“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 21 June 2015 00:00

Mio amato carceriere (III capitolo)

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GIOCO COME LAVORO E LAVORO COME GIOCO

 

Non resistere e scoprirai come è dolce seguire il corso delle cose.
Non contrastare il desiderio, ma osservalo quando sorge.
Non perderlo di vista quando cresce impetuosamente.
Sii presente quando infine raggiunge il culmine,
Cercando di scoprire dove va quando scompare.
                       (III messaggio)

Anche il mattino successivo la mia sveglia interna funzionò perfettamente e, in punta di piedi, sgattaiolai dalla stanza, tentando di non disturbare il sonno profondo dei miei tre compagni. Ero indeciso sulla meditazione dinamica, che forse aveva avuto una parte nelle mie reazioni del giorno precedente, ma decisi che era il caso di fare un’altra prova e mi avviai, dopo la razione mattutina di nicotina, verso la dependance.

Scoprii subito di non essere più il solo allievo della giovane tedesca. Quel mattino si presentarono infatti due donne che ero sicuro di non aver visto prima nell’edificio e come me sprovviste della benda. La loro presenza e la possibilità che avevano di vedere mi influenzarono non poco nell’ultima fase della meditazione, quella che il giorno precedente avevo vissuto meglio. Anche se rivissi solo in parte l’estasi della danza, riuscii a partecipare con più attenzione e minori difficoltà alle fasi iniziali che avevo trovato così ostiche il giorno precedente e il risultato fu meno squilibrato della prima volta. C’era, tuttavia, qualcosa in quella tecnica che continuava a disturbarmi e, mentre mi apprestavo a lasciare la sala, decisi che con ogni probabilità non mi sarei presentato all’appuntamento nei giorni successivi, anche perché temevo di interferire involontariamente con i processi interni indotti dalle tecniche utilizzate nel corso che stavo frequentando.
Continuavo ad avere la sensazione di essere perennemente in ritardo, ma riuscii a lavarmi, a fare quasi tranquillamente colazione e ad essere in anticipo di qualche minuto rispetto all’orario di partenza del pulmino diretto alla Fondazione.
Mentre fumavo in attesa della partenza, osservavo la mia temporanea situazione di pendolare tra un centro dove si aiutavano le persone a muovere i primi passi nella ricerca interiore e un luogo dove, almeno per quanto ne sapevo, vita e ricerca interiore praticamente coincidevano.
Io e i miei compagni di corso costituivamo largamente la maggioranza delle persone presenti nel pulmino. Notai subito che, a differenza di quanto era avvenuto durante la gita al Park del giorno precedente, fummo molto silenziosi durante il breve tragitto, limitandoci sostanzialmente a guardare fuori dai finestrini. Quando giungemmo al Park, scoprii che il nostro pulmino sarebbe ripartito immediatamente, prendendo a bordo i figli dei membri della Comunità diretti a scuola. Si trattava di un folto gruppetto di bambini e ragazzi dall’aria molto serena e notai che aspettavano senza alcuna impazienza. Mi accodai agli altri anche se ignoravo del tutto la nostra destinazione e, dopo un brevissimo tragitto, giungemmo al Santuario principale della Fondazione che, a differenza di quello del College, costituiva un edificio separato, seppure non di grandi dimensioni.
Si entrava nel Santuario attraverso uno spogliatoio non diverso da quelli che si trovano nelle palestre scolastiche. Al di là della porta si accedeva ad una sala circolare, di dimensioni maggiori ma in tutto identica a quella del College.
Una tranquilla signora dai capelli bianchi era già seduta su una sedia del cerchio più ampio a pochi posti dall’ingresso e, pur non conoscendola, ebbi subito il sospetto che potesse trattarsi dell’unica fondatrice ancora presente nella Comunità.
Partecipando con gli altri alla preparazione della meditazione, non potei fare a meno di pensare al modo in cui iniziano le giornate lavorative nel mondo esterno, in particolare nella giornata che inizia la settimana. La sveglia che in genere coglie le persone ancora addormentate, la corsa affannosa verso il bagno, il vestirsi frettoloso, al massimo una tazza di caffè ustionante e poi via per andare in ufficio, a scuola o in fabbrica. Ricordavo quello che aveva detto quell’anziana signora seduta in quel momento a poche sedie da me, in una conferenza tenuta anni prima nella mia città e di cui avevo ascoltato la registrazione prima di partire. La cassetta mi era stata donata da un’amica con cui avevo condiviso l’esperienza gnostica in Svizzera e che mi aveva spinto a partecipare agli intensivi di Kundalini Yoga e Tantra bianco in cui avevo incontrato Yogi Bajan otto anni dopo la mia fuga precipitosa dal campo di Loche.
Spesso, ricordava la fondatrice della Comunità, le veniva detto dai suoi interlocutori che non riuscivano a trovare il tempo da dedicare alla meditazione e ricordava che il suo suggerimento, in questi casi, era quello di cominciare con il mettere la sveglia cinque minuti prima del solito orario, per dedicare quel breve tempo all’ascolto interiore e per iniziare in modo più consapevole la giornata.
Certo, trovandomi in un luogo dove i membri della Comunità dedicavano al lavoro su se stessi quasi tutto il loro tempo e pensando al lungo periodo in cui la fondatrice aveva dormito solo due ore per notte per dedicare più tempo all’ascolto, quei cinque minuti potevano sembrare nulla, ma credo che la potenza di quel grimaldello così candidamente suggerito poteva rivelarsi dirompente e portare col tempo a sviluppi meravigliosi.
Ero troppo preso dai miei pensieri e dall’eccitazione di partecipare ad un inizio settimana così particolare per riuscire ad entrare in uno stato meditativo. Fui perciò stupito di avvertire, dopo il suono finale, delle sensazioni estremamente piacevoli e il rafforzamento della visione positiva.
Ripercorsi la breve strada che conduce all’edificio comune, colpito dalle piccole casette di legno che ospitavano gli uffici della Fondazione e non potei fare a meno di pensare che sembravano tratte dalle illustrazioni di un libro di favole.
Entrai nella grande cucina sul filo dell’orario previsto per l’inizio del lavoro. Ero riuscito a malapena a fumare una sigaretta e continuavo ad essere convinto di essere impegnato in una continua corsa contro il tempo. Non dovetti aspettare le presentazioni per individuare i membri della Comunità tra le persone presenti. Così come fui in grado di cogliere le differenze esistenti tra me e la mia compagna di corso e le persone che, pur non essendo membri, avevano un legame più stretto con la Fondazione.
Come le casette degli uffici, anche le due donne che avrebbero guidato quella mattina la nostra attività sembravano tratte dalle tavole che illustrano le favole. Pur diverse nel loro aspetto e nella loro nazionalità, erano unite dall’avere lo stesso nome, sebbene nella versione francese e tedesca dello stesso, e quello sguardo al quale cominciavo ormai ad abituarmi. Rimasi colpito dalla netta gerarchia esistente. La donna tedesca era responsabile dell’intera preparazione del pranzo e, in primis, della realizzazione della zuppa, mentre la donna francese era responsabile delle provviste e della preparazione dei piatti freddi. Mi sarei reso conto in breve tempo della profonda differenza esistente tra la gerarchia cui ero abituato nella realtà ordinaria e quella imperante in quel luogo. Nella Comunità, infatti, la gerarchia era basata sul diverso grado di consapevolezza e implicava quasi sempre maggiore e non minore lavoro.
Non è facile descrivere l’impressione che mi fece quello strano luogo quando vi entrai per la prima volta, non contando il fugace sguardo che gli avevo rivolto il giorno prima. Pur essendo presenti molti strumenti moderni, la preparazione dei pasti avveniva su base strettamente manuale e tutto l’insieme non dava l’idea di un insieme di apparecchiature e di elettrodomestici, ma ricordava più un organismo vivente.
Oltre me, era presente nel gruppo solo un’altra persona di sesso maschile. Un gigantesco coreografo tedesco dall’apparente età di cinquant’anni e che sembrava muoversi completamente a suo agio in quell’attività.
Il mio primo impatto con le focalizzatrici non fu affatto facile. Mi sentivo impacciato e lento, incontravo difficoltà nel tradurre le loro istruzioni e aspettavo indicazioni al termine dello svolgimento di ogni compito. Il coffee break giunse, quindi, come una liberazione. Tuttavia, mentre stavo fumando una sigaretta seduto su di una panchina, capii che non riuscivo ad entrare appieno nell’attività anche perché mi stavo sintonizzando sul ritmo e sull’approccio delle persone del gruppo che stavano resistendo a quell’attività e che non sembravano desiderare di essere lì quel giorno.
Al mio rientro, ripresi dunque il lavoro dimenticando la presenza delle altre persone e immergendomi completamente nella mansione che svolgevo in quel momento. Finito un compito, cercavo immediatamente di fare qualcos’altro.
Avevo ormai terminato tutte le operazioni di preparazione che mi erano state richieste, quando, ad un certo punto, mi resi conto che si stava creando un ingolfamento nel lavaggio delle innumerevoli cose utilizzate nella preparazione di un pasto per oltre cento persone e, senza che nessuno me lo chiedesse, iniziai a lavare quella montagna di contenitori e di utensili. Entrai talmente in quell’attività che ricordo a malapena di aver risposto negativamente all’invito ad andare alla meditazione di mezzogiorno, ma ricordo perfettamente di aver pensato che in quel momento era quella la mia meditazione. Non c’era più distanza tra me e l’attività che stavo svolgendo: ero il lavare i piatti, non più colui che lava i piatti e provavo una sensazione di felicità difficile da descrivere. Lavavo i contenitori, li asciugavo, li riponevo nei posti giusti e, più procedevo in quell’attività, più le altre persone cominciavano a partecipare alle diverse fasi successive a quella del lavaggio. Il ritmo divenne quasi musicale ed io avevo perso quasi del tutto la nozione del tempo. Ricordo solo che ad un certo punto il gigante tedesco mi strappò gentilmente ma decisamente dalla mia occupazione e  fu allora che vidi il sorriso di complicità che le due focalizzatrici si stavano scambiando, quasi si fossero rese conto di quello che era nel frattempo avvenuto dentro di me. Ne ebbi conferma al momento dell’attunement finale, quando la focalizzatrice tedesca mi porse un fiore con estrema gratitudine e questo suo gesto produsse in me una tale esaltazione che per un po’ mi passò l’appetito.
Raggiunsi alcune persone del mio corso ad un tavolo e mangiai svogliatamente le cose che avevo contribuito a preparare. Memore di quello che era avvenuto il giorno precedente, mi forzai e cercai di fare un pasto completo, anche se mi sembrava di avere energia sufficiente per qualche giorno.
Seduto nel pulmino che ci riportava al College, non potei fare a meno di pensare a quanto erano diversi i ritorni dal lavoro nella mia realtà ordinaria, la netta perdita di energia rispetto a quella posseduta al mattino e, spesso, la sensazione di aver commesso qualche passo falso o il primo tentativo di lenire le ferite di fronte a qualche attacco subìto. Non dovevo essere il solo ad avere notato quel contrasto. Vedevo sui volti dei miei compagni di corso maggiore serenità e un senso di soddisfazione assente nel viaggio in senso inverso compiuto solo poche ore prima. Anche se avevamo svolto attività diverse, dalla cucina al giardinaggio, sembravamo in qualche modo consapevoli di essere stati coinvolti in qualcosa che andava al di là della specifica attività che avevamo scelto.
Le due donne che si erano dedicate alla preparazione della sala dove si erano svolti il coffee break e il pranzo sembravano le uniche meno coinvolte da quel nuovo clima.
Non potevo fare a meno di pensare a quanto tempo avevo perso continuando a fare  confronti tra le diverse attività che avevo svolto negli anni precedenti. Quanto avevo sofferto per non essere stato in grado di scegliere tra la condizione di insegnante, quella di giornalista, quella di economista o di scrittore, tutte attività nelle quali ero stato impegnato per un certo tempo. Forse non era vero del tutto, ma avevo la sensazione che nella Comunità non vi fossero lavori più importanti degli altri, ma che ognuno vivesse il lavoro che svolgeva temporaneamente come se fosse l’attività più importante del mondo. Una sorta di continuo banco di prova della propria capacità di diventare il lavoro che si era chiamati a svolgere.
Ero altrettanto sicuro che non si trattava di una prova da superare una volta per tutte, ma che la sfida – seppure a livelli diversi – si presentasse ogni giorno e che l’uccisione del drago non avvenisse una volta per sempre.
Avevo vissuto ore intense  e felici al Park ma fui molto contento di rivedere dopo l’ultima curva l’edificio del College e incontrai con piacere l’altra metà del gruppo, sedendo tranquillamente all’aperto con Giovanni a fumare una sigaretta e chiacchierando del più e del meno in italiano.
Avevamo meno di un’ora di pausa prima dell’incontro con i nostri due focalizzatori che non vedevamo dalla sera precedente e scherzammo un po’ sul fatto che nel nostro primo giorno di lavoro era prevista un’attività denominata “giochi”.
All’ora prevista ci ritrovammo tutti nella Ballroom e Frank e Ethel ci presentarono Nils e Michelle, rispettivamente originari della Danimarca e del Belgio, spiegandoci che li avrebbero aiutati a guidare quell’attività.
All’inizio si trattò di giochi di squadra che rafforzarono l’intesa nei piccoli gruppi che venivano formandosi e nei quali si crearono dinamiche che mi erano sconosciute. Al secondo di questi giochi eravamo completamente scatenati, tesi a fare di tutto per assicurare la vittoria alla squadra alla quale eravamo stati casualmente aggregati e del tutto dimentichi del fatto che non vi era nulla in palio.
Dall’attività di gruppo si passò poi ad un gioco di coppia apparentemente innocente. A turno, una persona era l’automobile e doveva procedere ad occhi chiusi sotto la guida del compagno, incrociando altre coppie che si muovevano a velocità altissima. La comunicazione tra autista e vettura poteva avvenire soltanto esercitando una lieve pressione sulle spalle di colui che impersonava la vettura per indicargli la direzione, la velocità e quando vi era la necessità di fermarsi. Ero in coppia con Giovanni e mi resi conto che era rimasto molto colpito quando era toccato a lui svolgere il ruolo della vettura cieca. Io riuscii a mantenermi più calmo, anche perché quel ruolo mi toccò soltanto in seconda battuta e non avevo resistenze particolari ad essere guidato da un’altra persona.
Il secondo gioco in coppia consisteva nel trasmettere con lo sguardo sentimenti d’amore e a me toccò farlo con una donna più grande di me, proprio la neozelandese nei confronti della quale avevo nutrito nei giorni precedenti un senso di soggezione. Credo di essere stato quasi del tutto bloccato quando ho dovuto guidare io il gioco, mentre fu difficile distinguere il gioco dalla realtà quando a guidare è stata lei. Non riuscivo assolutamente a sostenere il suo sguardo, che sembrava passarmi da parte a parte e venni travolto da forti emozioni quando il gioco divenne più tattile.
Infine, quel gioco ebbe termine e, sulla più suggestiva delle musiche che avevamo ascoltato il giorno precedente durante le danze sacre, si formò un serpente che poi si fermò di colpo e ognuno dovette massaggiare le spalle della persona che lo precedeva. Fui massaggiato dalla stessa donna che mi aveva turbato nel gioco precedente, il che contribuì ad aumentare la mia confusione. Poi dovemmo girarci e toccò a me massaggiare una giovane americana, ma lo feci in modo più casto. Con movimenti del serpente che non riesco a ricordare, ci ritrovammo ognuno di fronte ad un’altra persona e fummo invitati a non cercare di vedere di chi si trattasse. Al tocco delle mani, fui convinto di avere di fronte Mia, in quanto ritenevo che nessun altro componente del gruppo poteva avere dita così lunghe e sottili. I comandi ci indicavano come creare il contatto tattile con l’altra persona e chi dei due doveva tentare di trasmettere al partner sensazioni o emozioni. All’inizio dovevo essere ricettivo dei sentimenti di paura della donna che avevo di fronte, per poi trasmetterle tenerezza che speravo le giungesse chiara come lo era stato il segnale che avevo percepito in precedenza da lei.
Vi furono poi altri scambi, ma, alla fine, toccò a me inviare un sentimento di amore che, pur riguardando la persona sconosciuta che avevo di fronte, non doveva avere limiti definiti e lo feci con tale intensità da esserne travolto io stesso. Quando ci fu consentito di aprire gli occhi, mi accorsi di avere di fronte una giovanissima australiana con la quale non avevo avuto alcuna forma di contatto nei giorni precedenti. Mi stava guardando con occhi umidi e mi comunicò di aver ricevuto un’ondata fortissima di amore che l’aveva profondamente commossa, mentre io le confermai con sincera commozione di aver percepito a mia volta distintamente la paura e le altre sensazioni che mi aveva comunicato. Ci scambiammo un abbraccio di reciproca gratitudine e poi, pur sentendomi molto ridicolo, non potei fare a meno di metterla a parte sinceramente dello scambio di persona in cui ero incorso all’inizio del gioco, quando ero del tutto convinto di aver individuato in Mia la persona che avevo di fronte, ma lei non parve esserne in alcun modo seccata. Mi resi conto di essere altrettanto indifferente all’identità precisa dell’altra persona di quanto lo si era dimostrata quella giovane ragazza, preso come ero dall’esperienza appena fatta, un’esperienza che mi aveva dimostrato che è possibile comunicare non verbalmente e che questo può avvenire a livelli difficilmente raggiungibili mediante le parole.
Qualcosa del genere mi era già accaduta in passato, in particolare nei rapporti con persone dell’altro sesso. A volte ero stato consapevole di trasmettere anche non verbalmente sentimenti che riuscivano a raggiungere l’altra persona. La differenza tra le due esperienze consisteva nel fatto che allora non ero assolutamente in grado di gestire la cosa, condizionato come ero dal desiderio sottostante che spesso mi faceva prendere lucciole per lanterne. A volte, poi, subivo reazioni negative di ritorno da parte della persona coinvolta, quando questa, non più vicina alla fonte del suo turbamento, riteneva di essere stata in qualche modo manipolata mediante un mio intervento consapevole. Subii per questo la rottura di più di un’amicizia.
L’esperienza successiva fu di ben altro segno. Ero di nuovo in coppia con un’australiana, ma questa volta si trattava di una persona molto più grande di me e con la quale, nei giorni precedenti, non ero riuscito ad instaurare alcun tipo di rapporto, pur avendo avuto modo di parlarle due volte. Le nostre guide ci spiegarono che, a turno, uno di noi doveva interpretare il ruolo di una persona appena defunta, mentre l’altro doveva compiere una serie di azioni che si sarebbero concluse con un lungo abbraccio con cui il sopravvissuto avrebbe salutato la persona amata. La mia partner doveva aver realmente vissuto quell’esperienza e fu molto brava sia nell’esecuzione dei gesti che nella partecipazione emotiva, mentre io rivissi, quando fu il mio turno, la mia totale incapacità a provare o partecipare al dolore, ancor più di fronte alla morte. Fui estremamente meccanico nei gesti, in alcune fasi al limite della brutalità e mi sentivo profondamente in colpa per questo. Mentre tenevo abbastanza freddamente il mio “cadavere” tra le braccia, vidi altre persone riuscire ad esprimere una pietà che veniva dal profondo della loro anima. Ero di fronte ad un grosso problema sorto nella mia infanzia. Avevo, infatti, dovuto erigere una spessa muraglia tra me e il dolore. Ricordo perfettamente che da bambino ero caratterizzato da una sensibilità talmente esasperata da non riuscire neppure a vedere un film senza provare in maniera autentica il finto dolore del protagonista. Per continuare a vivere, fui quindi costretto a considerare la sofferenza, la malattia e il dolore come qualcosa di irreale, impedendo così a questi avvenimenti un accesso diretto al mio cuore e riuscendo così ad essere quasi autenticamente indifferente di fronte ad eventi anche gravi.
Questo meccanismo aveva bene o male funzionato sino a quel momento, ma il prezzo pagato per questa rimozione era stato altissimo e, vedendo l’espressione intensa e dolcissima di Ethel col suo “defunto” tra le braccia, ero in grado di capire quanta parte della mia vita era andata sprecata, quale il costo delle tante dighe erette e il perché di tante mie difficoltà.
Non sapevo quanto tempo era trascorso dall’inizio dei giochi, ma sentivo un progressivo aprirsi di vie di percezione mai sperimentate in precedenza. Vedevo le altre persone del gruppo e le nostre guide, ma avevo difficoltà a far coincidere il loro aspetto con quello cui mi ero abituato in quei tre giorni. Ero assorto in questi pensieri quando si levò una musica meravigliosa e una delle nostre guide iniziò a raccontare una storia di stelle che viaggiavano tutte verso la stessa destinazione e ci invitò a muoverci ruotando su noi stessi ad occhi preferibilmente chiusi, per poi iniziare a spostarci, sempre ruotando, nella grande sala.
Quello che mi era accaduto nella quinta fase della meditazione dinamica si ripeté amplificato innumerevoli volte. Giravo vorticosamente, riuscendo quasi miracolosamente ad evitare gli altri corpi ruotanti contemporaneamente a me nella sala.
Già in precedenza avevo dovuto compiere uno sforzo per distinguere nitidamente le altre persone, ma a quel punto la cosa era diventata realmente impossibile e in quel momento non me ne importava nulla. Mentre giravo su me stesso, vedevo crescere una grande luce ed era il risultato delle tante stelle che stavano girando insieme a me. Non vedevo più uomini o donne ma fonti più o meno forti di luce e una parte di me tendeva a fondersi con le omologhe parti di tutti i partecipanti. Non so quanto durò quell’esperienza o chi fu a decretarne la fine. So solo che non ebbi il tempo di riprendermi da quell’escalation di emozioni che già abbracciavo grato persone e venivo abbracciato con forza da altre. Il sentimento più forte che avvertivo era un’autentica commozione e credo di averne scorto traccia su numerosi altri volti dei miei compagni. Non avevo alcuna voglia di lasciare la sala e vedevo che anche molte altre persone del gruppo tendevano a non allontanarsi, cercando forse, o almeno questo accadeva a me, di trattenere più a lungo all’interno di noi stessi qualcosa di quell’esperienza così forte appena vissuta.
Forse fu per effetto della suggestione del momento, ma ebbi la sensazione che anche le nostre quattro guide si fossero meravigliate dei risultati prodotti sul nostro gruppo da tecniche che pure dovevano aver maneggiato numerose volte. Quando mi fui infine ripreso, mi rifugiai nello Smokers’ Bar con Giovanni e lì conobbi un’italiana sua omonima che era impegnata in un corso annuale ed aspirava a diventare in futuro un membro della Comunità. Era simpatica ed estroversa, evidentemente interessata al mio giovane compagno di corso, ma abbastanza gentile da chiacchierare amabilmente anche con me, d’altra parte, la felicità per l’esperienza appena vissuta mi impedì di sentirmi escluso da quelle dinamiche elementari così comuni tra i giovani e mi augurai sinceramente che tra loro potesse accadere qualcosa.
L’incontro serale del gruppo fu rapido, perché la giovane belga che aveva aiutato i nostri focalizzatori nel pomeriggio doveva tenere una conferenza sulla sua lunga esperienza nella Fondazione. Avrei incontrato molte altre volte Michelle in quelle due settimane, ma sin dal primo incontro la trovai una persona molto rilassante ed ero sicuro che, sotto il suo aspetto pacioso, si nascondesse un grosso bagaglio di esperienze, impressione che fu confermata quando raccontò di essere giunta a Findhorn quando erano ancora presenti i tre fondatori ed era la memoria vivente di una fase difficilissima della Comunità, iniziata con la trasformazione del rapporto tra i fondatori e il gruppo crescente di persone che manifestava un bisogno di autonomia per realizzare in proprio quello che era accaduto ai tre precursori. Ci ricordò il momento nel quale venne comunicata la brusca interruzione dei messaggi rivolti alla Comunità da parte della voce interiore della fondatrice e lo sgomento collettivo che ne era seguito, alla luce dell’utilità che gli stessi avevano avuto nello sviluppo di quell’organismo collettivo, ma compensato dalla permanenza della stessa fondatrice e dal suo impegno personale nelle attività che venivano svolte. Vi era stato poi il traumatico abbandono del fondatore carismatico che aveva deciso di proseguire la sua ricerca al di là dell’oceano e poi la successiva morte e Michelle cercò di spiegarci quanto importante era stata per la Comunità la sua presenza e la sua grande vitalità. L’ultimo distacco in ordine di tempo era stato quello della terza fondatrice che era tornata nella sua patria, continuando ad occuparsi della crescita spirituale universale, ma che continua a mantenere stretti contatti con la Comunità, tornando anche di tanto in tanto per lavorare con i residenti.
Non vi era tuttavia tristezza nelle sue parole. Sembrava di sentire il racconto dell’evoluzione di una famiglia nella quale i figli, pur attaccatissimi ai genitori, sentono ad un certo punto il bisogno di staccarsi da loro, vedendo in questo l’unico mezzo per garantirsi un’evoluzione autonoma e una fase indispensabile per poter essere in futuro in grado di trasmettere qualcosa ai propri figli. La fase attuale della Comunità, ci disse ancora Michelle, vedeva un fiorire di esperienze spirituali diverse che confermavano l’approccio iniziale dei fondatori, ben consapevoli del fatto che, al di là della tradizione a cui ognuno deve essere libero di rifarsi, quello che conta è che la tensione di tutti sia indirizzata nel tendere verso una reale trasformazione interiore. Lei stessa, ad esempio, aveva importato personalmente dall’India una forma di meditazione che si rifaceva alla tradizione del Raja Yoga nel relativamente recente approccio denominato Saj Marg, meditazione attualmente praticata dalla maggioranza dei membri della Comunità.
Se i primi due giorni erano stati molto intensi, il terzo lo era stato ancor di più e non esagero dicendo che mi era sembrato pari ad almeno una settimana. Dopo la riunione, rimasi nello Smokers’ Bar solo il tempo di fumare una sigaretta, senza scambiare nemmeno quattro chiacchiere con le persone presenti e, come era già accaduto nelle due sere precedenti, fui il primo a salire in camera, dove quasi non feci in tempo a spegnere la luce che già cadevo addormentato.

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