“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 20 April 2016 00:00

La vita sospesa di una donna che spera

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Un cinguettio allegro sembra riempire la sala del Teatro Nuovo mentre gli spettatori entrano in platea per assistere a Ombretta Calco di Peppino Mazzotta, testo che sembra cucito addosso a Milvia Marigliano dall’autore Sergio Pierattini.

Subito colpisce la scena che si presenta a palco aperto e che vede l’attrice sdraiata su una panchina, posizionata in alto, quasi a metà di un pannello grigio che in altezza arriva quasi al soffitto, messo al centro dell’assito: se ne sta lì, come sospesa o come inchiodata, su questa panchina e a ridosso di questo muro sul quale − poco più in alto a sinistra − a sua volta è sospeso un alberello tutto bianco, senza foglie, con le radici che penzolano nel vuoto: ormai prive di terreno. La donna è Ombretta Calco: indossa un vestito verde chiaro che scivola nell’azzurro ed ha capelli ricci al punto che la sua chioma, quando si fa buio in sala e una luce chiara la colpisce di fianco, mentre se ne sta seduta, somiglia a sua volta a quella di un albero: la chioma sembra dominarla e, al tempo stesso, pare proteggerla.
È scalza, le scarpe sono poggiate sulla panchina, ed è in attesa. È Ombretta, una donna comune che in un giorno afoso di luglio a Milano, tornando dal lavoro, si siede su una panchina quand'è ormai a pochi metri da casa sua: è stanca, le gira la testa e dunque sente il bisogno di fermarsi proprio qui, su questaa panchina che non è, o non sembra ormai, una seduta qualunque. Proprio qui, di ritorno da Il Piccolo; proprio qui, mentre torna il ricordo del marito che improvvisamente l’ha lasciata, liquidando velocemente la loro storia con un “Non ti amo più”.
Lei ricorda vagamente lo spettacolo, dalla descrizione sembra abbia visto La vita è sogno di Calderón de la Barca. Il suo monologo, invece, inizia dalla telefonata che suo fratello Mauro le fa per dirle che la madre, che vive con la donna, in sua assenza ha avuto un ictus e si trova in ospedale.
Ombretta mette le scarpe, si risiede e ora si trova davanti alla Sala Rianimazione, in attesa di notizie. Interloquisce con il fratello in un dialogo serrato e nervoso, pieno di frasi brevi ed aggressive che rendono il ritratto di un fratello meschino, inetto, che vive un'esistenza superficiale con moglie e figli, inclusa l’amante. In questo momento tragico, Ombretta coglie le piccinerie del fratello e la spietatezza con cui giudica Mauro sfocia nella comicità e in un’amara ironia. Da questo momento i ricordi si accavallano per associazione mentale in un flusso di coscienza molto più vicino alla tecnica narrativa di James Joyce che al recupero memoriale proustiano.
L’incredibile bravura di Milvia Marigliano, attraverso la modulazione della voce, le pause, il rincorrersi delle battute tra lei e l’altro, tra lei e gli altri − ora il fratello, poi l’ex marito, poi la madre, poi quelli che si avvicinano alla panchina chiedendole se si sente bene, poi i suoi uomini amati nella speranza di trovare l’ultimo, quello definitivo − fa sì che questi altri finiscano come per essere veduti realmente dal pubblico, ammaliato com'è dall’intensità interpretativa dell'attrice: come se li avesse qui, sul palco, di volta in volta al cospetto di Ombretta, con le loro manie, le loro vite. 
La figura materna è sempre vicina come presenza amorevole, con la vecchiaia che avanza, con la badante Brunella che è “una di famiglia”, fino al riallacciarsi del ricordo nell’epilogo finale. Un cinguettio, l’urlo muto di Ombretta alla notizia della morte della madre, in ospedale. La vita di Ombretta si svela vita comune, la vita di una donna assetata come tutti di affetto, che si confronta ed affronta tutti i problemi quotidiani che sorgono con gli anni, con ingenuità e senza risparmiarsi i drammi che inevitabilmente segneranno la sua esistenza.
La donna ritorna ancora sulla sua panchina, senza essersene mossa, non sta molto bene, la porteranno in ospedale perché sta seguendo lo stesso destino della madre. Forse ce la farà. Perfino su quel letto l’ironia non l’abbandona quando avverte la presenza del fratello al capezzale. Forse accanto a lei c’è il suo ultimo uomo, Michele, a cui Ombretta affida − tramite il fratello − le sue parole che chiudono lo spettacolo: ”Ha detto Ombretta di dirti che sono felice. Hai capito? Speriamo…”.
In quest’ultima parte la Marigliano è nuovamente scalza, ha i piedi che le penzolano nel vuoto e la scena è così simile alle radici dell’albero alla sua destra. Questa immagine che lega la donna all’albero, l’albero della vita, le radici materne, la sua vita che ha messo radici nel vuoto esistenziale che circonda ogni individuo, raggiunge anche le corde più profonde di chi si è trovato proiettato nella vita di Ombretta, donna comune a tutti, paradigma dell’esistenza moderna ed antica assieme, del viaggio che tutti compiamo che ha solo alla fine la felicità o la sua promessa.
L'interpretazione di Milva Marigliano non può essere definita in questo articolo: l'aggettivo "brava" suona a dir poco limitante. La regia di Mazzotta è lucida, asciutta eppure poetica nella definizione della scenografia che rende la sospensione dell’esistenza, nella gestualità ridotta al minimo eppure così descrittiva e narrativa insieme, nel gioco di luci misurato e suggestivo.
Tutto converge nella stessa direzione, dunque, e − così facendo − lo spettacolo giunge al punto verso cui ha teso fin dall'inizio: il cuore dello spettatore.

 




Ombretta Calco
di
Sergio Pierattini
regia Peppino Mazzotta
con Milvia Marigliano
scene Roberto Crea
costumi Rita Zangari
disegno luci Paolo Carbone
scenotecnica Angelo Gallo
produzione Rossosimona
in collaborazione Officine Vonnegut
durata 55’
Napoli, Teatro Nuovo, 16 Aprile 2016
in scena 16 e 17 Aprile 2016

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