palco di Ho.me. Sul palco di una casa dove "ho-me", possiedo me stessa, tutto è sotto controllo. La compagnia Vernicefresca, con l’attenta regia di Massimiliano Foà, mette in scena una casa distopica, fatta di grigi glaciali, dove chi viene da fuori non è il benvenuto. Una casa scandita da un tempo decisivo, sempre sul punto di cominciare.
Ho assistito ai primi passi di Ho.me a luglio durante calde giornate di prove milanesi. È una grande emozione stare seduta fra il pubblico, nel buio della sala, e vedere i colori freddi delle scene, le luci affilate, i costumi, le musiche, tutto ciò che compone il prodotto finito, costruito intorno ai corpi delle quattro ragazze e al lavoro di regia che già vedevo all’opera un paio di mesi fa.

Ecco cosa è diventata ora la casa di Ho.me: un’atmosfera surreale, allegorica, inquietante. Quanto di più lontano dall’idea di accoglienza e di calore domestico. Le due figure femminili che abitano la casa indossano abiti quasi incolori, squadrati, dritti ma anche storti, e non fanno che ripetere gli stessi gesti, spostano sgabelli tutti uguali, che diventano sedie, tavoli, piedistalli. Tutti uguali. Suprema indifferenza della scenografia. Arianna Ricciardi è impegnata nella ricerca di una scarpa perfetta, cui devono somigliare tutte le altre scarpe. Martha Festa scala una collina per vedere le balene e travasa l’acqua da un recipiente trasparente ad un altro, perché l’acqua di ieri non è l’acqua di oggi, eppure noi vediamo solo acqua. Suprema indifferenza della ritualità. Vi è un momento condiviso dalle due donne, che, sedute una a fianco all’altra, accendono candele, le allontanano e le avvicinano alle labbra, soffiano in modo continuo e ossessivo, poi le spengono, senza apparente motivo. Non parlano fra di loro, si fanno appena qualche cenno, sorridono senza allegria e sospirano sillabe spensierate. Nello spazio della casa, quando i loro tragitti si incrociano, le due donne si scambiano gesti duri, codificati, che riecheggiano uno sfondo militare. Suprema indifferenza della relazione. La drammaturgia di Valentina Gamna accompagna, delicata e intensa, ogni soluzione scenica, senza spiegare nulla, soltanto proseguendo il movimento con le parole. Infatti, come nel migliore teatro, dentro Ho.me i codici di comportamento sono innanzitutto codici di movimento. “C’è un modo giusto per fare ogni cosa”. Ci fa sentire stranieri non capire il significato dei gesti e dei rituali messi in scena: accendere candele per poi spegnerle, travasare l’acqua da un recipiente all’altro, sono azioni insensate per antonomasia. Ma non siamo soli, noi, spettatori, a non capire. È entrato qualcun altro in casa.
Dolce ma non docile, muove i suoi passi lo straniero sul palco di Ho.me. Tutto intorno al palco di questa casa, viene costruito un muro per delimitare i confini e vivere in sicurezza. Finché lo straniero resta fuori dal muro, è immediatamente riconoscibile come Altro, Diverso. Ma se qualcuno riesce ad oltrepassare i confini, scatta l’emergenza, bisogna immediatamente identificarlo, delimitare una nuova frontiera delle differenze per scongiurare il rischio di una contaminazione. In greco antico ci sono due parole per dire Straniero: Barbaros è lo straniero che vive fuori dai confini, non civilizzato, abitante di un’altra cultura, distante nello spazio; Xenos è, invece, lo straniero che sta dentro ciò che è familiare, l’intruso che si infila nelle maglie del mondo conosciuto e rassicurante. Freud utilizza il termine tedesco Unheimlich, che potremmo tradurre con "Perturbante", per indicare l’evento dell’estraneità, attraverso cui le cose che conosciamo cominciano a cambiare forma, a sfuggirci di mano, in maniera imprevista e pericolosa. Lo Xenos è il tarlo che entra nell’armadio della cameretta e lo disintegra lentamente.
Fra le incredibili cornici sonore di Massimo Cordovani, che sono lame e bolle e rintocchi, a definire uno spazio di assoluta presenza, dentro Ho.me avanza sconosciuto e anonimo uno Xenos che ha il corpo di una donna e un viso pieno di paura. È diversa da tutti, Rossella Massari, muove passi sfiniti di straniera in un mondo che ha perso di vista l’essere umano. Ho.me è il regno delle cerimonie e degli automatismi, dove non c’è spazio per un corpo che chiede di mangiare e dormire, che disturba nella sua naturalezza immediata. Come contraltare di questo corpo che sta a contatto diretto e forzato con i propri bisogni, entra in scena la vicina di casa, Jessica Festa, che sente rumori strani, non dorme e non vuole dormire. La vicina porta in mano un fucile come campanello d’allarme, per proteggere le sovrastrutture, codificate da un imperativo di sicurezza vuota. Qui lo Xenos è la possibilità di riscoprire il senso di ogni cosa, seppellito sotto l’automatismo del regime: “Mi piace tutto. Quando le cose smettono di esistere, ti mancano”. Ogni momento di vita è un’occasione di gioia, ricorda la voce straniera, dal sonno alle feste. E proprio la festa è il momento in cui tutto cambia, come un tornante: “Alle feste si mangia, non si balla. Non abbiamo mai ballato” urla la vicina, mentre intorno, impercettibile, comincia la tempesta della danza. Il movimento si scioglie dalle cerimonie e dai codici, senza più un modo giusto per abbracciare, per salutare, per vivere. Non si può non ricordare il momento in cui Martha comincia a ballare, come un brivido, nel suo sorriso tutto il senso di un corpo che si scopre vivo per la prima volta. La liberazione è arrivata. Eppure, proprio nel momento in cui ci si convince che il tiranno non serve più, che il regime è finito, che non ci saranno più padroni, ad un tratto, il fucile sfugge di mano e, alla prima occasione, vittime e carnefici si confondono irrimediabilmente. Dentro Ho.me nessuno si salva, tutti stanno sul filo del rasoio. Non c’è conciliazione, non ci sono buoni e cattivi. Ecco cosa succede quando non ci sono confini davvero, sembra suggerirci Foà in maniera magnificamente sottile, costruendo uno spettacolo che è un’esperienza, un simbolo, un viaggio.
Che cosa rimane senza la salvezza? “Cambia tutto se ci si avvicina”. La scena prende congedo ricordandoci che la liberazione è avvenuta, e nessuno potrà far finta che non sia così. Non è rimasto tutto come prima. “Se le parole che conosciamo smettessero di significare quello che significano...” immagina una voce in mezzo allo spettacolo. Ci siamo avvicinati e tutto è cambiato, le parole hanno smesso di significare quello che significavano. All’inizio le due donne che vivevano dentro Ho.me erano sorelle per gioco, per abitudine, confuse nei loro rituali solitari, invece alla fine la relazione è passata attraverso la verità dei corpi, e sono diventate sorelle veramente, smettendo di essere uguali, prendendo strade diverse. Tutto cambia, c’è chi resta e chi parte, ma, da vicino, non c’è più indifferenza. Dentro Ho.me siamo tutti diventati stranieri. Il pubblico di Milano esplode in un applauso sincero, lungo, scrosciante, che si ripete entrambe le serate in cui lo spettacolo va in scena.
Davanti alla tragedia dello straniero, fra i barconi come balene, Ho.me fa balenare la possibilità contraddittoria e inintenzionale di una forma di accoglienza nuda. Al di là di ogni buonismo, lo spettacolo rivela l’effetto straniante di un estraneo in casa, dimostrando che non basta un modello di accoglienza mosso da un vago senso di giustizia o da una coscienza politicamente corretta che rifiuta la discriminazione. All’ospitalità di diritto, subentra un ordine di discorso differente, in cui lo straniero si presenta per quello che è, non dice il suo nome, non dichiara la sua provenienza, non si fa garante della propria identità e non risponde di sé stesso davanti alla legge. Ciò impedisce di pensarlo come un soggetto cui si possa chiedere reciprocità: non ti apro la porta perché domani tu la aprirai a me. Apro la porta perché è da sempre già aperta, solo che io non me ne ero accorta, finora. Ti accolgo come straniero accogliendo la tua estraneità, il tuo movimento che mi rende estranea a me stessa. Divento straniera, non "ho-me" stessa, accetto di farmi cambiare dal tuo viaggio e di farmi contagiare dall’invasione che è la tua storia. Attraverso di te, riconosco la mia identità come Altra. Non "ho.me", cerco casa fuori dal possesso, cerco casa mettendomi in cammino, sapendo che posso restare qui o partire, ma anch’io, come te, non posso che abitare nel viaggio.




 

Ho.me
da un’idea di
Martha Festa
drammaturgia Valentina Gamna
regia Massimiliano Foà
con Jessica Festa, Martha Festa, Rossella Massari, Arianna Ricciardi
elementi scenografici e disegno luci Maurizio Iannino
costumi
Simonetta Ricciarelli
sonorizzazione e musiche originali Massimo Cordovani
locandina Alessia Bussini
comunicazione e grafica Lara Belcastro
foto di scena Valentina Mignogna
produzione Vernicefresca (vincitori della III Edizione del Bando AMAPOLA R-esistenze creative della FE Fabbrica dell’Esperienza – Milano)
lingua italiano
Milano, Teatro Renzo Casali – FE Fabbrica dell’Esperienza, 18 settembre 2016
in scena 17 e 18 settembre 2016

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