“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 11 October 2015 00:00

Corri, Fontana…

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LA TEORIA DEI COLORI. I Campionati Italiani Young riders di salto ostacoli si svolgono a San Giovanni in Marignano, Horses Riviera Resort. Una bambina di sette anni con un calippo in bocca mi passa accanto, mentre cerco di capire dove sono i cessi. Fa caldo. È la prima volta in vita mia che assisto ad una gara di equitazione – e, a ben pensarci, che vedo dei cavalli dal vivo. Non sono preparato: non ho alcuna nozione che possa aiutarmi, non conosco nessuno, non voglio conoscere nessuno.

Mia nipote si allontana con il suo allenatore: hanno l’aria seria, entrambi, preoccupata. I ragazzi portano giacche da concorso in lana di Tasmania, camicia bianca e cravatte con nodo fisso J. van D., facce arroganti, piccoli tic nervosi e capelli a taglio corto, non parlano ma sono parlati sai, mio figlio era felicissssimo quando ha rivisto la Giulia dopo così taaaanto tempo era pazzodigioia sorridono alle ragazzine, tutte tra i tredici e i diciassette anni, voci piene di soldi (Fitzgerald) e capelli biondi. È il campionato giovanile, d’altra parte: i cap si intonano alle giacche, le giacche ai sottosella. C’è odore di terra e di merda di cavallo (il Gadda avrebbe detto polpette, seminate dagli "irrequieti cosciotti"), ma non disturba i papà in cappellini-da-baseball e occhiali da sole e facce bolse. Gli allenatori se ne vanno in giro in biciclette scassate. I groom sudamericani in canottiera se ne fottono, dei ricchi e di tutto il resto. Passare la giornata in un maneggio ti lascia la strana impressione di non aver fatto altro, per tutto il tempo, che guardare cavalli che saltano ostacoli. Resto mezz’ora in coda per chiedere un caffè al bar: scopro che non esistono cavalli bianchi, perché – mi dicono – sono grigi. Apro una discussione di teoria dei colori. La barista non è d’accordo. Il tizio dietro di me neppure: “Ma ha almeno letto Goethe? che tutti i colori mischiati producono il bianco è un’assurdità”. Il caffè è cattivo, servito in un bicchiere di plastica.
FRUSTINO. Mi siedo con alcune ragazzine che stanno aspettando l’inizio di un turno di gara perché vorrei comprare un frustino sapete, per la mia ragazza (…)  non si scompongono daiiii cioè? si guardano le unghie e lo smalto viola. Didascalico, mi dico che l’equitazione è roba per adolescenti viziate, figlie di neo-industrialotti-recenti-della-Bassa che "si rimboccano le maniche nel lavurà" (Arbasino) moglie di plastica ed amante-bambina (– sì, cioè, un frustino per la mia ragazza; – cioè, in che senso, va a cavallo?; – no, per niente. Odia i cavalli; – non capisco...). Mi indigno (moralista) contro lo sfruttamento del cavallo da parte dell’uomo, del cavallo-motore, cavallo-animale cavallo-che-soffre cavallo-frustato. Mi guardano come se non capissero. Forse sono io a sbagliare. La T-shirt dei Jefferson Airplane non aiuta il mio proposito di integrarmi. Sai, l’equitazione non è un gioco, è uno sport – mi fa notare gentilmente una signora sui sessant’anni dai capelli platino.
IL SALTO. Il punto è: perché potrei permettermi di disprezzare queste ragazzine idiote in shorts con lavaggio acido a strappi che fanno un effetto-pannolone-di-jeans? (c’è una teoria, sviluppata dal Professor R., che sostiene che la moda femminile sia una congiura ordita da una setta di stilisti omosessuali per rendere indesiderabili le donne). Devi essere lì quando accade qualcosa di sfuggente, impercettibile, senza ragione: quando il cavallo si lascia portare da queste ragazzine. Sinora non avevano fatto altro che fumare sigarette, controllare Ask.fm (per chi non lo sapesse: è un’applicazione in cui accetti di farti fare domande in modo anonimo porti le mutandine? ah... interessante), annoiarsi, guardarsi intorno con occhi vuoti. In gara, però, ti accorgi che il cavallo obbedisce alle loro mani, e non sono più le stesse mani, ai movimenti della loro testa. Il cavallo, adesso, è obbediente. E non lo è per paura o per forza, non perché è stato addestrato ad obbedire, ma perché, con queste ragazzine, non può fare a meno di obbedire. C’è uno scarto nascosto, che soltanto dopo ore passate a fissare i movimenti, le velocità, inizi a capire: il cavallo non è più simbolico, per questi ragazzetti, non è più un significante, non rappresenta più alcunché – non c’è nessun padre, nessuna sostituzione metaforica (Lacan: "il cavallo, prima di essere un cavallo, è un elemento che lega e coordina"). Siamo al di là della legge, siamo nella bellezza che è propria della follia: per queste ragazzine il cavallo è Reale, e non è più nella realtà – il che dunque non vuol dire: esiste semplicemente come un cavallo, ma tutto il contrario: è reale proprio perché non è più un cavallo: è soltanto un inconoscibile,  un indecidibile, una minaccia, forse, è qualcosa di impossibile e che proprio per questo capita (dici non è possibile!: appunto perché è accaduto!). Il cavallo, in quel momento, è soltanto qualcosa-che-accade. È qualcosa che si perde, che si cancella, accadendo: per questo noi continuiamo a vedere un cavallo, a rappresentarci il cavallo, anche se in quel momento, in quell’istante che prepara il salto, il salto è già avvenuto, ed il cavallo non è più che un’intensità, qualcosa che i nostri pensieri, i nostri segni “perdono” ed a cui non sono preparati. Queste ragazzine non sono padrone del cavallo – non esercitano una “padronanza”, un controllo, non hanno alcun sapere disciplinare –, per quanto siano convinte di esserlo. Istintivamente, capiscono che, in quel momento, ciò che accade non è il loro cavallo (l’equus bonus, un cavallo-strumento, un cavallo-proprietà), ma il divenire-animale, il realizzarsi delle possibilità dell’animalità ed il corrispondervi delle mani, delle gambe, dei visi di queste bambine volgari, che ora sono come gettate al di là del linguaggio e della loro realtà. Quel che accade al cavallo può accadere anche a me: scambio e circolazione (Deleuze-Guattari), certamente, un cavallo domato, ma solo per poter produrre dei concatenamenti, delle linee di intensità nuove, in cui non c’è più divisione tra l’animale e l’uomo, non c’è più la sbarratura (semiotica ed ontologica) che li separa.
SCOMMESSE. Cerco di convincere quattro ragazzini seduti dietro di me sulle tribune a scommettere sul vincente. Non sui piazzati, ragazzi: come dice Bukowski, "chi gioca i piazzati è uno che avrebbe preferito restare a casa, ma poi è andato lo stesso alle corse". Ma le corse non s’addicono all’equitazione: vi stanno come "il correre al ballare" (P. Lichtenthal, Estetica ossia dottrina del bello e delle arti belle, Milano, 1831, p. 428).
FONTANA. Fontana L., classe 2003, tedesco, figlio di For Keeps e West Point: digrigna i denti, ride (Musil ha dimostrato che i cavalli ridono), è rapido e lento (nello stesso tempo), impenetrabile. Non sopporta le riviere, ed è proprio saltando una di esse che tocca appena l’acqua: si alza la bandierina rossa, lui continua a correre, la radio trasmette una canzone insopportabile di Giuseppa Gaetana Ferreri.
LA MANO. Se è così difficile sentire l’istante in cui il cavallo non è più un cavallo, non è più un significante, è perché immediatamente ritorna a farsi sentire il sapere, la disciplina, la discorsività, ossia la violenza. C’è, ovviamente, il fastidio dello spettacolo (gli applausi, gli sponsor, le premiazioni, i genitori, gli “organizzatori”). Ma, soprattutto, la ri-produzione della significazione del cavallo – che torna così a rappresentarsi come tale – secondo il codice di questo sport. Penso soprattutto alle pratiche di codificazione delle relazioni tra la mano (e la mano non è uno strumento, ma è il logos, è il pensiero stesso: è ciò che afferra, prende, s’impadronisce, mano che marca, che è propria dell’uomo e relega l’animale alla zampa) e l’animale, che sono presenti nell’equitazione. Il movimento del cavallo, la sua anatomia, si ridetermina ora attraverso il linguaggio dell’equitazione, che conosce tutta una serie di significati diversi in rapporto alla mano (ossia all’uomo: io sono la mano, mentre il cavallo ha semplicemente gli zoccoli): cavallo sotto mano, cavallo sotto la mano, cavallo alla mano, cavallo in mano, cavallo avanti alla mano, cavallo contro la mano, cavallo dietro la mano, cavallo sopra la mano. L’equitazione spiritualizza la mano, ne rivela l’essenza logocentrica: la mano non tira, ma fa-segno, è "semplice segnale dato con la chiusura delle dita" (J.-Y. Le Guillou, Nouvelle equitation. À la recherche du centaure, 1988: l’ideale dell’equitazione è portare la mano a giungere al punto-zero, ossia a farsi puro segno, a disincarnarsi, a non farsi sentire dal cavallo, un sensibile-insensibile). Il cavallo è riportato così al suo essere animale, a significare soltanto a partire dalla mano, dai segni e dai gesti che essa traccia, padrona: è la mano-segno che de-cide il senso del cavallo. Il cavallo è così pensato in funzione della mano, dalla gara sino a ciò che si chiama, non per caso, governo della mano: la pulizia del cavallo (e la sua utensilità: striglia brusca forbice spugna spazzola bruscone nettapiedi) è ciò che riporta il cavallo sotto il “governo” del pensiero, del logos, del segno – delle sue significazioni estetiche ed igieniche: il bel cavallo, il cavallo sano, il cavallo pulito. È molto stupido, allora, pensare che la violenza sul cavallo dipenda da presunti maltrattamenti che subirebbe (ciò è continuamente scongiurato, qui, da controlli costanti, degni dei più zelanti “animalisti”): la violenza che subisce non è “fisica”, ma linguistica, è la violenza del logos, della mano come logos, come “pensiero”.
CADUTA. Al suo secondo giro, la ragazzina è tesa. Presto perde il ritmo, ed anticipa il cavallo nel salto: la preceduta fa toccare la barriera, ed il cavallo cade a terra, calpestando la ragazza, che fa tempo ad alzarsi, vomitare un vomito da shock emotivo-affettivo in soggetto neurolabile, e poi svenire. Entra la barella. Il papà della ragazzina rassicura tutti: sono un avvocato, so come vanno queste cose, ciuccia una sigaretta elettronica per dimostrare che ha smesso di fumare, se la caverà, certamente: noi lo facciamo solo perché a lei piace tanto, mi confida la mamma: se non fosse perché Vittoria è così appassssssionata (intanto l’appassionata continua a vomitare). Il pubblico applaude, vivamente commosso. Viene chiamato il concorrente successivo. Un ragazzo dall’aria terrorizzata. Ma non cadrà.
IL CAVALLO È NATURA. Così in un elzeviro di Flaiano, 1970: che almeno, pensavo, ci sopravviva il cavallo

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