“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 30 August 2015 00:00

Mio amato carceriere (V capitolo)

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ALLA RADICE DEL RITMO

 

 

Segui il messaggio che proviene dagli occhi,
non badando a chi è indossarli.
Perditi nel profondo di quei laghi
e punta diritto alla loro fonte.
Consenti alla loro purezza di essere la tua
e che il loro mondo divenga il tuo mondo.
             (V messaggio)

 

 

Aprendo gli occhi quel mattino, ebbi modo di verificare che la scappatella della sera precedente qualche segno lo aveva lasciato, dal momento che l’orologio sul comodino segnava che erano già le otto meno qualche minuto.

Fui molto sollevato al pensiero che quel giorno non ero impegnato nella mia attività lavorativa al Park e che, quindi, non dovevo prendere il pulmino che sarebbe partito un quarto d’ora più tardi, ma avevamo per fortuna appuntamento solo alle nove per un’attività di giardinaggio che avrebbe coinvolto il gruppo nella sua interezza. Usufruii ancora una volta del fatto che i miei compagni di stanza erano ancora profondamente addormentati per occupare indisturbato il bagno di cui usufruivamo solo noi in quattro.
Ricordavo sorridendo il mio avvertimento scherzoso ai miei tre compagni sul fatto che la stanza accanto alla nostra era completamente vuota sin dal giorno del nostro arrivo, ricordando loro un film degli anni Cinquanta, L’invasione degli ultracorpi, nel quale avviene una sostituzione tra le persone di una cittadina americana e degli alieni racchiusi in delle custodie simili a enormi baccelli.
Ebbi, quindi, tutto il tempo per lavarmi e, una volta vestito, feci tranquillamente colazione e fui molto contento di notare che, a parte il leggero ritardo nella mia sveglia interna, non avvertivo altre conseguenze dell’uscita serale e mi sentivo pieno di energia come le altre mattine.
Uscii all’aperto ed ebbi la brutta sorpresa di verificare che il tempo atmosferico era tutt’altro che favorevole alla realizzazione del nostro impegno di quella mattina. Faceva molto freddo e il cielo compattamente grigio sembrava minacciare da un momento all’altro un rovescio di pioggia.
La cosa non fu in grado di mutare il tono eccellente del mio umore e approfittai del tempo che mancava all’appuntamento per gironzolare nelle propaggini del grande bosco che quasi lambivano l’edificio principale.
Dopo esserci radunati nell’atrio, percorremmo in fila indiana il dedalo di corridoi del piano sotterraneo, un’inquietante teoria di lunghi camminamenti posti in quello che consideravo come lo stomaco di quell’edificio. Non dovevo essere l’unico a pensarla in quel modo, perché per tutto il lungo percorso non si udì il suono di una voce e riprendemmo a comportarci normalmente soltanto quando sbucammo all’aperto a poca distanza dal capanno degli attrezzi. Ad attenderci trovammo un uomo che stava controllando gli attrezzi e una donna danese, la quale ci informò che era da qualche mese la focalizzatrice del giardino e che avrebbe presto abbandonato quel compito per il ritorno del titolare di quell’attività.
Il freddo non accennava a diminuire e qualche goccia d’acqua era lì a ricordarci della minaccia che incombeva sulle nostre teste, ma mi augurai che non si verificasse quell’eventualità che avrebbe posto anzitempo fine al nostro progetto.
Raggiungemmo una pezzo di terreno che costeggiava una stradina e fummo informati che il nostro compito consisteva nell’estirpare le erbacce che avevano invaso quel pezzo di terra e minacciavano il grande prato prospiciente alla facciata dell’edificio. Ad ognuno di noi fu assegnato un piccolo pezzo e il mio era posto alla destra di quello della focalizzatrice, mentre ero circondato da ogni lato da quasi tutti i miei compagni di stanza. All’inizio cercai di capire meglio lo svolgersi delle operazioni per non incorrere in errori che avrebbero reso vana la mia attività, lasciando intatte le forti radici di quelle piante nemiche di ogni altra vegetazione. Questa mia circospezione rallentò inizialmente il procedere della mia attività, ma, una volta preso il ritmo, cominciai a procedere speditamente e ad entrare in quell’attività con la stessa consapevolezza che ero riuscito a raggiungere nello svolgimento dei miei compiti in cucina. Era trascorsa circa un’ora dall’inizio e cominciavo inavvertitamente ad insidiare i territori limitrofi, quando sentii che la donna danese mi rivolgeva la parola, costringendomi a rallentare la mia attività per rispondere alle sue domande che in quel momento mi sembravano un po’ senza senso. Ero alquanto infastidito di quelle continue interruzioni, quando, guardando il suo volto, fui colpito dalla forza del suo sguardo, amplificata dall’intensità del colore azzurro dei suoi occhi. Ero ormai abituato a quel tipo di sguardo, ma la combinazione di quel colore degli occhi, l’aspetto del suo viso e quell’aria vagamente ironica provocarono in me un tale turbamento che rese molto difficile ogni mio sforzo per riprendere il controllo della situazione. I suoi occhi ridenti mi ricordarono lo sguardo di intesa che avevo colto tra le due focalizzatrici nel mio primo giorno di lavoro in cucina e capii che con le sue chiacchiere voleva compiere in pratica lo stesso gesto con il quale il gigante tedesco aveva posto fine alla mia totale identificazione nell’attività che stavo compiendo in quel momento.
Colsi il messaggio e rallentai volutamente il mio ritmo di attività, ripassando su zone già lavorate come se volessi accertarmi di non aver tralasciato qualche radice posta nelle profondità del terreno, poi l’interruzione di metà mattina mi aiutò ad uscire naturalmente da quella situazione.
Il tempo aveva avuto pietà del nostro impegno e un timido Sole accompagnò benignamente la seconda parte del nostro lavoro che volò via in un attimo. Cominciammo a raccogliere gli attrezzi sulle carriole per tornare al nostro punto di partenza, ma la focalizzatrice ci fermò e mi porse un lungo fiore che avremmo potuto collocare nella sala dove avvenivano i nostri incontri, con il risultato di accrescere visibilmente il mio imbarazzo.
Quando formammo il cerchio che metteva fine a quell’esperienza, la focalizzatrice ci rivolse parole non rituali che credo ci commossero tutti e stavo allontanandomi quando mi accorsi che avevo lasciato il fiore nel posto in cui mi era stato consegnato. Tornai indietro di corsa insieme a Mia, con la stessa sollecitudine che avrei avuto se al posto del fiore ci fosse stato un oggetto di grande valore e fui molto sollevato quando vidi che era ancora dove l’avevo lasciato e fui molto contento nel vedere che anche Mia partecipava alla mia gioia.
Mentre attraversammo il grande prato per tornare verso l’ingresso dell’edificio, le raccontai della mia esperienza di sprofondamento avvenuta durante la cerimonia della Luna piena cui lei non aveva partecipato e le indicai il punto dove ritenevo che si fosse verificato il fenomeno.
Era la prima volta da quella sera che tornavo in quel luogo e, pur sapendo perfettamente quello che sarebbe accaduto, volli provare a tastare il terreno, rendendomi immediatamente conto che, seppur particolarmente soffice, non cedeva più di un paio di centimetri al mio peso. Vidi Mia sorridere di fronte all’espressione perplessa del mio viso, ma evitò accuratamente di commentare l’episodio, limitandosi ad abbracciarmi per poi condurmi sottobraccio lungo il breve tratto che ci separava dall’ingresso.
Come ricordavo bene, non vi era nella sala delle riunioni un vaso adatto e mi misi alla ricerca di un contenitore per il mio fiore, scoprendo che vi era un locale apposito e fui informato che l’incaricato era Roy, un giovane sportivo che era rimasto gravemente menomato da un incidente. Si trattava della stessa persona dai modi burberi che avevo accuratamente evitato nei giorni precedenti, ma, quando gli esposi timidamente la mia richiesta, mi rivolse un ampio sorriso e mi aiutò a ridurre lo stelo ad una misura adatta ad un bel vaso allungato che scelse con cura tra i numerosi presenti nella stanza.
Ero molto orgoglioso del risultato e di aver visto nella giusta prospettiva quella persona che doveva avere molto sofferto e che forse non tollerava il compatimento di cui pensava di essere oggetto. Tornai dunque nella stanza dove avvenivano i nostri incontri e, dopo aver attentamente studiato l’ambiente, collocai il vaso in un angolo in vista della sala.
Sia durante il pranzo che nel paio di ore libere successive notai che eravamo quasi tutti molto allegri e inclini a scherzare in modo spensierato, in particolar modo, questo lieve stato di euforia riguardava le persone che si erano recate in paese la sera precedente. Qualcosa di strano stava invece avvenendo ai nostri due focalizzatori, quasi fosse avvenuto di recente qualcosa in grado di turbarli profondamente, ma, sulle prime, ritenni che dovesse trattarsi soltanto di una mia sensazione. Quello stesso pomeriggio avremmo riattraversato il bosco per recarci presso una Fondazione collegata in qualche modo a quella che ci ospitava, nel senso che era stata fondata da persone che dopo aver fatto per qualche tempo parte della Comunità, avevano deciso di realizzare un’esperienza autonoma. Sapevo pochissimo della storia di questa seconda Comunità, ma avvicinandomi al bell’edificio che ne era sede e partecipando alla meditazione in un locale posto al piano terreno, avvertii in me una crescente insofferenza per quel luogo e il più totale disinteresse verso un approfondimento ulteriore della conoscenza delle persone che abitavano nell’edificio e dei loro obiettivi. Ero anche infastidito per il comportamento dei miei compagni di corso che sembravano pendere dalle labbra della persona incaricata di fare da cicerone della visita dell’edificio e che avrebbe dovuto illustrare le attività che vi si svolgevano e, ritengo, anche i motivi che avevano indotto quelle persone a staccarsi dal corpo principale della Comunità per proseguire autonomamente nel loro cammino. Mi sembrava di rivivere le sensazioni negative che avevano accompagnato la prima visita della sede principale della Fondazione e la mia ribellione verso l’approccio da visita turistica guidata cui i miei compagni sembravano prestarsi voltentieri, partecipando con entusiasmo e interesse, con il consueto corollario di opportune domande. Ma vi era qualcosa di più in quell’occasione, in quanto, pur non avendo alcun elemento per formulare un simile giudizio, ero giunto alla convinzione che gli abitanti di quell’edificio fossero un branco di opportunisti che sfruttava la notorietà della Fondazione limitrofa per sviluppare un business di nicchia, non molto diverso da quello di chi aveva deciso di aprire un bed and breakfast per sfruttare il richiamo esercitato dalla Comunità. Il senso di fastidio era iniziato di fronte all’obbligo di lasciare le calzature all’ingresso dell’edificio e non, come era comprensibile, soltanto al di fuori delle sale di meditazione, segno inequivocabile del fatto che gli abitanti dell’edificio consideravano e chiedevano ai visitatori di considerare come sacra tutta la superficie del grande palazzo da loro abitato. Appena possibile, uscii all’esterno e iniziai a fumare seduto sui gradini dell’ingresso e, non appena Giovanni si unì a me, iniziai a passeggiare nervosamente con lui per i viali alberati di quell’ampia proprietà.
Come era già avvenuto al Park, il mio giovane amico dovette subire il mio sfogo e, anche in questo caso in analogia con quanto già avvenuto, la sua pazienza e la sua tranquillità mi calmarono. Eravamo a poca distanza dalla porta dell’edificio, quando vedemmo uscire i nostri due focalizzatori che, non sapendo di essere visti da noi, continuarono a parlare fittamente tra di loro, allontanandosi in direzione del College. Decisi allora di mettere Giovanni a parte dei miei dubbi sul fatto che stesse avvenendo qualcosa di grosso alla Fondazione e che questo fosse alla base dello strano comportamento delle nostre due guide e del loro evidente turbamento. Giovanni sembrava non comprendere quello che stavo dicendo e mi resi conto che stavo effettivamente esprimendomi in modo criptico e contorto, per cui gli feci un resoconto piano delle cose che avevo sentito lavorando in cucina, a partire dal documento che avevo letto in merito alla richiesta di adesione alla Comunità da parte di numerosi residenti in qualche modo collegati alla Fondazione.
Come ho avuto modo di sapere meglio più tardi, stavo allora facendo confusione tra cose molto diverse tra di loro, sia temporalmente che logicamente, ma allora mi sentivo immerso in una sorta di situazione prerivoluzionaria della quale ignoravo i contenuti, ma che percepivo con chiarezza, stupendomi del fatto di essere l’unico a rendermene conto.
Quando la nostra conversazione fu interrotta da una signora che mi consegnò la sciarpa di Ethel pregandomi di riconsegnargliela, la esibii trionfante al mio giovane amico, quasi rappresentasse una prova inconfutabile dello stato di agitazione della nostra focalizzatrice e, quindi, una prova certa del processo di disgregazione in atto nella Comunità.
La visita volgeva ormai al termine ed eravamo già avviati sulla strada del ritorno, quando ci accorgemmo dell’assenza di Mia e di Felicia dal gruppo ed io convinsi Giovanni a tornare indietro per cercarle. Dopo averle trovate, ci incamminammo nell’aria gelida della sera verso il College, sventando appena in tempo il tentativo di Mia di guidarci attraverso il bosco. Mentre camminavamo a passo svelto verso la nostra destinazione, mi ritrovai a pensare che negli ultimi due giorni avevo trascorso molto tempo insieme a Mia e che, pur essendo evidentemente affascinato da lei, non era venuta meno la mia convinzione della sua estrema pericolosità e in più mi sentivo al sicuro, in quanto la sua incredibile bellezza la portava al di fuori della mia portata.
A cena avemmo la sorpresa di veder una grande tavola imbandita alla quale presero posto tutti i focalizzatori operanti al College e molti altri che non avevo mai visto e che erano probabilmente non in attività quella settimana.
Mi volsi verso Giovanni, esibendo il mio secondo trofeo, ma il mio vantaggio informativo durò poco, in quanto fu lui ad informarmi, grazie a quanto aveva saputo dalle studentesse residenti, che era iniziata quella mattina una assemblea ad oltranza dei membri della Comunità e che quella cena era stata organizzata per dare modo ai membri impegnati nelle attività formative di essere informati dello sviluppo dei lavori e per poter delegare qualcuno di loro a partecipare alle votazioni finali. Anche noi ospiti finimmo per essere contagiati dal clima di incertezza che ormai veniva avvertito da tutti, ma i nostri focalizzatori vennero ad informarci dello stato delle cose e mi resi conto di aver ingigantito il problema. Fu Frank ad informarci del fatto che era in corso, come spesso accadeva, una ridefinizione degli obiettivi sia interni che esterni della Comunità e che quello cui stavamo assistendo faceva parte di un processo di continuo mutamento iniziato oltre trenta anni prima e di esserne stato lui stesso testimone da quando, anni prima, era entrato a farne parte come membro.
Mi recai allo Smokers’ Bar per riordinare le idee e fui molto contento di incontrare lì la residente italiana e di essere perfettamente in grado di conversare amabilmente con lei che mi invitò a recarmi con lei ed altre persone al pub subito oppure dopo l’appuntamento con Peter per i ritmi ed io le risposi che era più probabile che mi unissi subito a loro, anche per i miei annosi problemi con la danza.
Mancava poco all’orario del pulmino per il Park e io mi aggiravo per l’atrio come in attesa di un’ispirazione sul da farsi, quando incontrai Mia che mi disse che Peter l’aveva pregata di partecipare quella sera per farle una sorta di provino e mi chiese se ero interessato ad andare con lei. Risposi affermativamente, in un modo non molto diverso da quello con cui avevo replicato alla giovane tedesca quando mi aveva invitato a partecipare alla meditazione dinamica e, come quella volta, mi chiesi perché mai avessi acconsentito a fare esattamente il contrario di quello che volevo. Montai sul pulmino come una vittima destinata al sacrificio e fu con lo stesso stato d’animo che scesi dall’automezzo nell’aria rigida del Park, appena mitigata dalla vicinanza del mare, sperando che la difficile situazione esistente in quel momento nella Fondazione, un’indisposizione di Peter o qualche causa di forza maggiore mandassero all’aria la serata.
Quello che più mi deprimeva era che avevo passato almeno un quarto d’ora a cercare un abbigliamento adatto, anche perché i miei jeans erano ridotti in uno stato pietoso dopo l’attività in giardino del mattino, ma purtroppo Giovanni trovò una soluzione prestandomi un paio di jeans che mi andavano alquanto abbondanti.
Non eravamo in ritardo, ma, quando entrammo nella palestra collocata nei sotteranei dell’Auditorium, vi erano già diverse persone, in prevalenza di sesso femminile, impegnate in un’attività di riscaldamento.
Peter accolse calorosamente Mia, mentre degnò me appena di uno sguardo e, quando ebbi modo di vedere la mia compagna di corso in azione, non potei fare a meno di giustificare quella netta disparità di trattamento. Pur non essendo un esperto di danza, né classica né moderna, mi resi conto che alle spalle della completa scioltezza di movimento di Mia vi erano un’innata predisposizione, anni di studio e l’applicazione al movimento delle tecniche yogiche. Il risultato era un completo adattamento a qualsiasi tipo di ritmo e vederla muoversi costituiva un vero e proprio piacere dell’anima. Si era messa in un angolo in fondo alla sala, aveva acceso un grosso cero e sembrava dedicare la sua danza a qualche divinità, forse ad una incontrata di recente nel corso della sua lunga e faticosa peregrinazione in India.
Ero ad un bivio: partecipare a quel susseguirsi di ritmi a me ignoti e che, secondo quanto stava dicendo Peter, ci avrebbero riportati alle radici di ogni ritmo, oppure rimanere spettatore di una performance che prometteva di essere tutt’altro che usuale. Vinsi le mie resistenze e, pur restando volutamente ai margini del gruppo, iniziai a prendere parte al movimento, cercando di trarre frutto dalla breve ma intensa lezione che il nostro focalizzatore ci aveva appena impartito. Per mia fortuna, i primi ritmi erano riconducibili alle danze sacre che avevo bene o male appreso qualche giorno prima e a danze indiane per le quali potevo sfruttare la pratica effettuata nella quinta fase della meditazione dinamica.
Fu proprio durante un ritmo tratto dalle danze sacre che Peter ci chiese di danzare con gli occhi fissi in quelli di un partner che dovevamo scegliere casualmente e dal quale dovevamo essere a nostra volta scelti. Incrociai quasi immediatamente una donna che viveva nella Fondazione che cominciò a muoversi intorno a me, fissando i suoi occhi profondi nei miei, quello sguardo intenso che ormai ben conoscevo, mentre io non ero assolutamente in grado di mantenere i miei occhi nei suoi. Il ritmo subì un’impercettibile variazione e il mio movimento iniziò ad essere più armonioso, quando ci venne chiesto di danzare e incrociare lo sguardo con diversi partner che, come prima, dovevano condividere la nostra scelta.
A parte alcune compagne di corso, che mi sembrarono comunque radicalmente trasformate dall’ultima volta che le avevo viste, non riuscii a reggere lo sguardo di nessuna donna residente e sono certo che il mio turbamento indusse più di una di loro ad un risolino appena nascosto.
Non so quanto tempo sia durato quel vortice di incroci infuocati, interrotti solo ogni tanto dalla rinfrescante visione di una ventenne americana che appariva molto contenta del fatto che io avessi vinto le mie resistenze nei confronti della danza, ma, alla fine di un tempo che a me parve interminabile ma non sgradevole, la musica cambiò radicalmente e la danza divenne strettamente individuale e molto più movimentata.
Il mio sollievo durò poco, perché il crescendo sembrava non avere mai termine e ad un certo punto si trasformò in un ritmo primitivo che venne accolto dai pochi uomini presenti come il segnale di inizio di una sequela di urla tribali che coinvolsero pure alcune delle donne presenti, in particolar modo le residenti. Mi bloccai su me stesso, rendendomi tra l’altro conto che, a causa  del mio abbigliamento totalmente inadatto, grondavo sudore in quantità, ma quello che mi aveva bloccato erano quelle urla selvagge che mi disturbavano, in particolare quando ad emetterle erano esseri di sesso maschile. Mi rifugiai verso la parte della sala dove era la strumentazione e cercai di concentrarmi sul respiro spontaneo per riportare in equilibrio il mio organismo affaticato dallo sforzo e per dare modo al sudore di asciugarsi.
Vidi che non ero il solo a cercare un attimo di requie, anche se avevo il sospetto che pochi condividessero le mie forti perplessità sulla performance precedente di alcuni dei maschi presenti che continuavo a ritenere come l’espressione di primordiali istinti maschili, non riuscendo a dare a quello sfogo la giustificazione di una sana espressione di istinti comunque esistenti e repressi dalla nostra esilissima vernice di civilizzazione.
Il luogo dove mi ero rifugiato era caratterizzato da una temperatura molto più bassa dell’infuocato clima del resto della sala, ma impiegai un tempo che mi parve lunghissimo prima di tornare ad una temperatura corporea accettabile e di poter constatare la scomparsa del sudore che tanto mi aveva infastidito in precedenza. Mi portai allora cautamente verso il centro della sala e vidi che vi era un uomo che restava immobile a poca distanza dal luogo nel quale Mia continuava incessantemente nella sua solitaria ed armoniosa esibizione di danza. La salutai in modo alquanto ostentato e dal suo sguardo grato mi resi conto che non le era sfuggita quella presenza incombente e mi invitò con un gesto a seguirla nei suoi movimenti, cosa che fui in grado di fare solo parzialmente e in modo alquanto goffo, ma vidi con piacere che avevo raggiunto il mio scopo, in quanto l’osservatore aveva spostato la sua attenzione su di un’altra persona.
Mi muovevo con molta più cautela rispetto ai primi ritmi ed ero in grado di gestire meglio lo sforzo, contrastando almeno in parte l’handicap costituito dal mio abbigliamento che, con un eufemismo, avrei potuto definire non del tutto appropriato. Anche i miei movimenti iniziarono gradualmente a divenire più fluidi ed armoniosi e coinvolsi in una mia personale interpretazione del ritmo del momento la ragazza americana tutta acqua e sapone cui avevo prestato così scarsa attenzione nei giorni precedenti e fui molto gratificato scorgendo uno sguardo di approvazione scoccatomi a distanza da Mia. Le mie resistenze nei confronti della danza sembravano essere scomparse, non mi illudevo sulla qualità e l’armonia dei movimenti che dovevano ancora apparire goffi ad un osservatore esterno, ma in quel momento non me ne importava nulla.
Il ritmo cambiò nuovamente e mi accorsi di non essere assolutamente in grado di seguirlo, affrettandomi a tornare nel rifugio che avevo scoperto prima e lì, appoggiato ad una sbarra di quelle usate dai ballerini, osservai con attenzione il modo in cui gli altri interpretavano quel ritmo per me così ostico. Fu allora che scorsi a poca distanza Fiona, una ragazza residente che mi aveva colpito molto quando avevo lavorato con lei il giorno prima in cucina e che mi aveva dedicato uno sguardo indimenticabile quando ci eravamo incontrati durante il primo ritmo, ballare con un ragazzo a me sconosciuto una danza che ebbe su di me un effetto a dir poco sconvolgente. Erano allacciati in un ballo lento che era una realistica rappresentazione di tutti i preliminari di un atto di amore e nei loro movimenti era possibile scorgere un misto di tenerezza e violenza che lasciava l’osservatore letteralmente senza fiato. Non mi era possibile staccare gli occhi da quella scena e non ero nemmeno sfiorato dal pensiero di risultare per loro quello che quell’uomo in fondo alla sala era stato per me e per Mia, convinto come ero che le due persone allacciate stessero mostrando a tutti noi che eravamo presenti una rappresentazione di un modo di intendere l’amore del quale erano orgogliose. Forse quello che stavano rappresentando era solo un gioco, ma era oltremodo arduo distinguere la finzione dalla realtà, anche se sapevo che di reale in quel momento vi era il mio profondo turbamento e la mia sofferenza per non trovarmi tra le braccia di Fiona al posto di quello sconosciuto.
Fui quasi lieto quando il ritmo cambiò bruscamente di nuovo e ci fu richiesto di entrare in uno stato di assoluta immobilità, assumendo la posizione più comoda per il rilassamento che, volendo, poteva anche essere effettuato stando sdraiati su coperte che Peter stava nel frattempo distribuendo.
La seconda nota stonata, dopo le urla primordiali che avevo udito in precedenza, fu rappresentata da un’esecuzione dell’OM, effettuata al termine della lunga fase di rilassamento, che per me che avevo praticato il Mantra Yoga per tre anni con una discepola di Mere fu un autentico supplizio. Al termine di quella poco felice esecuzione, formammo il cerchio e, dopo una brevissima meditazione, ci accomiatammo da Peter e, rivestitici in fretta e furia ci precipitammo verso la sala comune, tentando di poter prendere un caffè prima della partenza del pulmino che ci avrebbe riportato al College.
La nostra fretta era determinata dal fatto che ignoravamo l’orario della partenza e fummo lieti, una volta raggiunto l’edificio principale della Comunità, quando apprendemmo che avevamo un certo margine di tempo e che, quindi, potevamo rifocillarci in pace.
Non so quale fosse lo stato dei miei compagni, ma io avvertivo un ottimo livello energetico ed ero anche di ottimo umore, il che mi permise di ridere e scherzare con il gruppetto di persone in attesa della partenza. Mentre eravamo nel pulmino che ci riportava alla nostra residenza temporanea, notai che Mia appariva alquanto triste e, cercando di usare un certo tatto, le chiesi se c’era qualcosa che la disturbava, ma, invece di rispondermi, si chiuse ancora di più in sé. Fu solo all’arrivo che mi accorsi che sul pulmino c’era anche Fiona, ma non il giovane con il quale aveva ballato e, quando la vidi poco dopo baciare un uomo che la stava aspettando, capii che la sua performance era effettivamente fine a se stessa.
Per quel giorno ne avevo abbastanza di emozioni e salii rapidamente in camera dove, come al solito, non c’era ancora nessuno. Mi spogliai rapidamente e, dopo aver letto qualche pagina del libro di Giovanni, spensi la luce e mi addormentai.

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