“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 06 September 2015 00:00

Racconti sonori – L'appestato

Written by 

 

Nisi Dominus – Cum dederit – Vivaldi – controtenore Andreas Scholl

La nebbia si diradava nella sua mente. Lentamente. In bianco e nero vide uno stanzone immerso in una penombra interrotta da una piccola oasi di luce a mezza altezza, fuori dalla portata dei suoi occhi.
Nell’aria brevi borbottii, colpi di tosse insieme a parole oscure snocciolate in una lingua sconosciuta eppur a lui comprensibile.
Mosse un braccio ma il movimento rimase impigliato: la sua mano era trattenuta e non poteva toccare il suo viso. Una pressione nauseante gli risalì dallo stomaco. Uno strattone dell’altra mano confermò quella nera sensazione: era legato sopra un letto. Un lieve movimento del piede, incerto e riluttante a confermare la parola che gli affiorava nella mente, si arrestò subito. Bloccato.
Era sedato su un “letto di contenzione”.

Fu preso da panico misto a rabbia. Sempre più chiaramente ebbe percezione del suo agitarsi. Intravide un’ombra affiancarsi alla sponda del letto. Non sentì nulla. Risprofondò nella nebbia di un sonno senza sogni.

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Era il suo terzo giorno consecutivo di veglia. Stava ripercorrendo tutta la sua vita. O meglio, quegli snodi misteriosi che quando si vivono non sempre riusciamo a coglierne la loro centralità rispetto alle nostre vite, ma solo dopo, a posteriori e volendone tratteggiare brevemente un riassunto, assurgono all’importanza del posto d’onore.
Per questo non poteva perdere tempo dormendo. In ogni caso la sua mente era così accesa che nulla l’avrebbe spenta. Più si addentrava indietro nel tempo e più i veli che avevano sempre impedito una chiara visione delle sue scelte, delle sue e delle altrui azioni, delle parole sprecate su di loro e del perché del bisogno di sprecarle, si diradavano.
La vera natura dei rapporti tra persone e cose e tra persone e persone era ad un tratto limpida. Ogni sua nuova spiegazione si incastrava senza contraddizione, svelandone l’intima ragione.
Ora riusciva a vedere la sua vita trascorsa fino ad allora come l’avrebbe vista un estraneo, come affannosamente e dolorosamente scopriva essere sempre stato per se stesso. Per la prima volta era davanti ad un altro sé: sensazione che quattordici anni dopo avrebbe riprovato sentendosi precipitare negli occhi di suo figlio, come li unisse un passaggio, una linea di percezione empatica attraverso la quale per un attimo si rovesciò fra di loro la linea del tempo.
Ma quello che vedeva di sé adesso, e per la prima volta, non gli piacque.
Quando la mattina salì sull'autobus che lo avrebbe portato al lavoro,, dopo la terza notte passata a proiettare sulle pareti della sua stanza schegge della sua vita trascorsa, tutti i passeggeri, come al “ciak” di un oscuro ma onnipresente regista, iniziarono a muoversi come attori che iniziavano a recitare la loro parte di "passeggeri".
Tutta la giornata al lavoro la passò nel più impenetrabile dei silenzi. Intento come era a scoprire il mondo, tutto dentro e attorno a sé, collegato e interconnesso e per la prima volta interamente comprensibile. Sentiva montare intorno, tra i suoi colleghi, la curiosità, l’ilarità. La preoccupazione. L’imbarazzo. E ciò consolidò in lui la convinzione di non parlare più. Fu proprio all’uscita, quando già tutti gli impiegati sciamavano dimentichi delle bazzecole, buone per riempire la solita giornata e si appressavano ognuno verso il proprio spicchio dipinto di paradiso, che il più sempliciotto e per questo spinto dagli altri colleghi, buttò lì una frase, qualcosa che qualcuno gli aveva suggerito: sicuramente avrebbe in lui creato una reazione perché rivelava qualcosa di approssimativamente vero, di parzialmente impreciso che l’avrebbe spinto ad uscire dal suo guscio impenetrabile... e lui rispose a metà tra un suono gutturale ed una esclamazione. Sufficiente al tizio per farlo goffamente gridare rincorrendo gli altri impiegati, che sgaiattolavano ormai dimentichi di lui e di loro.
Il pomeriggio si ritrovò da lei, che frequentava da pochi mesi, ma che voleva toglierselo di torno già da tempo e per questo, saputo che sarebbe arrivato, si fece trovare con un suo amico, con il quale si mise a guardare la tv in salotto. Ostentatamente indifferente alla sua persona. In piedi dietro il televisore li vedeva seduti dinanzi a lui. Fu allora che le parole senza senso della pubblicità divennero un chiaro discorso tra loro due. Si trovò a rispondere alle sue affermazioni, a cui seguivano chiare risposte. Non c’era dubbio, come una strega, quale era, lei gli parlava attraverso l’apparecchio televisivo. E a lei, controbattendo in realtà alla pubblicità di un pannolino per bambini, lui rispose con uno sdegnato ed esibito addio.
Era sera, una chiara e ventosa calda sera di agosto. Eppure un senso di minaccia si gonfiava alle sue spalle, come folate di vento preannuncianti tempesta. I significati frammentati della sua esistenza erano come proiettati e propagati intorno a lui su persone e cose.
Nella sua casa silenziosa dove era tornato, si apprestava a vivere la 72esima ora di veglia. La vasta stanza l’opprimeva. Le luci attenuate dell’abatjour lo angosciavano. Uscì. Prese le chiavi della sua auto. Ma al momento di girare la chiavetta di accensione un pensiero di morte lo colpì sotto forma di una manomissione della sua auto in autobomba. Strinse i denti, serrò i pugni e mise in moto. Prese la direzione della superstrada verso il mare. Ma si fermò dopo pochi chilometri. Si intrufolo verso il dedalo di strade adiacenti e parcheggiò.
Era ormai notte. Si ritrovò a camminare sul largo marciapiede che affianca la superstrada nel tratto ancora urbano. Indietreggiava ed avanzava più volte, in un dialogo angosciato tra i due sé scissi in lui. Fu quando il panico di una minaccia di morte ossessiva ed incombente superò l’ormai fragile filtro della coscienza, che reagì come una cavia in un esperimento di laboratorio. Scappando.
Si diresse verso alcune macchine ferme al semaforo. Si avventò verso la portiera del passeggero dell’auto posta nella carreggiata centrale e aprendola di scatto si gettò letteralmente dentro l’abitacolo, cercando di infilarsi con un piede verso il piccolo spazio tra il sedile ed il montante della portiera, sotto lo sguardo attonito e sbarrato dei passeggeri che lo occupavano.
In una frazione di secondo il semaforo divenne verde, il guidatore, tra le prime urla dei suoi passeggeri, sgasò spaventato, il suo piede fu sbilanciato dallo scatto dell’auto e lui rovesciò sull’asfalto tra le macchine che acceleravano intorno a lui.
Si rialzò e corse verso il marciapiede. Aveva un fianco ferito. La sua faccia era segnata e stravolta da un dolore non solo fisico. Oscillando passeggiava avanti e indietro sul marciapiede ormai indeciso a tutto, in un dialogo ondivago tra la sua parte umana e quella divina in lotta esiziale fra di loro. Annichilito iniziò a battere la testa contro il palo di una fermata d’autobus, nel tentativo di riassaporare con il dolore il sapore del reale.
Fu così che lo trovò l’equipaggio di una volante che era stata messa in allerta da qualcuno che l’aveva visto al semaforo. Due schiaffi in faccia furono il loro primo pronto intervento, scambiandolo per l’ennesimo tossico. Ma fu quando lui riconobbe in un poliziotto un suo vecchio compagno delle medie, il quale però continuava a non riconoscerlo, che gli uomini della volante decisero di portarlo al commissariato di zona.
Passò il resto della breve notte in un dormiveglia agitato sul tavolaccio. All'alba quando aprirono la cella c’era ancora il poliziotto suo amico delle medie, che testardamente continuava a non riconoscerlo, ed un altro che gli faceva domande su lui e il suo lavoro. Chiamarono una autoambulanza. Si fece tranquillamente coricare su una lettiga e mentre facevano scivolare la barella all’interno, si piegò su di lui un uomo che lo scrutava. Era una faccia che lui aveva già visto, un volto vagamente familiare...
La donna era bella. Viso regolare. Alta, slanciata, mora con capelli neri lunghi ed occhi chiari. O perlomeno così lui la vide. Intorno a loro, seduti ai due lati di una scrivania, quello che sembrava essere l’ufficio di un reparto medico. Lei gli chiedeva di lui e seguiva intelligentemente le sue risposte in modo che in due o tre battute arrivò a chiedergli da cosa, negli altri, lui percepisse la bontà della loro persona. E lui rispose dagli occhi. E poi banalmente concluse con “... gli occhi sono lo specchio dell’anima”. Ma la situazione lo stava stancando. Non aveva più voglia di rispondere a quelle domande intrusive. Aveva voglia di andarsene. Si alzò e uscì dall’ufficio. Lei provò a parlargli ma non fece nulla per trattenerlo. Fuori a sinistra, lungo un vasto corridoio, si apriva l’ampio ingresso di una camerata, a destra il corridoio finiva con un portone di ferro chiuso. Si diresse a destra, verso l’uscita. Incrociò una vecchia in vestaglia con la testa bassa, grigia e scapigliata che guardandolo di sguincio con uno sguardo sfuggente ma penetrante, sibilò in modo che la potesse sentire solo lui “... eccone n’artro...”. La porta era chiusa. Dietro lo chiamavano per nome. Cercando di aprire il portone di ferro gridò che voleva andarsene, che voleva uscire. Mentre alcuni infermieri grossi come ante d’armadio gli si dirigevano contro, si diresse a lato del muro verso un citofono collegato ad una telecamera che lui non aveva neanche visto. Non fece in tempo a spingere il bottone che si sentì letteralmente sollevare in modo che si trovò già bloccato mentre lo alzavano di peso.
Gli stringevano il braccio che avevano denudato. Capì che gli stavano somministrando una dose di eroina ed il motivo era evidente in lui. Si ostinava a non fare la scelta per la quale lo avevano bloccato in quell’angolo della sua esistenza: diventare un killer. L’alternativa era l’eroina. Ma era chiaro che avrebbero simulato una overdose e lo avrebbe ucciso. Li sentì armeggiare intorno al suo braccio ed ebbe la consapevolezza che stava vivendo gli ultimi attimi della sua vita. Non si agitò più e non fece resistenza. Chiuse gli occhi aspettando la morte.

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La luce del giorno inondava l’ampia camerata e la percepiva anche ad occhi ancora chiusi. Era sdraiato nel letto, senza costrizioni di sorta. Un uomo ed una donna sessantenni erano seduti accanto a lui.
La donna lo guardava con uno sguardo freddo e indagatore. L’uomo a capo basso piegato in avanti, come schiacciato da un peso, piagnucolava immerso in una tempesta di emozioni e di provvisori sensi di colpa.
Era stato fatto dormire per tre giorni interi. Insieme a loro passeggiò nei giardini dell’ospedale, nella frescura alberata di un caldo pomeriggio agostano. Il giorno stesso fu portato nella vecchia casa di paese dei suoi nonni e di sua madre. Salito e accompagnato al primo piano, lungo i consunti e stretti scalini di legno, fu fatto stendere sul letto matrimoniale dello zio, in quella camera dagli antichi e forti aromi, ma non ne riconobbe l’orientamento: la finestra stava dal lato opposto da dove l’aveva sempre vista, non aveva il balconcino ed era affacciata verso i boschi, non verso la piazzetta.
E lì, come un Cristo deposto, guardando quello spicchio di cielo dalla finestra, sentendo il fresco e pungente odore di quei castagneti intorno, sulla triste maschera del suo viso immobile tutte le lacrime non piante iniziarono lentamente e silenziosamente a scendere.

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