“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 29 June 2016 00:00

Un'estate dimenticata

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Ricordo con tenerezza le estati della mia infanzia, in cui le giornate erano votate all’ozio senza noia e a quel senso di libertà scaturito dal potersi vestire come si voleva, stare in ciabatte tutto il giorno e fare la propria comparsa a casa degli amici dirimpettai a qualsiasi ora avessimo voglia. Avrò avuto circa sette o otto anni. Abitavo ancora nella casa della mia infanzia, un’abitazione indipendente dell’inizio degli anni Settanta condotta dall’inflessibile polso di mia nonna, una donna temprata da una vedovanza giunta troppo presto e poco disposta verso gli schiamazzi di noi bambini.

A quel tempo non avevo coscienza di piani urbanistici, pericoli o del concetto di proprietà privata: laddove erano assenti cancelli e recinzioni, era tutto territorio da esplorare, per vivere avventure a metà fatte, per la maggior parte, di elementi inventati. La mia era “la casa arancione e grigia” dalla quale partire alla ricerca di manufatti rari e per testare le nostre doti di esploratori e cercatori di tesori. C’erano solo due luoghi ai quali era assolutamente vietato accedere: l’orto di mia nonna, dove la terra sempre bagnata finiva puntualmente per farci scoprire – e, di conseguenza, bacchettare – e la ferrovia che delimitava il confine più a sud della proprietà. Lo stridere dei convogli che, più volte al giorno, passavano annunciati dai sonori fischi della locomotiva, finiva per tenerci alla larga dal quel posto – obiettivamente pericoloso per dei bambini – perché ci impedivano di comunicare.
Così tutte le nostre avventure si sviluppavano all’ombra dei polverosi cipressi disseminati attorno alla casa arancione; lo scricchiolare delle piccole pigne odorose che ricoprivano la terra ai loro piedi, le particolari foglie che si infilavano tra le infradito, persino la resina, giallina e traslucida, offriva spunto per l’invenzione di una storia. Giocavamo anche a spaventare i conigli di mia nonna, rinchiusi nelle ombrose gabbie che costeggiavano l’infido e scivoloso stradello di tufi che conduceva alle retrovie della proprietà. L’odore di paglia bagnata e di escrementi era talmente forte da stordire e, per somma fortuna dei conigli, questo bastava a farci cambiare velocemente idea sul gioco da fare.
Mi piaceva fare i compiti delle vacanze insieme alle mie amiche, sebbene il fatto che fossero di un paio di anni più grandi di me mi esponesse a commenti gratuiti e compiaciuti sulla facilità degli esercizi assegnatimi per l’estate. Eppure passavamo insieme anche i pomeriggi di studio, incollandoci alle sedie di vernice e facendo traballare il piccolo tavolo quadrato a forza di cancellature.
C’era una cosa che amavo particolarmente delle vacanze estive, ed era quella di poter guardare la televisione di mattina. Complice l’assenza dei miei genitori e il benestare di mia nonna – "Almeno non stai fuori a combinar guai" – avevo preso a seguire tutti i telefilm che le maggiori reti trasmettevano, pressoché ininterrottamente, dalle dieci di mattina all’ora di pranzo.
Ce n’era una che amavo particolarmente: raccontava le avventure di cinque ragazzi con un cane che si divertivano ad investigare per la campagna inglese. Una di loro, la proprietaria del cane, era addirittura proprietaria di un’isola, cui accedeva attraverso una barca a remi. L’isola stessa era un luogo straordinario e vagamente sinistro, soprattutto grazie alla presenza di un vecchio castello diroccato abitato dai corvi.
Non c’è bisogno di specificare che, nonostante l’assenza del mare e di qualsiasi altro specchio d’acqua, le avventure dei cinque fornivano materiale sempre nuovo su cui intessere nuove avventure. Il fatto che i protagonisti fossero dei ragazzi poco più grandi di me, e che fossero dotati della stessa autonomia che mi sembrava di assaporare durante quelle lunghe giornate estive, faceva di me il sesto componente dell’immaginaria gang.
Con la fine dell’infanzia e, ancor prima, con quella dell’estate, il ricordo dei miei cinque amici si cristallizzò nell’afa di quelle giornate, rarefacendosi fino a scomparire del tutto. Ogni estate io crescevo e acquisivo nuovi interessi; spostavo i miei fuochi di attenzione su elementi molto diversi dai palinsesti televisivi, dimenticando però anche la sensazione di quelle giornate spensierate.
Una scatola di libri destinati al macero ha fatto sì che io ricordassi.
Tra i vari volumi – datati certo, ma non abbastanza da essere considerati da collezione – fecero la loro comparsa due libretti identici in tutto tranne che nel titolo, a dimostrare come facessero parte della stessa collana. Le copertine erano di un cartone opaco, coronato da dorsi di un rosso spento prossimi allo scollamento. I disegni in copertina – dei ragazzi e un cane – erano sovrastati da due titoli che accesero in me il dubbio. Nulla di definito, certo, solo un vago sentore di “già-visto-da-qualche-parte”. Iniziai a leggere il volume che, dei due, aveva il titolo più evocativo: Mistero sull’isola. Ci vollero poche pagine per capire che quello null’altro era che il libro da cui era stato tratto il telefilm che, nei tardi anni Novanta, aveva catalizzato tutte le mie attenzioni.
Venni così a sapere che la serie aveva un nome – La banda dei cinque – così come l’autrice – Enid Blyton, una scrittrice per ragazzi attiva nella prima metà del Novecento spesso criticata per le sue allusioni razziste e sessiste.
Ho impedito che queste notizie facessero affievolire la magia del ricordo che avevo appena ritrovato, tenendo stretta la sensazione che il ricordo di quelle lunghe e spensierate estati avevano risvegliato in me. Ora conservo quei due volumetti gelosamente: sono il simbolo di un tempo felice, il cui ricordo svanisce nella calura estiva di tanti anni fa.

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