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Sunday, 11 September 2016 00:00

Il luogo in cui ogni cosa attende la sua fine

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"Sono le istruzioni per muovere le mani".
 
(Valeria Rossi)

 

"Ci sono storie che muoiono prima di nascere: e somigliano all'estate".
 
(Tè alla pesca con vodka)

 

 

Più passa il tempo, peggio vanno le cose.
Sarà anche l'amore a decidere tutto.
Eppure, a mio avviso, è la matita della solitudine che disegna la nostra vita.
Mi trovo qui, in questa età, né giovane né vecchia.
Ciò che mi accade intorno la chiamano storia.

L'incendio aveva devastato il giardino di don Fifiddo, che, come tutti sanno in paese, era coltivato a limoni. Circa mille metri: gran parte lumie, un paio di alberelli di pero, un nespolo e lo storico e gigante fico più in fondo, che nel pomeriggio faceva ombra ad alcune ortive, delle quali era impossibile stabilire un elenco perché mutavano nel corso delle stagioni.
Riguardo al giardino si trattava dell'unica zona verde rimasta in paese dopo l'arrivo della speculazione edilizia. Nemmeno la villa comunale, arredata da una orrenda scultura in bronzo che ricorda il nostro passato zolfataro, foggiata dall'artista locale Vicenzu Scalpello, quotato nelle gallerie di Bologna, e non qui, bensì amico stretto del sindaco, vantava questi toni cromatici e questi profumi.
Lo so, quello di don Fifiddo non si chiama giardino. Ma da noi, laddove la terra è lavorata, e gli alberi e i frutti abbelliscono ciò che sarebbe soltanto una confusa insalata di erbacce, la parola, non corretta grammaticalmente, è giardino. Dicono derivi dall'arabo. Come molte delle nostre usanze. Non importa adesso.
L'indomani leggemmo sul giornale locale che le fiamme erano state appiccate da un gruppo di zingari i quali, attratti da un baule in legno posto accanto una cisterna di acqua utilizzata per annaffiare, tagliata la rete metallica, e rimasti a mani vuote in quanto il baule conteneva vecchi lucchetti arrugginiti, per ripicca avrebbero cosparso di liquido infiammabile il giardino e, con un fiammifero acceso sul gradino, boom!
La conclusione assurda proposta dal giornalista, il quale aveva il posto in redazione grazie alla mano di suo zio, cioè l'assessore, non fu mai confermata dagli inquirenti. Certo, un ladro potrebbe prendersela: che te ne fai di vecchi lucchetti arrugginiti? E tuttavia, il dubbio: da quando gli zingari camminano con le taniche di benzina dietro? Comunque, da questi non vi fu rettifica e il giornalista, pochi mesi dopo, passò a un quotidiano nazionale con il grado di direttore.
A Laura, recatasi al giardino per un sopralluogo, colpì profondamente la scena, la quale si contrappose, in mente sua, al ricordo che aveva del giardino: al centro il baule aperto, mezzo bruciacchiato ai lati, con all'interno i lucchetti; poi gli alberi carbonizzati intorno, le foglie sparse e i limoni anneriti, rinsecchiti, simili alle lampade dei lampioni quando arriva l'umido dal mare, e la luce viene assorbita da fitti banchi grigiastri.
Mi disse di aspettarla lì. Non capii inizialmente il motivo. Ritornò dopo parecchi minuti, sudata, con la reflex in mano, perché, sussurrò affannata, non voleva dimenticare l'incendio e desiderava scrivere per se stessa – che è un modo diverso di scrivere – qualcosa da rileggere quando sarebbe diventata anziana. (Con Laura siamo amiche dalle elementari, ma vi assicuro che alcuni angoli della sua personalità mi risultano oscuri). Prima di scattare la foto, però, ella mi raccontò ciò a cui aveva assistito.
Al bar Belvedere, quello in piazza, che ha chiuso per fallimento due anni fa, con conseguente suicidio del proprietario, tale Alfonsino Manilorde, gettatosi dalla rupe, Laura notò don Fifiddo, in lacrime, che discuteva con Sariddo Transatlantico, chiamato così a causa del suo peso: uomo, si dice, ricco, elegante, fimminaro, della mafia siciliana, gestore dei supermercati in provincia e con un sombrero tatuato sul polso.
Perché don Fifiddo aveva incontrato Sariddo? Sariddo lo si incontra per un motivo: soldi. E don Fifiddo, di soldi, non ne aveva bisogno; e non perché fosse ricco, quanto perché l'uomo, seppure fosse un mendico, mai aveva chiesto una lira ai compaesani. La terra, questo aveva. La terra da lavorare, i limoni da barattare.
I calcoli che ci facemmo sulle cause dell'incendio, molto semplici, furono questi: poteva essere una questione di pizzo, al quale don Fifiddo si era rifiutato, oppure un'originale richiesta, non esattamente educata, di vendita del terreno avanzata da Sariddo, con l'obiettivo di "sedurre" il povero clochard contadino.
Recateci in caserma illustrammo le nostre intuizioni al maresciallo, il quale ci osservò con gli occhi fuori le orbite. Egli disse che avrebbe fatto finta di non aver sentito; indicò gentilmente la porta di uscita e ci suggerì di andare a giocare con le bambole, evitando di improvvisarci Sherlock Holmes in gonnella.
Scontente, senza bambole, decidemmo di affrontare il Transatlantico di persona. Giunte al bar, né l'uomo né don Fifiddo erano presenti. Il banconista ci chiese perché eravamo agitate. Ordinammo due gassose, con fetta di limone e ghiaccio.
Era il luglio del 2001 e avevamo quindici anni. Mentre sorseggiavamo la gassosa, e le bollicine ci solleticavano la gola secca, assistemmo a un'edizione straordinaria del Tg: G8, Genova, Giuliani. Laura scrisse su un tovagliolo di carta, e io sbirciai: "Da questo momento le nostre idee, per passeggiare in giardino, dovranno indossare le polacchine".
Qui undici anni dopo, i quindici anni dopo il G8, io e Laura ci siamo ritrovate separate: lei è al nord e, nonostante lavori come commessa per una multinazionale statunitense, mi pensa con affetto; don Fifiddo è deceduto, in circostanze non chiare, un paio di mesi dopo l'incendio; il suo giardino è un supermercato a due piani che si chiama Il sombrero; le idee, che abbiano le polacchine o no, sono soltanto ritornelli da fischiettare.
Una lettera è arrivata proprio ieri. L'ha scritta Laura. Fa così:

"L'incendio aveva devastato il giardino di don Fifiddo, che, come tutti sanno in paese, era coltivato a limoni. Circa mille metri: gran parte lumie, un paio di alberelli di pero, un nespolo e lo storico e gigante fico più in fondo, che nel pomeriggio faceva ombra ad alcune ortive, delle quali era impossibile stabilire un elenco perché mutavano nel corso delle stagioni. Ho ritrovato la foto e mi è venuta voglia di scriverti. Ricordo ancora, come fosse ieri, il caldo di luglio e di quell'agosto del 2001. E di quei giorni c'è qualcosa che non sai. Eravamo in piazza, con i compagni anziani, quelli del Belgio e gli zingari, aspettando il via di Marco. Poi lui ti prese con sé. Tu, come di programma, andasti a incendiare il supermercato di Sariddo Transatlantico (ma incendiaste davvero il supermercato? Ora puoi dirmelo). Io, molto più tardi, e al tuo ritorno, che mi parevi sciupata come le foglie delle rose quando rimangono senza acqua (stanca, la rivoluzione; lo so), mi nascosi al circolo con Marco. Fu la prima volta, per me. Ciò che è rimasto è soltanto un ritornello da fischiettare".

Sì, giorni dopo, nell'agosto del 2001, per me e Laura non fu soltanto un caldo mese che gettò nell'afa, e nell'angoscia che tutto stringe, il nostro paesino; giardino incendiato di don Fifiddo compreso. Alla data si legò un importante avvenimento. E data e avvenimento furono incise sulla tessera nuova del partito: quella dei Democratici di Sinistra.
La sede del partito si trovava in piazza. Dico "si trovava" perché oggi, anche lì, c'è un piccolo supermercato con il sombrero sull'insegna. A esso si accedeva da una porticina rossa, in legno, interamente coperta dall'imponente frangia di foglie del Cannameli, piantato, quando ancora era PCI, dal fondatore del circolo, il quale aveva preso il nome proprio da questo albero.
L'interno del circolo "Cannameli" presentava, ogni giorno, la stessa scena: una decina di uomini anziani, in camicia a quadrettoni, sparsi attorno ai tavoli, per la scopa o per la briscola; il fiasco di vino, le gazzose, i bicchieri di vetro; il biliardo e una vecchia radio. Più in là, in segreteria, don Ciccineddu, con la sua aria seria da leninista arrabbiato, pronto a rivoltare il mondo. Fu lui a firmare le nostre pratiche e augurarci una buona rivoluzione.
Ovviamente la ragioni di questa tessera valicavano i puri interessi rivoluzionari. Volevamo sì impegnarci, un impegno coerente al peso che tale parola contiene in sé. Tuttavia non disdegnavamo se, all'interno del circolo, avremmo potuto conosce Marco e i suoi amici.
Marco, il quale non saprei che fine abbia fatto, era un ragazzo bello, alto, con i dread, che suonava la chitarra, leader del gruppo giovanile del circolo. Alla sua prima riunione di partito, convocata appositamente per narrare delle vicende di Genova, città in cui era stato e aveva manifestato, espose le sue posizioni e il suo programma di transizione riguardo "Il sapersi difendere dal sistema globale e raggiungere la rivoluzione del popolo". Io e Laura lo guardammo come si guarda un tramonto.
I giorni passarono, e finalmente qualche parola, tra noi e Marco, fu scambiata. Non poteva certo chiamarsi amicizia, quella. Però, insieme a lui e ai suoi amici, facevamo tante cose: distribuivamo volantini, cucivamo la bandiera della pace, andavamo a comprare il vino per gli anziani del circolo. Un giorno, mentre appendevamo una stampa di Guttuso, a me e Marco, contemporaneamente, venne un'idea: incendiare uno dei supermercati di Sariddo Transatlantico. Non so perché sia possibile, ma le idee possono sorgere contemporaneamente a più persone, anche distanti chilometri. Questo indica, ed è la mia posizione, che tra i due c'è qualcosa che li rende unici nella improvvisa unità.
Comprammo la benzina in un paesino molto lontano dal nostro, per non creare sospetti. Come data decidemmo il 13 di agosto, giorno in cui, in paese, arrivarono i compagni del Belgio. Quando arrivavano loro, figli di nostri compaesani immigrati, si faceva sempre una gran festa: si montava il palco in piazza, si arrostiva la carne, si suonava la tarantella, si inventava una lingua a metà tra il francese e il siciliano, da utilizzare in quelle ore notturne e avvinazzate, e poi si dimenticava. Chiamammo anche gli zingari, i quali accettarono volentieri, affinché la confusione fosse maggiore.
Per me e per Laura, quella sera, le nostre idee indossarono i tacchi. Una sorta di alibi: due così non possono mica andare a incendiare un supermercato, no? Mettemmo anche la gonna, lunga, a fiori, che faceva frush frush quando la scuotevamo. Ma nessuno di noi riuscì a staccarsi dalla piazza, nonostante il programma prevedeva degli orari schematici. Era una sera importante, ipnotica: la musica per ballare stretti, ascoltando con il petto i rispettivi respiri; la luna grande e le stelle brillanti; il mare calmo e il profumo di miele che rendeva dolce l'aria umida.
Gli zingari scherzavano e bevevano con i compagni belgi e gli anziani del circolo. Marco, all'improvviso, si decise; e pensai che il momento era arrivato. Lasciò i suoi amici, mi chiamò. Dissi a Laura... non ricordo cosa dissi. Lei mi capì.
Marco mi chiese di accompagnarlo al circolo a prendere la benzina. Al "Cannameli" non c'era nessuno. Chiudemmo la porticina. Ci guardammo. Tolsi i tacchi, alzai la gonna che fece un solo frush, e poggiai le idee su un ritornello da fischiettare.
Insieme facemmo del mondo quel luogo in cui ogni cosa attende la sua fine.

 




N.B.:
 immagine di copertina: Roma, Teschio alato, di Davide Bramante

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