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Monday, 08 August 2016 00:00

Dal mio quaderno di appunti

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Poi d’improvviso te ne accorgi. Quella domanda è per me un bizzarro rovello, poiché non mi è del tutto chiaro in quale prospettiva narrare con la scrittura mimetica l’insieme di stati reali – se tali si possono considerare – per consegnarli alle suggestioni del ricordo.
Dunque, la domanda: ho vissuto sin qui attraversando una sequenza di contingenze o scalando percorsi di progetti personali? E che fare, adesso?
Stiamo scendendo per un pendio coperto di aghi di pino color ruggine.

– Da quanto tempo ne parliamo, Giorgio? Fin dai tempi del liceo, direi.
– Più o meno.
Questa estate abbiamo deciso di invitarli a passare una settimana qui da noi. In quello che io e Laura chiamiamo il buen retiro dolomitico. In Valbelluna. Non c’è stato bisogno di insistere, Giorgio e Claudia sono arrivati ieri.
Oggi all’alba, noi uomini abbiamo pensato di salire fino al Montegal per una salutare immersione nella natura, corroborata, una volta raggiunta la cima, da un discreto, confortevole accompagnamento di vivace Prosecco, là al rifugio.
– Tu Enrico, mi hai sempre detto che a quattordici anni pensavi di avere la vocazione dello scrittore – Giorgio. – Poi è andata che sei diventato manager di un gruppo assicurativo statunitense. E, come mi hai sempre detto, ti sei fatto un mazzo tanto. Ma forse, sotto sotto, ciò che ti ha portato verso quella scelta è stato il fascino di qualcosa che si chiama American Way of Life. Che dire.
– Lo sai da sempre, da quando ci conosciamo. Dopo aver letto Martin Eden di Jack London il sogno era quello. E, dimmi tu, di chi è la responsabilità se ho preso tutt’altra strada? Ammesso che ne avessi i numeri: creatività, capacità speculativa, cultura in generale, e cazzivari. Tu almeno hai una storia coerente.
– Beh, se consideriamo che la famiglia dalla quale provengo mi orientava verso una sola ambizione. Fare carriera, fare soldi, successo in una società che via via si va facendo darwinista, senza scampo. Ma, del resto, neppure tu ti puoi lamentare, per quanto ha a che fare il successo sul lavoro.
Stiamo tornando a valle, lo sguardo reso incerto dai vari bicchieri osserva il sentiero dal fondo irregolare per evitare sbandate.
– Vedi, Giorgio, hai citato Darwin e subito mi viene da tornare col pensiero a una conclusione alla quale è pervenuto dopo pazienti e approfonditi studi, e cioè che l’intero terriccio di superficie di un qualsiasi prato in ogni parte del pianeta è passato e passerà attraverso il canale intestinale dei vermi.
– Ma dài! E col tempo come andrà a finire?
– Potrei tentare diverse risposte, solo tentare. Restiamo con Darwin e proviamo a riflettere su quanto ha scritto con L’origine della specie – cito a memoria – : “A giudicare dal passato, possiamo con certezza dedurre che nessuna specie vivente trasmetterà la sua immutata somiglianza a un lontano futuro”.
– E allora perché scrivere, se quei posteri non si riconosceranno in noi? Perderesti solo tempo prezioso.
– Potrei conoscere meglio il mio Ego, e – se vogliamo – l’essere umano. Ma adesso, con più di settanta primavere sulle spalle, ce la farei mai a scrivere qualcosa che possa essere degnamente rappresentato? E dove?
– Cosa intendi per dove, Enrico?
 Speriamo che le nostre gentili signore ci abbiano preparato un buon pranzetto.

Vent’anni prima. A uno snodo decisivo della mia vita, quando stavo per conquistare la dirigenza, ho avuto una sorta di turbamento, che è durato pochi giorni ma ha lasciato il segno. Ho faticato molto a sopportare l’idea che con l’accesso ai piani alti del mio lavoro si chiudeva ogni prospettiva di frequentare la narrativa da protagonista e non solo da fruitore di creazioni altrui, per quanto non di rado di alto livello. Non ne avrei avuto il tempo, né la necessaria concentrazione.
Ma c’è altro da dire. A quei tempi stavo leggendo Al di là del bene e del male di Nietzsche, e un capitolo di quel saggio, pur non attinente a quella che oggi chiamiamo Fiction, mi aveva particolarmente colpito, se non altro per analogia, liberandomi da una certa amarezza per non potermi dare alla scrittura. Scriveva sulla traduzione, Nietzsche: “Ciò che più difficilmente si lascia tradurre da una lingua è il ritmo del suo stile...“.
A quel punto ho creduto di convincermi che l’osservazione del filosofo potesse farmi  rinunciare definitivamente, e senza rimpianti, alla scrittura narrativa poiché non ero sicuro di conoscere quale potesse essere il ritmo del mio stile.
La mia riflessione non è finita lì. Certe ambizioni non lasciano mai del tutto il campo. Il lavorio nell’animo di chi le coltiva è sottile ma comunque percettibile. Anche allora ne parlavo con Giorgio, era il mio confidente sul tema...  e non solo su quello.
Altro, nel frattempo, succedeva nella mia vita, e qui ne devo accennare sforzandomi di interpretarlo nel modo più trasparente, perché la vita è tutto. E raccontare non è una scienza esatta.
Se penso alla mia ideale rivisitazione di talune atmosfere, stati d’animo, mi viene da concludere che la risposta alle domanda dalla quale ha preso le mosse questa mia ricerca, si trova in un intrico di non facile semplificazione.
Divagare mi piace, e mi è di stimolo. Con intenti in prevalenza mimetici, due grandi artisti hanno descritto, in forme espressive diverse, situazioni di un intenso impatto emotivo: Ernest Hemingway con A Clear, Well-Lightened Place, Vincent Van Gogh con La Terasse du Cafè, la Nuit. Quante volte la mia immaginazione mi ha portato in quei luoghi, sebbene il racconto di Hemingway – quando a tarda sera, quasi notte, il vecchio sordo continua a bere dopo che tutti se ne sono andati dal Caffè dove è seduto – sia piuttosto inquietante.
Così, come dicevo, il mio essere in carriera ha preso il sopravvento. E negli scampoli di tempo libero l’interesse si è riversato sulla lettura. Non che non abbia mai pensato a cosa sarebbe potuto succedere una volta in pensione. Un’incognita.
Di regola, tutte le storie che hanno suoi amici per protagonisti destano il sincero interesse di Giorgio. È il suo modo di rapportarsi agli altri. E quando il mio pensionamento si è fatto prossimo non poteva restare indifferente. Lui ne aveva ancora per qualche anno.
Questa volta siamo a cena a casa sua. Una ricca spaghettata con vongole. Il tutto spolverato di abbondante peperoncino che ci aiuterà a stringere una fugace amicizia con le bottiglie di vino di gran qualità, già schierate a centro tavola.
– Per non annoiarti e mantenere il contatto coi tuoi interessi culturali potresti fondare un blog letterario, se non addirittura un webmagazine. Ti costerà un po’, ma con la liquidazione che ti sei cuccato... – Giorgio.
Claudia lascia affiorare un vago sorriso. Mia moglie ha l’aria di essere in attesa di quel che sto per dire. Non ho dubbi che una qualche preoccupazione per avermi tra i piedi in casa tutti i santi giorni la sta già avvertendo. I nostri figli, che vivono ormai con le loro famiglie, le hanno fatto gli auguri. Me l’ha detto lei, con aria sì e no scherzosa.
– Troppo lavoro per un progetto del genere. Non escludo però di propormi per qualche collaborazione. Sono tanti i giornali in Rete. E anche di qualità.

Il mio viaggio per prendere confidenza col  mondo delle riviste culturali online non ha richiesto molto tempo, ma è stato proficuo. In questo mi ha aiutato un certo fiuto di lettore vorace. E l’esperienza manageriale maturata nel tempo, c’entra anche quella.
Un’apprezzabile spinta me l’ha data la lettura di un articolo, a firma Alessandro Agostinelli, apparso su L’Unità nel luglio di quest’anno dal titolo Quando i fili della cultura si uniscono e fanno Rete. Inizia così il lungo e ponderoso articolo: Basta un click e si entra in un microcosmo di idealità letterarie, in una stanza di ritualità poetiche da carbonari.
Inoltrandomi nella variegata realtà del web mi sono fatto un quadro delle altre idealità, oltre a quella letteraria, dove lo scambio di pensieri, critiche, interpretazioni è altrettanto ricco. Il teatro, a esempio, come luogo di elaborazione affettiva, per dirla con Luca Barbareschi, versatile attore e regista sulla scena – così come musica, cinema e qualsiasi espressione dell’arte in generale.
La mia marcia di avvicinamento verso giornali e riviste online è una scelta obbligatoria, considerata la moria, che sembrerebbe inarrestabile, di prestigiose testate cartacee. È indubbio che la cultura diffusa in Rete si avvia ad avere il sopravvento. E in tempi brevi, basti pensare alle migliaia di lettori giornalieri.
Sempre Agostinelli: ”Cos’è successo a queste riviste cartacee, a queste ‘cinghie di trasmissione’ dell’opera di uno scrittore verso una casa editrice? Niente. Non è rimasto niente. Sono altri i numeri e i suggerimenti che muovono le macchine editoriali, altri i sistemi di ricerca di nuovi autori”.

– Hai finito di leggere Purity, papà?
È mio figlio Andrea, che mi telefona qualche giorno fa. – Sì, l’ho finito. Un grande romanzo. Quello stupefacente intreccio di rara efficacia, la stralunante cronologia. Franzen, tornando al realismo sociale – qualcuno lo chiama realismo isterico, mah! – si pone ai vertici della narrativa di questo millennio. E c’è anche quella sua straordinaria capacità di indagare il vissuto femminile, compresi gli aspetti meno apprezzabili che in qualche caso gli hanno procurato accuse di misoginia, ciò che non mi trova per nulla d’accordo. Mi piacerebbe discuterne su Facebook con qualcuno che abbia una buona conoscenza della letteratura, ma non mi decido a farlo. Scorrendo quanto viene quotidianamente e abbondantemente scritto su quel “servizio di rete sociale”, ho avuto la chiara impressione che è un terreno scivoloso.
Parlando di Franzen e dell’ambiente letterario Usa mi è parso di rivivere quel momento quando, poco prima di approdare al web ho proposto, e sono stati pubblicati, alcuni miei racconti – l’esordio – alla rivista mensile 451 via della letteratura e dell’arte, che contiene articoli di The New York Review of Books, diretta da Gianfranco Pasquino. La rivista ha però risentito dei tempi correnti, ed è durata pochi mesi sulla carta. Oggi si è trasferita online.

Atterriamo all’aeroporto di Manchester alle 11:30. Domani a Llandudno si svolgerà la cerimonia di consegna del diploma dopo i cinque anni di studio al St. David’s College. Siamo in tredici – venuti da Milano e Monza –, parenti di vario grado. Festeggeremo Tommaso Konrad, ormai Tommy per tutti, primogenito di mio figlio Massimo. Dopo il college, Tommy si prenderà un anno sabbatico per accedere dopo all’università di Londra, dove frequenterà la Facoltà Effetti Speciali, una decisione che segna con chiarezza la continuità con l’attitudine famigliare. Per non dire  di Crayon Festival, il complesso rock che Tommy ha fondato col suo amico di college Billy Marsh. Nel tempo libero andranno a suonare nei pub e, quando capita, per strada, giusto per divertirsi.
In volo, seduto accanto a Massimo, accenno alla mia intenzione di pubblicare in Rete. – La forma breve è la mia scelta, non solo per limiti oggettivi legati ai criteri redazionali del giornale che ospiterà i miei scritti, racconti o articoli di critica letteraria che siano, ma anche, possibilmente, per un’esigenza di sintesi coerente con il mio modo di concepire la scrittura.
– D’accordo, ti capisco, ma un romanzo prima o poi dovresti scriverlo. Avresti  modo di partecipare a qualche premio letterario. Non pensi che ne valga la pena? Ne ricaveresti una maggiore visibilità, tra l’altro.
– Un romanzo? Si vedrà. Per ora mi voglio impegnare a creare un insieme di segni che, in prospettiva, potrebbero fare da corollario a una più ampia realtà.
I miei figli, Andrea giornalista e Massimo fotogiornalista e filmaker, non mancano di darmi consigli. Del resto, la creatività, sia pur entro limiti sempre possibili, in qualche modo ci accomuna. Ed è una delle tante domande che talvolta mi pongo: che si tratti di un filo genetico, in certi casi?
Tante letture, tanta musica, un forte interesse per l’arte in qualsiasi forma si esprima, soddisfano esigenze vitali non solo per il soggetto che intensamente le avverte, ma anche per chi gli è vicino.
In una terza stagione di vita, la strada da percorrere è per me chiara. E definitiva.

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