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Sunday, 31 May 2015 00:00

RACCONTI SONORI – Aspettando Carmen

Written by 

Aldo Bassi Quartet, "Nove rose"

 

La moto rombava nella notte. Il nastro scuro della strada, lungo i suoi dolci saliscendi, era squarciato dalle sciabolate di luce del suo faro, che rendevano visibile l’umido lattiginoso dell’estiva salsedine marina.
“Mi accompagni?”
Era stato il semplice invito di Aldo. Poi come a rendere più appetibile la richiesta di condivisione del viaggio “... andiamo a conoscere Carmen, una mia amica...”, “una spagnola?” chiosai. “No no è romana...” e a seguire uno sguardo con quel suo tipico allargamento di palpebre accompagnato da un movimento assertivo della testa come a dire “verace e…”, tosta, pensai.

Le parole di Aldo avevano ottenuto l’effetto voluto...  ero già intrigato dal nome e da tutto il resto ancora sconosciuto.
Viaggiammo quieti sull’Aurelia riscaldati dal calore dell'Honda, nella monotonia rumorosa del suo motore che, nelle variazioni di tonalità, interpretava per noi il paesaggio silenzioso circostante, fugacemente intravisto nel buio della sera. Dopo qualche decina di chilometri ci inerpicammo sopra uno svincolo: direzione il mare.
Costeggiammo assembramenti di case e stabilimenti tutti uguali, poi spazi sempre più vasti fino ad una costruzione bassa sul limitare della spiaggia. Ci fermammo ad una decina di metri. Smontammo.
“Aspettami qui. Lavora come inserviente in questa che è una colonia estiva... cerchiamo di non dargli rogne che già ne ha avute in passato”.
Aldo come sempre giocava a fare il misterioso. Si avvicinò al retro della costruzione, verso quello che sembrava l’ingresso posteriore delle cucine. Poco dopo una figurina bianca ne uscì. Era vestita con un grembiule chiaro sopra una tuta bianca di jeans, quelle con la pettorina che andavano di moda allora. Esile ed armoniosa nella figura.
Mi vennero incontro, Un caschetto di capelli castani tenuti a coda di cavallo ed un bel viso regolare con degli occhi sottili tagliati a mandorla che rivestivano uno sguardo profondo, lontano, di quelli che passano oltre senza cagarti. Ma non arrogante. Stanco. Triste. Come di chi ne ha già viste troppe, nonostante la sua giovane indefinibile età.
Un breve saluto e mentre parlava con lui osservavo il suo viso, quegli occhi così segnati dalla stanchezza e da un cenno di occhiaie, quel suo modo di sorridere, stirando la bocca e le labbra in alto e verso gli angoli così da mostrare una dentatura bianca e perfetta. E quando ogni tanto fugacemente incontrava gli occhi dell’amico del suo amico, il suo sguardo era dritto.
Impiegai un nanosecondo ad infatuarmi di lei.
Parlavi di persone e fatti che non conoscevo ma di cui, la mia esclusione da loro, era già un sottile dispiacere. Con ingenuo candore raccontasti ad Aldo che ti eri iscritta ad una scuola di musica ed avevi iniziato a studiare il sax. Eri felice di ciò e non lo nascondevi e ci contagiasti.
Ci lasciammo in maniera anonima. Con poche parole mie e sue. Indifferente a me.
Tornammo in città.
Volevo rivederla.
Fu solo così che iniziò la mia estate del 1980. Non ricordo come riuscii a rivederla, non ricordo neanche se avevo il suo numero di casa, fondamentale in era pre-cellulare, e se sì, se l’avessi avuto da Aldo. Forse fu lei stessa a darmelo in uno di quei primi incontri fintamente fortuiti. Fu così che iniziò la mia estate. Alla rincorsa di una “lei” che colmasse il buco di un'anima che  scivolava, giorno dopo giorno, lungo un piano inclinato, come una bottiglia, un vuoto a perdere sulla strada. Una estate pazza fatta di rincorse, di appuntamenti mancati, di giri estenuanti nei gironi di una Trastevere che formicolava di una umanità dolente e marginale. Lei, la mia Virgilio, mi conduceva, mi trascinava, nei suoi giri di ricerca, io l’accompagnavo con lo spirito del corvo di “Uccellacci ed uccellini”. Io, con il mio passato che rimuovevo per evitare di farci i conti, ero la teoria. Lei la pratica.
Conosceva la lingua della strada e le sue insidie, che venivano scoraggiate dalla sua bellezza che, in apparente contraddizione, la difendeva bene. In continuazione, negli spiazzi antistanti i baretti del quartiere, intorno alla chiesa e alla fontana di S. Maria, gente che la riconosceva e la salutava. Sembrava rispettata perché erano istintivamente sue le regole di farsi concava o convessa secondo interlocutore o necessità. Forse la incuriosivo. Probabilmente mi considerava buffo e inadeguato al suo mondo, ma gli faceva piacere la mia compagnia, perlomeno nei suoi giri obbligatori.
Una volta inavvertitamente calcai la mano sulla schiavitù di una vita vissuta così, ma sapevo troppo poco di lei perché mi permettesse lo scivolone e fece il suo sguardo duro: quando lo faceva era perché voleva far male, ma in realtà era ancora più bella. Con la sua faccia cattiva mi disse “... ma che cosa ti credi?”. Mi gettò sul viso con violenza che questa non era la sua vita e non lo sarebbe mai stata. Che lei avrebbe saputo gestire tranquillamente il tutto. Erano le cose che si sentivano sempre dire, tanto da essere diventate un tormentone tragicomico tra amici, con cui si esorcizzava la violenza verso se stessi di quegli anni. Non credetti molto alle sue parole, ma era la verità come avrei scoperto molto, molto dopo. Mi piaceva e mi intrigava il suo saper rimanere femmina in una vita coniugata al maschile. Ma desideravo viverla fuori da questi giri diurni e notturni e le proposi una vacanza insieme, dai nostri amici comuni che avevano un casale nelle Marche. Mi disse sì. Ma era un sì provvisorio alle contingenze della giornata, una promessa da marinaio e non si avverò mai.
A volte avevo la sensazione che le mie parole scivolassero su di lei come la pioggia marzolina sul vetro di una finestra dopo le pulizie primaverili. Altre mi limitavo a respirarla mentre la osservavo consumare qualcosa in un bar o all’interno del “selarum”, il giardino musicale trasteverino. Ci fiutavamo a vicenda. Lei quasi per capire quanto si potesse fidare di me, a volte con sguardo quasi schifato sulle mie goffaggini nel campo in cui lei invece era professionista. Io completamente assorbito dalle vertigini nell’affaccio su un mondo reale e crudele, conosciuto solo a parole.
L’estate stava finendo. Cercai di convincerla a partire con me. E mi trovai ad un appuntamento con lei a mezzogiorno davanti al cinema  Reale. Sapevo che quello sarebbe stato in un modo o nell’altro l’ultimo appuntamento lì.
T’aspettavo...
... Fu allora che qualcosa nel cielo mi fece tirare su il naso: appesa ad un enorme ombrello di seta chiara planavi lentamente. Le auto si fermarono a guardarti. Il semaforo divenne azzurro dallo stupore e un rispettoso silenzio ti avvolse. Con eleganza e semplicità atterrasti. Con un gesto misto di abitudine e di insofferenza raccogliesti gli sbuffi di seta intorno. Ti sorrisi mentre con la tua tuta bianca mi venivi incontro…
Ti offrii metà del mio bastoncino di liquirizia. Tu rifiutasti, con gli occhi fissi sui miei “è amara per me”. Il tuo sguardo mi attraversava. Sapevo che tu sapevi. “Quando partiamo?” chiesi, “appena l’amico del guercio mi da la busta dei sogni”... “non posso aspettare, sei l’ultima regina del mazzo!” quasi gridai. I tuoi occhi divennero ancora più stretti. Il tuo sorriso non riuscivo più a decifrarlo. Ebbi paura. Ma tu mi accarezzasti i capelli e mentre guardavi oltre le automobili bloccate, oltre la gente paralizzata, oltre la piazza con gli orologi fermi, tirasti fuori dalla tasca un mazzo di carte ancora sigillato.
Era il 27 agosto del 1980.
Non l’avrei più rivista. Tranne una fugace apparizione nella tivù nazional-popolare mentre faceva, insieme a due sue compagne, la corista-sax insieme al gatto e alla volpe di quei tempi, a metà anni 80...
O perlomeno così pensavo.

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