“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 03 May 2015 00:00

Mio amato carceriere (I capitolo)

Written by 

Cronaca di un viaggio in un luogo senza tempo

 

 “Chi non è impegnato a risorgere
  è impegnato a morire”

 (Bob Dylan)

 

Viaggiando dentro

Quando infine mi consentirai di essere libera, mio amato carceriere.
Quando abbasserai la voce,  per ascoltare il mio sussurro.
Quando ascolterai il respiro, per entrare nel mio ritmo.
Quando capirai che la tua vita è solo una fase del viaggio.
Quando accetterai di ridurti, per consentire la mia crescita.
Allora sarò te e tu me ne sarai grato.             

                 (I messaggio)

 

La pioggia iniziò ad infittirsi mentre l’autobus di linea si avvicinava a Findhorn. Sino a quel momento, era stata soltanto una lieve pioggerella innocua, utile al più a dare al paesaggio circostante i colori abituali.

Non riuscivo a scacciare un senso di fastidio per quell’elemento ostile che non avrebbe consentito l’ambientamento che mi ero riproposto, per cercare poi con calma il luogo dove avrei trascorso il breve periodo di permanenza nella Fondazione.
Mi rivolsi al conducente per avere lumi, ma un ragazzo dai capelli raccolti in una coda mi informò che era diretto anche lui alla Fondazione ma già in possesso di una cartina con le indicazioni per trovarla e mi invitò a seguirlo.
Le strade che percorremmo sotto una pioggia battente le ho ripercorse altre volte nei giorni successivi, ma non mi sono mai sembrate identiche a quelle del mio primo ricordo.
David, questo era il nome del mio provvidenziale accompagnatore, era un inglese ventiquattrenne, impegnato in quel periodo in un lavoro temporaneo in Germania.
Era stato qualche tempo ad Auroville, la cittadella indiana che ospita una Comunità che si ispira all’opera di Aurobindo e della sua compagna, denominata la Madre, e questa ultima era stata la maestra della mia prima insegnante di Mantra Yoga.
Era poi stato negli Stati Uniti, in un centro di cui non ricordo l’ubicazione, dove si adoperavano le stesse tecniche utilizzate nella Fondazione verso la quale eravamo diretti e al termine di quell’esperienza sarebbe tornato in India.
Procedevamo a fatica sotto la pioggia implacabile, ma provai una forte sensazione di tristezza pensando alla poca consapevolezza che avevo all’età di David, quando la mia attenzione era tutta rivolta al mondo esterno e alle sue ingiustizie, vere e presunte.
Osservavo il mio accompagnatore ed ero colpito dal senso di sicurezza e di stabilità che riusciva a trasmettere con grande naturalezza.
Sembrava non avesse alcun timore per il suo futuro, né alcun travaglio legato al suo passato. Era lì, semplicemente, pronto a sperimentare se stesso in una nuova prova. Gli raccontai le mie esperienze, i tre anni di Mantra Yoga, l’incontro con i rosicruciani, il Kundalini Yoga e il Tantra bianco, quasi scusandomi del misero bagaglio accumulato in 43 anni di esistenza, ma lui parve molto interessato al mio racconto e in particolare a due coincidenze che erano emerse: la permanenza della mia insegnante di yoga ad Auroville e la forte esperienza vissuta in quel luogo da un giornalista italiano che avevo conosciuto a Loche in un intensivo di Kundalini e Tantra bianco.
Immersi in questo scambio di esperienze, facemmo meno caso alla distanza e alla pioggia battente, giungendo così quasi a sorpresa in vista del grande complesso che si ergeva sulla collina. Ma fu soltanto all’interno del grande edificio che fui colpito per la prima volta dalla sensazione di impatto quasi travolgente con una fonte di potente energia.
Fummo indirizzati verso una stanza dove lasciare i bagagli e, senza avere la possibilità di cambiare gli abiti bagnati, ci recammo nella grande sala al primo piano dove sarebbe avvenuto il primo contatto con le persone incaricate di tenere i corsi previsti quella settimana.
Fu allora che, con mio grande disappunto, io e David venimmo separati. Lui si recò verso una donna dai capelli bianchi, dal cui volto spirava una grande autorevolezza.
Io, invece, venni dirottato verso una coppia formata da un uomo e una donna, entrambi molto giovani e di altezza superiore alla media, e fui assalito dal dubbio che si trattasse di persone alle prime armi e che il mio si rivelasse un corso di livello inferiore rispetto a quello in cui era stato inserito David.
Di quel primo colloquio non serbo quasi alcun ricordo, primo segnale di quel blocco parziale della memoria che caratterizzò i miei primi giorni nella Fondazione.
Credo di aver parlato soprattutto con Frank, anche perché Ethel si allontanava spesso per accompagnare gli allievi nelle loro stanze.
Ebbi così tutto il tempo di recarmi presso l’incaricato delle questioni economiche e di tornare da Frank, ma trascorse ancora del tempo prima del ritorno di Ethel ed ero imbarazzato per il silenzio che era sceso tra me e il mio giovane istruttore.
Finalmente tornò e accompagnò me e una americana dall’età indefinibile, prima nella mia stanza e poi in un rapido giro del piano dove si svolgevano le attività, ci mostrò il Santuario, informandoci che di lì ad un’ora in quel luogo si sarebbe svolta una meditazione alla quale eravamo invitati.
Portato su il bagaglio e indossati abiti più comodi, mi sdraiai sul letto e – ricordando il racconto di David sulla sua esperienza ad Auroville – si presentò prepotentemente alla memoria il ricordo della mia breve permanenza a Loche e delle due persone incontrate in quel luogo e che ebbero involontariamente una forte influenza sul corso della mia vita.
La prima era una ragazza che mi indusse ad abbandonare il campo prima dell’arrivo del Maestro, rinviando così di otto anni il mio incontro con lui, mentre il secondo era un noto giornalista giunto in quel luogo che per lui rappresentava soltanto una tappa di un pellegrinaggio iniziato molti anni prima.
Ma era l’esperienza vissuta da quell’uomo alto e massiccio ad Auroville che stava occupando la mia mente e mi stupii di ricordare con precisione, a distanza di tanto tempo, il resoconto che fece ai suoi giovani interlocutori.
"Il mio primo contatto con il mondo sovrasensibile" – ci raccontò una sera nel parco bellissimo dove si svolgeva il lungo corso Kundalini Yoga che doveva precedere i tre giorni di Tantra – "fu motivato dall’intento di smascherare le truffe dei guaritori filippini ed accettai l’invito di una giornalista che era stata inviata da un settimanale italiano per realizzare il primo reportage sull’argomento. Di truffatori ne ho incontrati in effetti, ma restai colpito, prima ancora che dai personaggi ben diversi dai primi e che operavano quelli che a me sembrarono autentici miracoli, dall’atmosfera che esisteva in quei luoghi e tornai a Roma molto turbato e deciso ad approfondire meglio ciò che stava alla base della possibilità di intervenire là dove la scienza medica si dichiarava vinta".
"Lessi molto" – continuò – "e intervistai esponenti di diverse tradizioni e, anche grazie al mio lavoro, ebbi modo di visitare numerosi luoghi nei quali incontrai persone interamente dedicate al lavoro di trasformazione interiore degli individui. Al di là delle differenze legate al diverso approccio seguito, quasi in ognuno di quei centri era possibile avvertire l’azione di grandi forze, con le quali, pur percependone l’esistenza, io non ero ancora in grado di entrare in contatto. Non ricordo cosa mi spinse in quella parte dell’India dove viveva la compagna di Aurobindo, l’anziana donna denominata semplicemente la Madre. Dei tanti luoghi che avevo visitato, quello era certamente scevro di fenomeni esteriori. Se qualcosa avveniva, il fenomeno era limitato all’interiorità degli individui – in buona parte musicisti, scrittori e artisti non indiani – che popolavano il villaggio e l’unica cosa che era possibile percepire era una grande sensazione di armonia e di pace. La donna che avrei incontrato non comunicava più verbalmente da parecchio tempo e questo mi privava della dialettica, l’arma che più mi era congeniale e che mi aveva spinto sin da giovane a intraprendere la mia professione".
"Prima dell’incontro brevissimo che mi fu concesso" – continuò il giornalista con voce che tradiva, anche a distanza di anni, l’emozione provata – "mi trovai a tu per tu con tutti i miei limiti e la consapevolezza del miserrimo cammino interiore percorso. Ero certo, d’altra parte, che quella donna avrebbe impiegato una frazione di secondo a rendersi conto della mia indegnità, ma ciò che più temevo era di non percepire nulla di quanto avrebbe deciso di comunicarmi. Del suo aspetto fisico non ricordo quasi nulla, ma non dimenticherò mai lo sguardo della Madre, i suoi occhi fissi nei miei per quel quarto d’ora che trascorse in un attimo, senza che io percepissi nulla di quello che mi aveva trasmesso e con il dubbio atroce che non mi avesse ritenuto degno di alcuna trasmissione. Mi allontanai da quel luogo nel più breve tempo possibile, sentendomi completamente svuotato. mi sembrava che tutta la mia storia precedente fosse stata totalmente annullata ed ero in un vero e proprio stato confusionale. Cominciai a sentirmi male nella mia stanza d’albergo. Iniziai ad avvertire una netta alterazione della temperatura corporea e, allo stesso tempo, un freddo intenso che mi giungeva sino alle ossa, come se il corpo non opponesse alcuna resistenza. Il medico dell’albergo venne per la seconda volta e, constatato un ulteriore innalzamento della temperatura, consigliò caldamente un immediato ricovero in ospedale, proprio che ciò che volevo in ogni modo evitare. Feci, quindi, appello a tutte le mie forze e, preparati in tutta fretta i bagagli, mi precipitai all’aeroporto, dove – questo lo ho saputo solo in seguito – fui raccolto privo di conoscenza su di una pista con attorno tutti i miei bagagli. Lo stato di coma profondo durò molto a lungo e i medici mi avevano già dato per spacciato. La mia storia in quel periodo è stata simile a quelle che anni dopo sono state raccontate da numerosi sopravvissuti".
"Fui combattuto tra il senso di pace e leggerezza che provavo mentre vedevo dall’esterno del mio corpo gli sforzi che i medici compivano per salvarmi e la sensazione di qualcosa di incompiuto che mi spingeva prepotentemente verso il rientro in quel corpo che in quel momento aborrivo. Come vi sarà evidente – ci disse con un guizzo di ironia mista a grande dolcezza – alla fine prevalse quel senso di necessità e la ricongiunzione dolorosa avvenne. Tra lo stupore dei medici, in breve tempo mi ripresi completamente e fui in grado di lasciare l’ospedale e di tornare a casa. Avevo una visione molto chiara circa quello che dovevo fare in quella seconda vita che mi era stata concessa e sui passi che dovevo compiere e non ero disposto a scendere in alcun modo a compromessi. Convinsi mia moglie della necessità di sciogliere il nostro matrimonio ormai morto da tempo, cambiai testata giornalistica e decisi che avrei dedicato il resto della mia vita al tentativo di favorire la mia trasformazione interiore, smettendola una volta per tutte di essere un turista spirituale”.
Mentre ripensavo alla storia di Giorgio, provai dispiacere per non aver avuto il tempo e la fluidità linguistica per raccontarla a David. Eppure ero perfettamente consapevole del fatto che quell’incontro e la stessa disastrosa fuga da Loche avevano avuto una notevole influenza sugli eventi che ebbero luogo in seguito nella mia vita.
L’anno successivo avrei iniziato l’attività giornalistica e, alla luce dei miei problemi psicologici a quel tempo non ancora risolti, la fuga da Loche fu provvidenziale perché un impatto con il Tantra bianco in quel momento avrebbe avuto quasi certamente conseguenze nefaste sul mio equilibrio mentale, problema che risolsi due anni dopo smettendo di fuggire di fronte alla mia patologia.
Ero rimasto sdraiato solo venti minuti, ma decisi che era giunta l’ora di lasciare la stanza e mi recai a pianterreno dove c’era la sala nella quale era possibile prendere qualcosa e mi preparai un caffè.
La mia attenzione era tutta rivolta alle persone presenti. Se vi era qualche differenza tra loro, all’inizio non vi feci caso, colpito come ero dal loro essere a proprio agio in quel luogo a me sconosciuto.
Qualche minuto prima dell’inizio della meditazione, entrai nel santuario e presi rapidamente posto su una sedia. Osservai con maggiore attenzione la sala e vidi al centro un tavolino sul quale vi era una candela accesa e dei fiori.
Attorno al tavolino circolare vi era un primo cerchio composto da un decina di cuscini gialli di forma rotonda, a sua volta racchiuso in un secondo cerchio di sedie dall’imbottitura dello stesso colore.
Anche il secondo cerchio era racchiuso in un cerchio ancora più largo di sedie, dove io avevo preso posto quasi in corrispondenza del centro della sala.
A distanza di tempo, mi rendo conto di non aver individuato la provenienza della luce che illuminava la sala, ricordo invece che si trattava di una illuminazione non molto diversa da quella che si può vedere all’esterno in una giornata d’autunno.
Mi colpì l’apertura in alto che, attraverso un vetro circolare, consentiva di vedere il cielo, in quel momento carico di nuvole che non avevano evidentemente ancora esaurito il loro compito dopo aver osteggiato in ogni modo i tanti che, come me e David, avevano raggiunto quella mattina a piedi l’edificio.
L’unica persona presente al mio ingresso nella sala parve non accorgersi del mio ingresso e quando, dopo aver osservato l’ambiente, chiusi gli occhi per assaporare le sensazioni da un angolo visuale diverso, ebbi per alcuni minuti la sensazione di essere completamente solo in quel grande ambiente.
Non cercai di concentrare la mia attenzione su qualche cosa in particolare, se non, come sempre, sull’ascolto del respiro spontaneo e seguii con un certo distacco il rilassamento delle parti che si stava progressivamente verificando.
Mi resi conto all’improvviso che la sala si era riempita e lentamente tornai a prestare attenzione all’esterno sino ad aprire gli occhi per qualche istante, scorgendo così una sola persona seduta nel cerchio dei cuscini e la sala effettivamente quasi piena di persone sedute nei due cerchi di sedie.
La donna che doveva guidare la meditazione era seduta nel secondo cerchio e, dopo un suono che sembrava essere stato emesso da un piccolo gong, disse alcune parole introduttive che non ricordo, ma il suono della sua voce favorì un mio rapido ritorno allo stato che avevo abbandonato pochi minuti prima.
Continuavo a non avere un oggetto specifico di meditazione, solo l’attenzione nei confronti di quanto avveniva in prossimità della base delle narici e poco dopo mi trovai immerso in un buio profondo, provocato dalla chiusura degli occhi e la consapevolezza che il rilassamento delle parti diveniva sempre più completo.
L’oscurità totale che percepivo inizialmente fu contrastata, con il trascorrere del tempo, da un chiarore intermittente che diveniva via via sempre più costante e sempre più forte.
Al suono finale, seguito da parole di ringraziamento e di commiato, mi resi conto che mi era estremamente difficile ristabilire il contatto con il mio corpo e, più in particolare, sentire con i piedi il pavimento sottostante.
Era come se fra i talloni e il soffice tappeto che copriva tutta la grande sala vi fosse una distanza di alcuni centimetri, il che spaventò alquanto e ricordo che impiegai alcuni minuti per tornare ad una sensibilità normale.
La prima cosa a cui pensai fu un problema fisico, collegato semmai a qualche disturbo di circolazione, ma lo ritenni improbabile per la comoda posizione garantita dalla sedia e il poco tempo trascorso nella posizione e, in più, non sarebbe stato comunque in grado di spiegare le sensazioni che avevo provato durante la meditazione, né avrebbe spiegato la luce crescente che avevo visto nell’ultima parte dell’esperienza.
Mancavano pochi minuti all’ora del pranzo e provai un senso di contrarietà per la vicinanza temporale tra i due avvenimenti, in quanto sentivo un grande bisogno di assaporare meglio le forti sensazioni che la breve esperienza aveva prodotto in me, ma la curiosità di vedere tutte insieme le persone presenti nell’edificio ebbe il sopravvento e, anche se a malincuore, uscii dal Santuario e mi diressi verso il piano terra..
Stavo spingendo la porta a vetri che conduce alla grande sala da pranzo, quando mi resi conto di essere in ritardo, vedendo il cerchio già formato e una voce che introduceva il breve attunement dando il benvenuto ai nuovi arrivati.
Era la prima volta che vedevo la catena formata unendo la mano destra rivolta verso l’alto e la sinistra rivolta verso il basso (risonanza trismegistiana?), catena che, come avrei presto scoperto, precedeva e concludeva qualsiasi forma di attività svolta in quel luogo.
La catena, dopo due minuti che mi sembrarono eterni vista la mia posizione imbarazzante al di là della porta a vetri, finalmente si sciolse e potei unirmi alla fila che passava davanti al buffet delle vivande fredde e poi al tavolo delle pietanze calde.
Mentre ero in fila, ebbi modo di osservare meglio la sala. Era tutta rivestita in legno e grandi finestre permettevano di vedere il paesaggio tutto intorno. Nella parte finale, la sala si restringeva leggermente, assumendo una forma semicircolare e al posto della parete vi era una grande vetrata che consentiva di vedere il grande prato e il piccolo bosco che iniziava subito dopo.
Scelsi volutamente un tavolo libero e cercai di riportare la mia attenzione su quello che restava delle sensazioni provate durante e dopo la meditazione, ripromettendomi di osservare poi con attenzione le persone presenti, ma una voce maschile che pronunciava le frasi di rito per sedersi ad un tavolo già occupato da altre persone mi colpì sgradevolmente, interrompendo in modo brusco il corso dei miei pensieri.
Alzando gli occhi vidi un uomo corpulento e quasi completamente calvo che non so perché mi sembrava capitato per caso in quel luogo e mormorai qualcosa che nelle mie intenzioni voleva essere un segno di benvenuto, ma che suonò come una rassegnata accettazione della sua invasione.
Per nulla disarmato, lo sconosciuto si premurò di spiegarmi che quella era la sua prima presenza nella Fondazione e, con un po’ di cattiveria, ne trassi l’impressione che avesse deciso di frequentare il corso nello stesso modo in cui avrebbe potuto prenotare una settimana di vacanza nei mari tropicali.
Cercai di analizzare meglio la sensazione di fastidio che provavo e giunsi alla conclusione che forse ciò accadeva perché temevo in qualche modo di apparire alle persone più giovani quello che lui sembrava a me. Risposi così a monosillabi ai suoi ripetuti tentativi di fare conversazione, ma, anche grazie al mio soprassalto di consapevolezza, mi vergognai quasi subito del modo in cui mi stavo comportando e cercai di chiacchierare più cordialmente con lui e fu solo quando si unirono a noi altre persone che io tornai, senza più sensi di colpa, al mio silenzio.
Alla fine del pasto, mi alzai per prepararmi un ottimo caffè istantaneo e mi soffermai un po’ nella sala attigua, dove era possibile chiacchierare sedendo su comodi divani o leggere qualche quotidiano o una rivista.
Sentivo un forte desiderio di fumare e mi aggirai sotto la pioggia, tenendomi a debita distanza dall’edificio, non sapendo cosa fare del mozzicone, che alla fine infilai nel pacchetto di sigarette.
Era quasi l’ora del primo incontro del gruppo. Da quando ero nell’edificio, avevo sempre l’impressione di essere in ritardo e  avvertivo ancor in modo molto netto gli effetti del blocco della memoria, blocco che si è solo parzialmente dissolto a distanza di tempo.
La sala in cui si sarebbero svolti poi i nostri incontri era una grande stanza rettangolare, con al centro un tavolino di vetro sul quale vi era un cero simile a quello collocato sul tavolino centrale del Santuario. Una ventina di sedie moderne erano disposte in forma ovale, ma restava spazio nella stanza. I componenti del gruppo erano quasi tutti presenti e, a parte i due focalizzatori, la ragazza americana e un giovane tedesco che avevo conosciuto quando avevo portato la borsa in camera, non ricordavo di aver visto nell’edificio nessuna di quelle persone. In larga maggioranza, i partecipanti erano donne, ma questo non mi sorprese in modo particolare, in quanto nelle mie precedenti esperienze yogiche e gnostiche avevo notato la preponderante partecipazione femminile.
Ricordo poco della presentazione iniziale che verté quasi esclusivamente sui motivi che ci avevano condotti in quell’istituzione, ma rimasi molto colpito dalla provenienza della gran parte dei partecipanti. Quasi la metà veniva, infatti, da posti molto lontani come l’Australia, la Nuova Zelanda e gli Stati Uniti, un numero quasi uguale proveniva da vari Paesi europei e solo tre erano cittadini della nazione che ospita la Fondazione.
La seconda cosa che mi colpì molto fu che, in una settimana di autunno inoltrato, più di trenta persone (tante ve ne erano nei due gruppi) avevano raggiunto quella località remota per compiere quello che poteva rivelarsi il primo passo di un lungo e non facile viaggio interiore.
Ebbi anche modo di osservare meglio le nostre due "guide". Anche se nel loro raccontare se stessi sembravano fornire elementi a sostegno della mia impressione iniziale che si trattasse di due novellini, qualcosa nel loro sguardo, nel loro aspetto e nei modi mi convinse che avevo preso un grosso abbaglio.
I giorni a venire avrebbero fatto giustizia definitivamente della mia iniziale sottovalutazione e, conoscendoli meglio, avrei iniziato a provare, in particolare nei confronti di Ethel, un sentimento non lontano dalla venerazione.
Ho accennato allo sguardo dei due focalizzatori. Avevo già visto in precedenza occhi come i loro in un centro gnostico in Svizzera, in un campo in Francia dove si praticava il Kundalini Yoga e il Tantra. Avevo già visto quello sguardo in persone che seguendo raggi diversi si erano avvicinate al centro comune a tutte le tradizioni.
Mai, tuttavia, avevo visto tante persone con quegli occhi e quello sguardo quante ve ne erano in quell’edificio e quante ne avrei incontrate nei giorni successivi nella sede principale della Comunità. Eppure, sembravo essere l’unico ad accorgersi di questo tra le persone che componevano il mio gruppo. Non era solo lo sguardo così particolare ed intenso dei due focalizzatori a colpirmi. Emanava da loro una bellezza assolutamente non materiale, e a volte mi era persino difficile mettere a fuoco distintamente i loro lineamenti. Cercavo di immaginarli in situazioni quotidiane del mondo esterno a quel luogo, di visualizzarli in una metropolitana durante l’ora di punta o impegnati in un qualsiasi tipo di attività. Sono certo che non sarebbero passati inosservati.
Ricordo poco, invece, dell’impressione iniziale delle altre persone del gruppo. Fui colpito da una certa dose di aggressività che traspariva dalle parole di due donne e dall’aspetto dell’unico altro italiano del gruppo, un giovane calciatore, che mi sembrava, come l’uomo che aveva invaso il mio tavolo, capitato lì per caso, mentre è stato poi proprio con lui che ho condiviso gran parte delle esperienze nelle due settimane trascorse nella Fondazione.
Di alcune persone non notai inizialmente in alcun modo la presenza e mi sono chiesto successivamente se erano presenti o meno alla prima riunione, vista la grossa considerazione che ne ho avuto in seguito e la centralità che avrebbero assunto nel corso degli avvenimenti dei giorni successivi.
Facemmo poi un giro più accurato delle parti comuni dell’edificio e scoprii con grande sollievo l’esistenza di un bar per fumatori, posto a fianco della grande sala da ballo e che un tempo era stato il bar dell’albergo, prima dell’utilizzazione dell’edificio come scuola della Fondazione. L’unico fumatore presente quando entrammo mi colpì molto per il suo aspetto, in quanto sembrava uscito da una pubblicità di viaggi avventurosi. La sera stessa lo avrei visto all’opera in una veste molto diversa.
La cena fu per me molto più tranquilla del pranzo. Ero al tavolo con alcune persone del mio gruppo, ma non partecipai molto alla conversazione e, appena possibile, mi allontanai poi da solo per andare a fumare nel parco. Mi aggirai per i viali del parco, cercando di decidere tra le due possibilità che vi erano per noi quella sera e che consistevano nell’andare nella sede della Comunità al Park a vedere un film o restare al College per partecipare alla cerimonia della Luna piena. Ero indeciso, ma un colloquio con una donna che partecipava al mio corso chiarì le mie vere intenzioni. Accarezzavo da anni l’idea di scrivere un romanzo la cui scena principale si doveva svolgere proprio durante la Luna piena di un certo mese dell’anno, anche se il contesto in cui avevo intenzione di ambientare il mio libro era di tipo molto diverso.
Rientrai così nella quiete della sala di consultazione e sedetti su una comoda poltrona con una grande tazza di caffè tra le mani, deciso ad osservare tranquillamente la situazione, astenendomi dal prendere parte a conversazioni, ma, ad onta delle mie buone intenzioni, fui improvvisamente attratto da un colloquio in corso tra il mio focalizzatore e una giovane spagnola che si era presentata in netto ritardo al primo incontro del gruppo.
Era evidente che Frank stava cercando di convincere la ragazza a cambiare i suoi programmi circa la frequenza del corso, ma si trovò di fronte ad un muro e ad una ostinazione che avrei imparato a conoscere nei giorni a venire. Fui molto colpito dalla estrema rapidità con cui Frank cambiò atteggiamento per uscire indenne dalla poco piacevole situazione in cui si era cacciato e dalla sua abilità nel cancellare le tracce del suo tentativo di dissuasione.
Non so perché, pur avendo assistito alla scena e avendo avuto così modo di verificare l’ostinazione di quella ragazza, cercai anche io di capire il motivo della sua presenza, per arrendermi in breve tempo di fronte al suo atteggiamento. Il confronto con Felicia aveva determinato in me un vistoso calo di energia e avvertivo la stanchezza del lungo viaggio che mi aveva condotto in quel luogo e la notte quasi in bianco passata nell’albergo dove avevo alloggiato la notte precedente. Per fortuna, riuscii a vincere quel momento e mi accodai agli altri quando uscirono dall’edificio per raggiungere il luogo dove si sarebbe svolta la cerimonia.
Aveva piovuto tutto il giorno, ma quella sera le nuvole si tenevano lontane dalla Luna che riusciva così a sfoggiare il suo aspetto migliore ed era in grado, per la quasi totale assenza di luci di disturbo, di illuminare a sufficienza il vasto prato soffice sul quale formammo un grande cerchio, unendo le mani per formare la catena nel modo tradizionale di quella comunità.
Non riuscivo a credere di essere in quel luogo da non più di dodici ore. Avevo la sensazione che fossero già tracorse intere giornate e neanche queste sarebbero bastate a spiegare la mia tranquillità, il senso di consuetudine, la familiarità con i luoghi e, ancor di più, quella chiara e netta sensazione di essere giunto finalmente a casa.
L’uomo che avevo visto nel bar per fumatori, quello che sembrava uscito da una pubblicità di viaggi avventurosi, guidò l’attunement iniziale e ci informò che la cerimonia era in gran parte basata sulla tradizione dei nativi d’America e, immediatamente dopo queste parole, intonò un breve canto di invocazione alla madre Terra, che ripetemmo insieme a lungo. Avanzò poi verso il centro del cerchio e bruciò delle sostanze fino a ridurle in cenere, per procedere ad una purificazione mediante la cenere ottenuta e compiendo determinati gesti. Passò successivamente davanti ad ogni partecipante, consentendo ad ognuno di ripetere su se stesso la medesima operazione.
Non ricordo altri particolari della cerimonia, se non che si concluse con un’invocazione palese o silenziosa rivolta da ciascuno di noi alla Luna, poi ebbe luogo la catena per l’attunement finale e il cerchio si sciolse.
Ebbi qualche difficoltà a muovermi dal mio posto, ma dopo un po’ mossi con qualche incertezza qualche passo sul prato illuminato da una Luna non ancora sopraffatta dalle nuvole incombenti ed ebbi la netta sensazione che il prato sotto i miei piedi sprofondasse per 10-15 centimetri.
Ero ancora stordito dalle forti sensazioni provate nell’ultima parte della cerimonia e dallo “sprofondamento” successivo nel prato e, per reagire, corsi a fumare una sigaretta che dovetti però lasciare a metà, quasi sopraffatto da un senso di vertigine e dalla impressione che l’energia, una grande quantità di energia, riuscisse in quel momento a fluire liberamente in me, non incontrando alcuna resistenza, alcun ostacolo all’interno.
Lasciai trascorrere qualche minuto per ritornare in me, ma era abbastanza chiaro che non si trattava di uno stato di alterazione, quanto del fatto che stavo sperimentando una modalità di essere perfettamente naturale, al di là del fatto che non vi fossi abituato.
Rientrato nell’edificio, seguii delle persone che si dirigevano verso la grande cucina, dove stava avvenendo uno spuntino di massa e mi resi conto di essere estremamente affamato, nonostante avessi mangiato molto durante la cena. Preparai più di una fetta di uno stupendo pane in cassetta spalmandovi abbondanti dosi di burro e marmellata e innaffiando il tutto con due tazze del solito caffè solubile che continuava a sembrare del tutto refrattario allo zucchero.
Tornato ad un maggior livello di consapevolezza della mia corporeità, mi recai allo Smokers’ Bar, dove incontrai una donna spagnola che esercitava la professione medica in un paese lì vicino e un giovane brasiliano dal modo di fare molto disincantato, e che aveva un modo molto ironico e irriverente di considerare le cose che avvenivano in quel luogo. Gli chiesi da quanto tempo si trovasse in quel luogo e ci informò che stava completando quella settimana il settimo corso e che, dopo alcuni mesi di permanenza consecutiva ad Findhorn, stava per tornare nel suo Paese di origine dove avrebbe lavorato ad un progetto della Fondazione.
La donna doveva essere al corrente della sua storia, ma io restai a bocca aperta di fronte a quel giovane dal volto fanciullesco e dall’eloquio spiccio, che, senza apparentemente dar troppo peso alla cosa, era giunto quasi al termine del suo percorso e che, dopo l’imminente prova decisiva, si apprestava ad un compito estremamente impegnativo nel suo Paese.
Ero molto imbarazzato per il mio giudizio avventato, ma, se pure lo aveva percepito, non gli diede alcun peso e, finita la sigaretta, uscì, lasciandomi solo con la donna spagnola. Parlando con lei, scoprii che aveva condiviso gran parte delle mie sensazioni e, come me, aveva sentito svanire la stanchezza e crescere in lei una grande energia, a cui, tuttavia, avevo l’impressione che lei fosse molto più abituata. Avevo molta voglia di continuare a parlare con lei, ma sentivo anche il bisogno di porre un termine a quella prima, interminabile giornata passata in quel luogo. E spenta la sigaretta la salutai e tornai nella mia stanza.
Feci in tempo appena a spogliarmi, ad infilare una tuta per la notte e a spegnere la luce che ero già sprofondato in un sonno profondo e, credo, senza sogni.

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