“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 05 May 2016 00:00

Quante facce del giorno

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Mi sento sempre attratto dalle scoperte casuali. Ed era così anche quando studiavo. Cercavo una frase a effetto per la tesi di laurea, e il caso  ha voluto che mi imbattessi in uno scritto di Carlo Sini − professore all’Università di Pavia − che così si esprimeva “La filosofia non è un’episteme enciclopedica, ma un esercizio connesso alla vita”.
Tutto ha avuto inizio da lì.

Oggi mi dimettono. Dopo aver parlato col chirurgo che mi ha operato, mio padre, visibilmente sereno, torna nella stanza dove sono ricoverato, e mi dice: “Sta’ tranquillo, non avrai nessuna invalidità permanente, ti ci vorranno un paio di mesi di fisioterapia, poi tutto andrà a posto. Certo che l’hai scampata bella! Bastava che i colpi ti arrivassero un po’ più in alto e sarebbe stato un bel guaio. Adesso pensa solo a guarire e dare un po’ più di colore ravvivante al locale, dopo quello che è successo, e vedrai che il Breack Bar tornerà di nuovo a essere il luogo di gioiosa, iridescente evasione da sogno dell’autentica Milano da bere. Hai sempre detto che filosofia è capacità di stupirsi, ebbene questo è il momento per dimostrarlo”.

Dieci anni sono passati. Ne avevo ventiquattro, allora. Mi ero appena laureato e avevo un solo obiettivo: diventare giornalista e scrivere per pubblicazioni culturali. Ma quella frase − quella di Sini − mi stava come ossessionando e stentavo a capirne la ragione, finché un giorno mi è parso chiaro che dovevo arrivare a una decisione che avrebbe potuto valere una vita: dovevo prendermi un anno sabbatico, prima di cercarmi il lavoro che avevo sempre sognato. Diciamo che non mi era ancora ben chiaro cosa volevo o dovevo fare, ma giorno dopo giorno dalla nebulosa dei miei pensieri prendeva forma il perimetro entro il quale avrei dovuto trascorrere quell’anno: mi occorreva un’esperienza, fosse pur temporanea, che non avesse la benché minima relazione con il mio originario progetto. In un certo senso, un’esperienza  purificatrice − dilatando il senso del termine − vorrei dire quasi stralunante, che facesse tabula rasa di tutto ciò che fino ad allora era stato al centro dei miei pensieri, per potermi lanciare, dopo la pausa, nell’universo giornalistico libero da ogni condizionamento conseguente alle mie numerose letture e agli stessi studi. Partire da zero, insomma. Dovevo liberarmi di ogni possibile contorsione speculativa. La filosofia fino ad allora mi aveva aiutato a crescere, ma era venuto il momento di predisporre il terreno, sgombro da idee precostituite, dove avrei elaborato tutti i caratteri dei futuri impegni... del mio lavoro. Lo comprovava, del resto, lo stesso ponderoso titolo della mia tesi Il rapporto tra logica e contingenza nel pensiero di Merleau-Ponty.
Gualtiero Berardi, oggi ultrasettantenne e virtualmente ritiratosi da impegni lavorativi, è coetaneo e amico di mio padre. Quando, dieci anni fa, ha saputo che stavo cercando un lavoro temporaneo mi ha fatto sapere che, essendosi ammalato uno dei suoi dipendenti, per completare l’organico gli occorreva un giovane che lo potesse sostituire fino a guarigione avvenuta. Si trattava di dare una mano al personale del Breack Bar, un locale in origine di modesta frequentazione che Berardi aveva acquistato a basso costo e poi trasformato nel corso degli anni in luogo di ritrovo trendy a misura di persone abituate a prendersi di tanto in tanto una rilassante pausa, godendo di cocktail fantasiosi, caffè di qualità speciale e tante altre buone bevande. Il tutto in un ambiente tra il sofisticato e il brioso, con circuito interno per la diffusione di musica soft − l’atmosfera postmoderna − nei pressi della Stazione Centrale, dove qualsiasi tipo di movida non fosse possibile per il tipo di quartiere stretto tra lussuosi agglomerati. Corso Garibaldi, i Navigli e altri lunghi tratti della città sarebbero stati più adatti per certe disordinate concentrazioni di umanità allo stato brado, ma il proprietario del Breack Bar, pur non disprezzandole, voleva evitarle. Puntava a un ambientazione più  selettiva.
Berardi e mio padre, che fa parte del Consiglio di Amministrazione di una banca di livello medio-alto, sono accomunati, oltre che dalla tendenza a bere più del dovuto, da un forte interesse per l’altro genere. Berardi è scapolo, mio padre divorziato da anni.
Poco prima che terminasse l’anno sabbatico da me programmato, mio padre mi telefona − nel frattempo avevo affittato un monolocale dove funzionava con assoluta puntualità uno spontaneo turnover di giovani ragazze che per così dire mi tenevano compagnia − e mi chiede se ho cominciato a considerare come e dove rivolgermi per darmi alla carriera di giornalismo culturale. Con la scusa che in quella settimana al Breack Bar stavamo organizzando un evento esclusivo legato al mondo della moda, gli ho detto che me ne stavo interessando e mi sarei fatto vivo al più presto per fargli sapere cosa avevo deciso.
Ero ormai giunto a un bivio. Del tutto inaspettato.
In quell’anno, lavorando assiduamente al Breack Bar, una realtà nuova mi si è gradualmente presentata, in uno scenario esistenziale da farmi riflettere su tante mie convinzioni. In quel quotidiano lavoro, per il quale ho scoperto di essere particolarmente dotato, ho avuto a che fare con un’umanità varia, i diversi modi di esprimere lo stare al mondo, lo scoprire curiose tendenze nel concepire la quotidianità, la vita. Al punto di farmi dubitare che fosse possibile comprendere un senso che tenesse unito il genere umano, se non in una viva pluralità libera da limiti ideologici di qualsiasi natura, che fosse filosofica, politica o religiosa. Mi bastava osservare giorno per giorno l’avvicendarsi al Breack Bar di un certo numero di persone, tra loro diversissime, e cercare di cogliere l’intimo significato delle singole esistenze, delle luci e delle ombre, ciò che appariva alla luce del sole e quanto veniva invece tenuto in penombra. Le certezze speculative che fino a un anno prima erano il fondamento del mio modo di rapportarmi con la vita subivano un qualche cedimento di non facile, immediata comprensione. Che la vita si potesse inquadrare in astratte teorie integraliste cominciava ad apparirmi poco probabile, se non impossibile.
Era venuto il momento, per me, di scegliere.
Ho affinato il mio spirito di osservazione, in quell’anno. Al bancone di mescita ci stavo poco. Preferivo aggirarmi a servire tra i tavoli. Ciò che mi portava a quella scelta era la necessità di non privarmi di contatti umani, più o meno spontanei, In mancanza dei quali vi sarebbe stato l’essere e il nulla, per usare un’espressione cara a Jean-Paul Sartre. Attimi, solo attimi, che tuttavia potevano lasciare tracce di un qualche significato nel mio animo.
Ce n’erano di tutte le età, coppie, piccoli gruppi, quelli numerosi che ti costringevano a unire più tavoli per dare accoglienza al loro insieme. Nel servirli, li puntavo con lo sguardo per qualche istante tentando di captare schegge delle loro conversazioni, poi, tornandomene al banco, mi figuravo improbabili flash della loro vita privata. Quel che facevo era un tentativo di rubare a quelle persone scampoli dell’intimo essere, anche pensieri non espressi. Poche le persone sole, con gli occhi in continuo movimento rivolti agli altri tavoli e quello che immaginavo rappresentare un punto interrogativo stampato sul volto. Ed era proprio sul volto di tutti che mi sembrava di cogliere una vasta gamma di espressioni, e diversificata, in forme che mi apparivano essere profonde, quindi verosimili. Ma verosimili a che?
In definitiva era proprio la varietà dello scenario nel suo complesso che portava il mio pensiero, per una sorta di analogia speculativa, a richiamare alla mente le varie teorie filosofiche che avevo frequentato nei miei studi, teorie che pur dichiarandosi aperte, se vissute acriticamente rischiavano di dare, al contrario, l’impressione di concezioni unilaterali che escludevano, per conseguenza, la pluralità, cioè il mondo costituito in parte da tutti quei frequentatori del Breack Bar che mi sentivo di assimilare a un credibile scampolo dell’essere umano. Ne conseguiva la convinzione di trovarmi di fronte a un mondo plurale, nelle forma e nella sostanza, che si opponeva all’unilaterale conclusione di un certo pensare filosofico. Succedeva così che a poco a poco si insinuavano nella mia mente dubbi di varia natura e significato. Dubbi che investivano il modo di vivere, di esprimersi, di raccontare il mondo. La letteratura che tanto amavo, a esempio, rischiava di apparirmi soggetta a forzature di pensiero del tutto impermeabili alla pluralità. Con il risultato di portarmi, mettendo insieme i miei disordinati pensieri, all’assoluta necessità di ricerche che tenessero conto delle diversità. Ciò che è sempre stato un punto fermo del mio indagare l’esistenza. E che non di rado mi ha posto in contrapposizione con scrittori le cui opere mi apparivano, se non ostili, per lo meno scettiche riguardo a momenti di vita concretamente afferrabili.

La vita, quella vera, sebbene in una visione parziale. Che intanto proseguiva.
Lui, Berardi, si faceva vedere poco al Breack Bar. Per gestire il locale gli bastava il personale che aveva ben addestrato. Posso dire soltanto che un pomeriggio, di quelli un po’ fiacchi, l’ho beccato mentre si faceva la ragazza della Tavola fredda nel locale bagno che, per comprensibile distrazione, si era dimenticato di chiudere a chiave.
Ma la prova definitiva che non ci si può permettere di ignorare – pena la caduta nel vuoto del nichilismo − gli stati di cose sensibili l’ho avuta qualche giorno dopo.
Hanno l’aria ambigua. Portano vestiti farlocchi, fuori misura, postura ostentatamente rigida. Sono quattro uomini, over 40. Personaggi balordi in cerca di supplementari emozioni, mi viene da pensare. Subito un piglio autoritario appena seduti al tavolino. “Whisky, il migliore” ordina quello che ha l’aria di essere il burattinaio. Gliene porto quattro bicchieri quasi colmi. “Anche la bottiglia” grugnisce lui di brutto. Qualche testa che si gira verso di loro dai tavoli vicini. “E faccia cambiare quella cazzo di musica, è da smidollati!” sempre lui. Gli altri tre alzano il mento con aria di sfida.
Noto che Berardi sta avvicinandosi al tavolo. È tra l’incazzato e il timoroso, cerca di capire la situazione.
“La musica?”
“Sì, la musica. Cos’è ‘sta roba? Non siamo qui per romperci..."
“Ci sono anche altre persone qui...  un po’ di moderazione..."
“Cosa vuoi dire, eh?”
“Piantala!” sbotta, e fa per avvicinarsi al tavolo.
Di scatto manda giù un bicchiere di whisky, poi è lì per alzarsi. Sembra incerto, mette una mano nella tasca della giacca. “Porca puttana... facci ascoltare...“
Berardi sembra prendere coraggio, io gli sto dietro mettendogli una mano sulla spalla che vuole essere un invito a controllarsi, serve prudenza.
“Basta!” dice. “Se non vi piace l’ambiente, nessuno vi trattiene”.
Una frazione di secondo. La mano è fuori dalla tasca, impugna una pistola. Berardi si scosta da me che gli sto dietro. Partono due colpi. Tutto quello che ora ricordo è l’acutissimo dolore tra il basso ventre e l’anca destra. E il rumore del tavolo rovinosamente gettato a terra, bottiglia e bicchieri in frantumi. Nient’altro.

È venuta anche mia madre a trovarmi all’ospedale. Vive a Venezia. Dopo il divorzio ci siamo visti poche volte, non ha mai capito perché io abbia deciso di restare a vivere con mio padre. Si è fermata poco più di mezz’ora. Andandosene ha salutato solo me.
Mio padre mi guarda con aria interrogativa. È venuto il momento, non poteva essere che questo, e gli dico che l’interesse per il giornalismo culturale è svanito, il mio futuro è ormai al Breack Bar, perché non chiamarla scelta filosofica? Sorride.
A mio padre sono bastati pochi giorni per mettersi d’accordo con Berardi e rilevare il locale, che verrà intestato a me. Berardi ha deciso di ritirarsi nella Riviera Ligure a godersi l’approssimarsi dell’anzianità, senza rinunciare, ne sono più che convinto, a quel tanto di occasionali incontri ravvicinati col mondo femminile.
L’infermiere del mio reparto mi fa sapere che oggi pomeriggio, dopo le formalità di rito, lascerò l’ospedale. Le successive cure che dovrò fare mi sono state prescritte ieri dal chirurgo. Da quell’incidente mi residuerà una leggera neuropatia motoria, ma non invalidante. Contingenza.
È l’inizio di una nuova avventura. Da una posizione che mi permetterà di dirigere lo svolgimento della mia vita lungo una linea tracciata dalla logica.

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