“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 06 December 2015 00:00

Il senso e nessun limite

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Come possa raccontare questa storia, ho l’impressione che non mi sia per niente chiaro. Ma sento di doverlo fare.
“Sono solito pensare che un libro nasce de un’insoddisfazione, nasce da un vuoto, i cui perimetri si delineano strada facendo e al termine del lavoro. Sicuramente scriverlo equivale a...“. È Enrique Vila-Matas, nell’incipit del primo racconto della raccolta Esploratori dell'abisso.
La libertà ritrovata. Sarà poi vero? Sono le undici di un sabato mattina, sto cazzeggiando qui in casa, il libro in mano, passo da una stanza all’altra senza una meta definita o in via di definizione. Caroline, mia moglie, sdraiata sul divano in totale relax sfoglia distrattamente un insulso settimanale americano per donne. Lei è nata nella West Coast. Eravamo colleghi nella multinazionale dove abbiamo lavorato.

Prendo il telefono e chiamo Renato. “Ciao, che stai combinando di bello?”.
“Più o meno quello che immagini tu”. E decidiamo di andare a farci un bicchiere.
“Alla Magolfa” dice lui.
“Ok, passa a prendermi”.
Non ho dubbi che Renato stia pensando la stessa cosa che ha fatto breccia nella mia mente. La Magolfa? Ma non è più quella di una volta − una sorta di magica trattoria in riva al Naviglio Pavese − dove noi due con altri compagni di scuola ci incontravamo il sabato sera. Riesling a volontà, parole in libera uscita, per lo più su ragazze che conoscevamo, e puntavamo con scarso successo. Oggi la Magolfa è una pizzeria gestita da egiziani. Me lo ricorda Renato. “Fa niente, andiamoci lo stesso, chissà che non ritroviamo qualche refolo dello spirito di una volta”, lui sa che sto evocando lo spirito di quasi cinquant’anni fa, quando da liceali persi nel nulla trovavamo, o credevamo di trovare, spiragli di un quadro di vita in formazione, ciascuno con le proprie nebulosità. Oggi siamo ultrasessantenni, con alle spalle una vita lavorativa da manager di successo. Ai tempi, in quelle serate, c’erano con noi Corrado e Dario, e saltuariamente Ernesto. Stessi giovani sfigati, ma non privi di verve (almeno quella). Poi in carriera anche loro. Ancora adesso, di tanto in tanto, noi del “Gruppo Storico” − così usiamo chiamarci −  ci ritroviamo, non sempre al completo, e comunque in compagnia di qualche buona bottiglia.
Sono con Renato, alla Magolfa. Ci guardiamo attorno, neanche un’ombra dell’atmosfera di allora. Il calice di vino, però, è di quelli giusti; comincia lui a tentare una conversazione che possa stare in piedi, e non sia piuttosto un malinconico vaniloquio. “Allora, Enrico, ce le farai leggere prima o poi le bozze di quel romanzo che hai in mente di scrivere, visto che sei interessato al nostro giudizio?”.
“Romanzo, racconti, memoir, non ho ancora le idee chiare. Sai, oggi si tende a scrivere romanzi che altro non sono se non un intreccio di forme brevi, cioè di quelli che un tempo si chiamavano racconti. E poi c’è il vissuto personale sempre più difficile da tenere fuori dalla narrazione. Per non parlare dell’estensione in ambito  letterario − peraltro talvolta  tirata per i capelli − di alcune leggi della scienza fisica”.
“Fammi capire”.
“Be’, il principio di indeterminatezza, il nastro di Moebius... persino la fisica quantistica... la seconda legge della termodinamica, cioè entropia, e altra roba del genere. Il tutto da prendere con la dovuta prudenza, dato che − è Thomas Pynchon che parla a proposito di entropia − “le parole degli studiosi non di rado sono divergenti se non antitetiche”.
“Ah, non lo sapevo”.
“Siamo in una complessa fase di transizione, Renato”.
“Sì, da discreto lettore quale credo di essere, mi sembra proprio che oggi ci sia in giro quel tanto di complessità che disorienta. Sarà che stiamo vivendo tempi caotici, la vita è un insieme di incerti... episodi. Mutevoli di significato dall’oggi al domani, e del tutto privi di un collante logico. Che ne dici”.
L’incontro termina dopo un’ora di schizofrenici enunciati (contraddizione in termini) lasciati malinconicamente a metà, senza si potesse intravedere accettabili conclusioni.
“La prossima volta, Renato, sarà il caso di vederci anche con gli altri. Ma alla Taverna Moriggi, direi. Là, se ben ricordi, l’ambiente è sempre stato più raccolto, più coinvolgente per perderci nei nostri voli. E poi non è cambiato. Ci sono stato con Caroline poco tempo fa, e mi è parso un tuffo nel passato che non è passato”.
“Va bene, organizza tu, ma vieni preparato perché voglio tornare sulla faccenda del tuo romanzo... o quel che sarà”.

Arrivo all’appuntamento con una buona mezz’ora di ritardo. Il senso di appartenenza che mi prende nel Centro Storico è quello di sempre. In zona il Duomo, la Scala, e altre eccellenze artistico-urbanistiche. La Milano che da altre parti svetta ormai verso una esaltante postmodernità, qui custodisce gelosa il suo cuore antico.
Sto per entrare nella Taverna del nostro Gruppo. Lampade e lanterne di ferro al di là delle vetrate, da fuori le vedo ed eccomi nel medioevo a nostro uso.
Qualche spiritosa cazzata da parte degli altri per via del mio ritardo, loro stanno già bevendo. “Abbiamo deciso che questa serata sarà benedetta da vini beverini dell’Oltrepò Pavese, ti va?”. Corrado, col solito piglio creativo. Ha raggiunto vertici invidiabili nel marketing, ma non altrettanto in famiglia. È divorziato da anni, i due figli all’estero che non si fanno vivi se non quando sono a corto di finanze. “Figuriamoci. Io vengo da quelle parti, lo sapete” rispondo.
Sembrerebbe un incontro a tema. Attacca subito Dario. “Un romanzo non s’improvvisa, chissà da quanto tempo ti stai struggendo in quell’intrico di stralunate immaginazioni”.
“Ma vaffa!” E tutti giù a ridere. Il Gruppo c’è ancora, e si vede.
Il nostro tavolo è una colorita mostra di bottiglie in attesa di essere accarezzate con tocchi di classe. Dalla Croatina al Buttafuoco, dal Malvasia al Pinot Nero vinificato bianco, ce n’è  sì e no per metà serata. Si vedrà.
Ernesto questa volta è con noi. “Ho dovuto insistere perché non disertasse” Renato. Noialtri sappiamo da tempo che Ernesto è lì per cadere in depressione. Dopo il pensionamento ha investito quasi l’intera liquidazione in un’operazione finanziaria a base di derivati che rischia di trasformarsi in un disastro a causa dei titoli tossici di cui ignorava l’esistenza. Oggi tira avanti con la modesta pensione della moglie e sta cercando di salvare il salvabile vendendo sottocosto i titoli, ma non è un’operazione semplice. Tentiamo di coinvolgerlo nel nostro vaneggiare sulla vacuità di certe contorte fissazioni letterarie in circolazione, sperando di individuare qualche sia pur sottile concetto su cui sviluppare un sostenibile scambio di opinioni.
Capisco che tocca a me tenere dritta la barra. “Sentite, vi ringrazio per essere disposti a bruciarvi un’intera serata sprecando parole sulle mie velleità letterarie, ma intanto vi dico che di bozze qui non ne ho. Sono ancora al punto di farneticare su un possibile plot e sul modo di svilupparlo”.
“Parliamone un po’, allora” Corrado, già tendente al vivace con brio.
Così, do inizio al mio logorroico tentativo di fissare il punto. Ma voglio evitare le solite menate. Non me la sento di coinvolgere gli amici nel disquisire sulla superiorità di una tecnica narratologica piuttosto che un’altra. Voglio  essere al di fuori di certe neuro-contorsioni teoretiche. E mi basta dire che se un narratore non dà vita a un contatto con altre coscienze, resta soltanto un abile giocoliere delle parole.
Quanto allo stile c’è poco da dire: lì non ci sono limiti, non devi  lasciarti influenzare dai soliti rigoristi monocordi. L’alternanza di stili fa bene allo scrivere.
Senza darlo a vedere sbircio Dario che per la terza volta si avvia alla toilette, in fondo alla sala. Effetto del vino beverino o problemi prostatici. Ogni età ha le sue.
Gli altri − già su nuvole alcoliche − danno l’impressione di non essersene accorti. Dario ora è al tavolo.
“È il senso” rivolgendomi a tutti con più forza. ”Il senso più o meno percepibile di quello che scrivi che non deve restare del tutto nascosto, se non addirittura inesistente. Capisco che mi sto incasinando, ma qui sta il punto. Può bastare lasciar al lettore qualche segno, anche esile, che gli dia la possibilità di andarne alla ricerca. Ci sono diversi modi: mi viene in mente, a esempio, la teoria della “punta dell’iceberg” elaborata da Hemingway. Niente male.
“Beh, ragazzi − si fa per dire − non avete niente da dirmi? Suggerimenti, critiche, cazzivari. Insomma, vi conosco per avere un buon rapporto con la narrativa. In questi tempi di merda non è cosa da poco. Televisione con un assurdo susseguirsi di trasmissioni sull’arte del cucinare, dirette da cuochi privi di confidenza con la lingua madre. Sale cinematografiche semivuote. Librerie storiche sul punto di chiudere i battenti. C’è poco da stare allegri” dico.
“Io ormai leggo solo Dan Brown, e cose così” Ernesto.
“Letture commerciali che ti lasciano più vuoto di prima” replico, pentendomene subito dopo, dati i guai che sta passando.
Poi è la volta di Corrado. “Ma c’è davvero bisogno di dare un senso a quel che si scrive? O essere didascalici? Enrico, in questo caos esistenziale io al posto tuo una passeggiata letteraria con Borges la farei. Se non altro per tentare di esplorare l’inesplorato, quello che sta sotto la cosiddetta realtà visibile”.
“Già. Così, lungo i suoi scarsamente solari labirinti finirei per calarmi in tali abissi da non vedere la benché minima possibilità di uscirne con la consapevolezza di far parte di un sia pur disastrato consorzio umano da raccontare. Ma potrei sbagliarmi, forse non sono all’altezza per capirlo. Deficit culturale...  che vuoi”.
“E poi” questa volta è Renato “perché non avere come fondamentale un manifesto, se possibile non ingessato − capita a volte − o qualche pensatore barra scrittore di riferimento?”.
“Con il rischio di desertificare tutto ciò che gli sta attorno. Hai presente quelli che con un certo sussiego esibiscono la loro esclusiva fedeltà a questo o a quel famoso soggetto, senza lasciare il minimo spazio per altre vie?” dico. Mi guarda in un modo che ben conosco, e non risponde.
Siamo ormai in quella fase della serata, ne siamo tutti più o meno consapevoli, in cui conviene alzare il culo e fare ritorno ai nostri rifugi, stando possibilmente attenti a non sbandare.
“Il conto questa  volta è mio” biascico. Faccio per pagare con carta di credito, ma non ricordo il PIN. Telefono a Caroline, che me lo ripete tre volte. Ha capito tutto.
Prendo il tram in via Torino. Mi siedo leggermente insicuro, durante il tragitto tento un credibile bilancio della serata, Caroline non si accontenta, in questi casi, di scarni riassunti, dovrò riferirle  tutto quanto. Verbatim, dirà sicuramente lei.
A metà del percorso, un brivido improvviso mi scorre per tutto il corpo. E mi viene alla mente lui, Vila-Matas. Ma non quello di Esploratori dell'abisso, al quale in un certo senso volevo ispirarmi. Il suo libro che sta per provocarmi una scossa emotiva è un altro, ossia Bartleby e compagnia, il libro − per me inquietante per il dubbio che mi insinua − che tratta di “quegli esseri che ospitano dentro di sé una profonda negazione del mondo”, e tra loro l’autore cita, argomentando, autori famosi che, dopo aver dato vita agli inizi a opere di successo, hanno smesso di scrivere per sempre. Tra quelli, Vila-Matas cita Rimbaud, Salinger, Rulfo − per dire i più famosi − e altri di ottimo livello sebbene meno conosciuti. Una sindrome che colpisce anche quei Bartleby che pur dotati di talento rinunciano del tutto a scrivere.
Sceso dal tram, alzo gli occhi: al quinto piano la luce è accesa.  Mezzanotte è passata da non so quanto. Caroline, paziente, di sicuro mi aspetta sorseggiando lenta un buon gin tonic.
In ascensore fisso il grande specchio sulla parete, quasi a cercare una risposta. Una qualsiasi. Ma lì è solo riflessa una sfocata figura che fatico a riconoscere.

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