“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 24 February 2016 00:00

Oltre Strehler con Zanza

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Quando Goldoni scrisse, nel 1745, la commedia Il servitore di due padroni, non ne rese subito un copione definitivo, propose piuttosto un canovaccio ad Antonio Sacchi, che si sarebbe arricchito, ed avrebbe quindi preso compiutamente forma, grazie all'improvvisazione di quest'ultimo. Le edizioni successive si devono quasi tutte a Strehler, che a partire dal 1947 ne modificò anche il titolo, e l'opera divenne Arlecchino servitore di due padroni; l'aggiunta della maschera bergamasca fu quasi un'operazione commerciale ma diede all'opera una dimensione più moderna, più vicina cioè al teatro maderno, ma con uno sguardo di ammirazione e quasi nostalgia alla tradizione della commedia dell'arte che di quella modernità era stata fondatrice.

Qui siamo ancora oltre la lettura strehleriana, qui assistiamo ad una nuova riattualizzazione dell'opera che fa la spola tra l'Italia del 1946 e quella del 2016.
Se l'apertura è un omaggio vivente al Quarto Stato di Giuseppe Pellizza Da Volpedo, con tanto di Fischia il vento intonato dagli attori, a sottolineare un'impronta veterocomunista, di unione, di collettività, di credo politico che si traduce in fatti quotidianamente concreti, le battute di Arlecchino, assi portanti della costruzione drammaturgica, ci inchiodano ad un presente di provvisorietà, di smitizzazione, di ridimensionamento della sfera pubblica a favore di una sempre più solipsistica dimensione privata; a sottolineare questa parcellizzazione anche la regionalizzazione idiomatica scelta dal regista, e così Don Bagnasco sarà caratterizzato da un'inflessione toscana, l'Onorevole Roma dal romanesco, il locandiere Blasco dal romagnolo, Beatrice Vizzini dal siciliano, Lucky Lucania dall'italoamericano più campano che americano, Clarice dal marchigiano, Silvio Roma dall'abbruzzese, Jessica dall'ispanoitaliano e Arlecchino dall'italiano.
In scena c'è tutto ciò in cui ci si poteva imbattere, in giro per l'Italia, in questo caso a Milano, qualche giorno dopo il 2 giugno del '46: il monarca che auspica un matrimonio d'interesse per sua figlia, il gangster, il politico corrotto con un figlio buffoncello e viziatello, il mafioso dalle larghe mire espansionistiche, il reduce dalla campagna di Russia, ed anche tanto in cui ci si imbatte ancora oggi percorrendo le stesse strade: il repubblicano deluso, il politico corrotto con un figlio buffoncello e viziatello, il mafioso dalle larghe mire espansionistiche, la cameriera dalle origini sudamericane, un commerciante che si lascia corrompere facilmente ed uno che tira a campare, la cui fame presta il fianco a menzogne e sotterfugi. C'è tanta amarezza, tanta disillusione ma anche tanta ironia, tanta leggerezza; a tratti sembrerebbe una commedia brillante con gli attori che alternano, per scandire il cambio scena, cori swing a canzoni della tradizione popolare italiana, pezzi blues a quelli ancora più neri del jazz. Forse sono proprio questi stacchetti musicali, unitamente agli sketch in cui è stata chiesta la partecipazione del pubblico e al ritmo sempre sostenuto, mai noioso, degli interpreti a rendere brevi le tre ore della messinscena.
Ma forse c'è un'altra cosa che incolla gli occhi alla ribalta, è quel reduce storpiato dalla guerra, quel claudicante dagli arti nervosi, tesi, contratti, che pur saltella da una parte all'altra del palco, è un Arlecchino che sputacchia di sovente, che sembra faccia fatica a parlare ma che non perde mai né ritmo, né battuta; è quel furbacchione che t'inganna; è quell'ingordo che ha imparato così bene a fare lo spastico che sembra vero, se non fosse improbabile trovare un disabile così tanto abile, se non fosse il nostro stigma ad impedire di immaginare un Arlecchino con tetraparesi spastica portato in scena come fosse la cosa più ovvia del mondo... se non fossero reali sia lo stigma che l'ovvietà.
Davide Anzalone, in arte Zanza, è un bravo attore handicappato di quarant'anni. È un bravo attore, ci ha divertito, ci ha coinvolto, il suo personaggio ci ha fatto riflettere e quasi commuovere, ci ha convinti; ed è handicappato perché l'handicap c'è, è visibile, è ciò che gli impedisce un movimento fluido, è il sudore che gli deriva dalla fatica di far scorrere la lingua senza inciampi, i conti con questa sua psicomobilità, ma è questa diversità la sua forza, il duro lavoro a cui si sottopone per giungere a questi livelli performativi, la capacità di rendere armoniosi i suoi gesti, tre ore di scena e mai una sbavatura, tre ore di corse e saltelli a ginocchia piegate e mai un inciampo.
Sarà per questo che c'è sembrato, insieme a Blasco e Jessica, naturale, meno impostato degli altri interpreti, un po' costretti, forse, dai dialetti non originari, un po' irrigiditi dall'ansia del palco; lui, nella sua genetica tensione nervosa, era tra i più rilassati sulla scena.
Il regista, che ha fatto anche un buon lavoro drammaturgico dando all'opera nuovo movimento storico/sociale e geografico, è stato, diciamocelo con leggerezza, particolarmente furbo; ha reso questa sua versione dell'Arlecchino unica, oltre ed al di là di tutte le possibili edizioni di Strehler, oltre e al di là di tutte le possibili versioni che verranno; ma lo spettacolo è piacevole a prescindere dalla lungimiranza strategica.
L'organizzazione scenica scorrevole, la scenografia essenziale, le luci quasi sempre piene e le musiche dal vivo hanno fatto il resto, rendendo "di casa", vicino, familiare, lo spettacolo.
Il risultato è stato entusiasmante, minuti interminabili di applausi hanno accompagnato le uscite degli attori, la sensazione di aver assistito ad una messinscena preziosa ed unica, ma soprattutto la curiosità di assistere a nuove performance di questo giullare, ci consola dalla fine.

 

 

 

 

 

Fuoritraccia
Arlecchino servitore di due padroni
tratto da Il servitore di due padroni
di Carlo Goldoni
drammaturgia e regia Carlo Boso
con Davide Anzalone, Francesca Berardi, Marco Chiarabini, Erika Giacalone, Teo Guarini, Andrea Milano, Michele Pagliaroni, Arianna Primavera, Guido Targetti
scene Erica Marchetti, Luca Giombi, Erika Giacalone
costumi Sonja Signoretti
maschere Stefano Perocco
produzione Compagnia Cantina Rablé, Centro Teatrale Senigalliese, Comune di Senigallia
lingua italiano
durata 3h
Gubbio (PG), Teatro Comunale “Luca Ronconi”, 20 febbraio 2016
in scena 20 febbraio 2016 (data unica)

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