“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 01 April 2016 00:00

Gente di Romagna

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Un velo nero all’altezza del sipario copre la scena retrostante. L’attrice fa capolino tra la scura trasparenza. “Non voglio farmi prendere dalla rete profumata dei ricordi...”, mentre in sottofondo si ode una musica percussiva. La colonna sonora contribuisce all’evocazione di un luogo geografico che esiste solo nella dimensione della memoria, e Romagna mia (per sola fisarmonica) fissa da subito le coordinate dell’immaginario condiviso, come anche il tema di 8 e ½, nel tentativo di evocare un mito non più individuale, ma una universale condizione di rimpianto per quello che un tempo – il nostro tempo – era e che adesso non è più.

“Non la riconosco più...”. I ricordi non riescono a legarci al porto sicuro di un passato che preservi intatta negli anni la nostra identità. Ogni allontanamento fisico e sentimentale, ogni nuova esperienza che nasce da ogni un nuovo sguardo sul mondo, segna il distacco dalle nostre certezze e produce crepe nella nostra coscienza. “È una sottile membrana l’io, che tende a spaccarsi. È una collana fatta di perle e di memoria. Tanti io chiusi dentro di me...”.
Il primo che si palesa, tra i tanti che abitano una lunga galleria di ritratti, è quello di una donna che arriva tardi agli appuntamenti, che fugge dalle convenzioni omologanti, che vuole imbarcarsi per fuggire via: fosse anche per lavorare come mozzo! E mentre si avvia al porto, scorge un amico con un cappello a larghe tese, un leggero cappotto e un piccolo quaderno nero che gli spunta da una tasca, entrare nel bar Naufraghi dell’Occidente, e che “porta con sé tutti i bambini che eravamo e che eravate”. Si apre il velo: siamo all’interno di un bar, con tavolini, sedie, un pianista sulla sinistra e un bancone sulla destra, dietro il quale ammicca sornione il silenzioso barista. Una canzone di Paoli da intonare nel locale per commentare ciò che si narra, anche alterando il testo a proprio piacimento, per parlare di sé, per cantare di noi stessi. E noi siamo tanti, siamo degni di narrare ed essere narrati, siamo re e regine, principi e principesse del nostro destino. Siamo il barista che nel suo declamare ricorda Petrolini. Siamo Monica, anzi la la la Monica (una timidezza che si fa impaccio lessicale), donna incolta che sviene quando legge e che il marito fa curare come alienata, prima di lasciarla. Siamo Gigi, dinamico ristoratore di prodotti tipici, attivo nel triathlon e legato  a Susy “regina del servire” (ma non serva!), sua attuale fidanzata dopo la scomparsa della prima moglie. Siamo una coppia di anziani coniugi indignata da ragazzini sballati che non sanno cosa fare. Siamo una trapezista dell’est che canta Almeno tu nell’universo, o un carabiniere amico degli immigrati che deve scacciare i suoi amici venditori ambulanti dalla spiaggia. Siamo un poeta ubriaco, il poeta del fallimento, pittore tempo perso, che vive con le rendite di appartamenti in fitto: poeta totale con una compagna che lo accudisce. O come Ofelia, siamo soli al punto da parlare con le mosche nel monolocale in cui abita, innamorata persa di un bagnino di Casal Borsetti che le preferisce l’appariscente Blondy...
Elena Bucci porta in scena Barnum, queste “Autobiografie di ignoti”, che trova la sua forza nell’idea, sempre avvincente, di assemblare descrizioni dettagliate (in prima persona) di personaggi autonomi accomunati dalla condivisione di uno spazio. Uno stratagemma narrativo che di per sé affascina e cattura, ma che senza la straordinaria capacità drammaturgica dell’attrice difficilmente potrebbe evitare il rischio della ripetizione e della meccanicità. Invece la scrittura della Bucci è sempre sorprendente e funambolica: inizia con la convenzione del rimpianto per sviluppare poi gli elementi biografici fondamentali dei vari personaggi, con considerazioni che superano la razionalità descrittiva, che si fanno elementi di invenzione poetica, allusioni metatestuali, considerazioni a margine, voce dell’autore (ma quale autore?), libere associazioni mentali, flusso di coscienze. In essa convivono reminiscenze letterarie, musica popolare, richiami all’attualità, discorsi politici e notazioni di costume senza la retorica della denuncia programmatica o la facile ricerca del consenso. La Bucci modula l’espressione con partecipazione e consapevolezza. I suoi discorsi affascinano seguendo uno schema mai ripetitivo ma che potrebbe replicarsi all’infinito. E difatti i personaggi non sono quasi mai gli stessi: ogni sera possono aggiungersi altre voci, declinate con la stessa accutarezza ed empatia. Tutto ciò si accompagna ad un’alternanza sapiente delle voci, in cui le considerazioni e i passaggi da una vita all’altra seguono traiettorie inaspettate e imprevedibili.
C’è la volontà precisa di non lasciare troppo tempo all’azione scenica di farsi descrizione razionale nelle storie e nei commenti delle voci evocate dall’autrice-attrice. Anche la regia regala momenti di semplice ma efficace meraviglia, e sfrutta le luci, i suoni e i movimenti per esaltare l’aspetto immaginifico del testo, per dar vita ad un’allegoria mobile in linea con l’ansia dei personaggi di uscire dalle pagine scritte dei romanzi che sono le loro vite. Barnum è un circo di anime che fanno i loro numeri d’acrobazie come funamboli della parola, come giocolieri del senso e dell’invenzione. E se volessimo trovare un direttore per questo rifugio di vite alla deriva lo si può individuare, per ammissione della stessa autrice, in Fernando Pessoa, in colui che si moltiplicava, come Elena, in tanti io differenti, in tante voci diverse, per rispettare la complessità del mondo e la sua pluralità.

 




Barnum
di e con Elena Bucci
al pianoforte Dimitri Sillato
cura del suono, registrazioni e interventi elettronici dal vivo Raffaele Bassetti
inserti musicali registrati Andrea Agostini
luci Loredana Oddone
macchinista al bar Giovanni Macis
lampade Claudio Ballestracci
scene e costumi Nomadea e Marta Benini
produzione Le belle bandiere
lingua italiano
durata 1h 30'
Monza, Teatro Binario 7, 19 marzo 2016
in scena 19 e 20 marzo 2016

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