“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 23 January 2015 00:00

La peste come metafora

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Premessa
A partire dagli anni ‘30 del secolo scorso, come scrive Susan Sontag, la metafora della peste "era frequente, come sinonimo di catastrofe sociale e psichica. Tali evocazioni procedono di solito di pari passo con gli atteggiamenti conservatori: si pensi, a esempio, a quelle di Artaud sul teatro e sulla peste, e a quelle di Wilhelm Reich sulla 'peste emotiva'".1

A conferma di ciò, Antonin Artaud inLe théâtre et son double2 parla della peste – e del teatro – come di una immensa forza distruttrice e rigeneratrice, in grado di sconvolgere gli ordini prestabiliti, distruggere le convinzioni e le false credenze degli uomini, di far crollare le maschere, di mettere, infine, l’uomo a nudo davanti a se stesso. Così facendo, la peste, come il teatro, permette all’uomo di cogliere pienamente la verità del suo essere, svelandone i conflitti e le contraddizioni più profonde. La malattia, in senso lato, ha la capacità di mettere in luce uno squilibrio nell’uomo e costituisce il punto di partenza verso la guarigione. Dunque, la Peste contiene già in sé il seme della liberazione/guarigione dell’uomo.
A partire dal mio studio, è possibile rintracciare questa simbologia della Peste – nella accezione artaudiana del termine − nelle opere teatrali di Jean-Paul Sartre e Albert Camus: Les Mouches (Le mosche, 1942) e Caligula (Caligola, 1944). Oreste e Caligula sono la personificazione della Peste che agisce – o perlomeno tenta di agire – sulle coscienze degli uomini. Lo scopo dei due personaggi è quello di insegnare agli uomini la consapevolezza della loro Libertà, stravolgendo l’ordine – umano e divino − precedentemente stabilito attraverso l’azione violenta, l’irruzione metaforica dell’epidemia.
Si tratta di una “concezione epidemica della presa di coscienza” contenuta nelle due pièces, in quanto Oreste e Caligula vogliono metaforicamente infettare gli uomini – gli uni sottomessi alla tirannia fisica e morale del re Égysthe, gli altri all'inconsapevolezza dell'assurdità della vita − instillando loro la coscienza della Libertà, essi intendono agire sulla collettività, come la pestilenza.

 
Il caso di Oreste
Ne Les Mouches, Oreste tenta di liberare la città dalla Peste – rappresentata simbolicamente dalle Mosche –, dalla tirannia del re Égyste e del dio Jupiter, dunque dal sentimento di colpa – causato dall'inazione del popolo davanti al passato regicidio di Agamemnon commesso da Égysthe − che opprime gli abitanti. Secondo le autorità divine e terrene egli è anche portatore di Peste, in quanto tenta di sconvolgere l’ordine della città liberando dall’oppressione gli uomini di Argos. La libertà che tenta di far apprendere agli uomini è quella dell’uomo che si fonde con il suo stesso atto, dell’uomo cosciente di non essere nient’altro al di là del suo progetto, di dover continuamente inventare il suo cammino: "L’homme, tel que le conçoit l’existentialisme, s’il n’est pas définissable, c’est qu’il n’est d’abord rien […] il n’y a pas de nature humaine. […] L’homme n’est rien d’autre que ce qu’il se fait. Tel est le premier principe de l’existentialisme".3
Oreste vuole fare vivere gli uomini di Argos nella verità, nella rivolta contro la tirannia del re e il loro stato di sottomissione e, infine, nella libertà del loro essere. Tuttavia, la liberazione di Oreste, pur tendendo alla collettività, è essenzialmente individuale. Gli uomini di Argos rimangono, di fronte ad essa, spettatori passivi, l’atto della liberazione non li riguarda realmente. Oreste tenta di svincolare gli uomini di Argos anche dall’oppressione del dio Jupiter – il quale aveva inviato nella città le Mosche – quindi dal dominio divino, in quanto: "Quand une fois la liberté a explosé dans une âme d’homme, les Dieux ne peuvent rien contre cet homme-là. Car c’est une affaire d'hommes" [...].4
La libertà umana si costruisce in antitesi rispetto al potere divino.
I valori professati da Oreste non attengono più al potere ultra-mondano, il bene e il male non hanno più ragione di sussistere, in quanto non esiste alcun dio che abbia il potere di regolarli. Il Sommo Bene non ha più alcun valore, poiché esiste soltanto l’uomo, la sua scelta e il suo atto. Oreste, emblema dell’uomo liberato, è ora uno straniero, un figlio ripudiato, che ha rifiutato le leggi della Natura e del divino per costruirsi una libertà pienamente umana, si è fatto carico della sua esistenza e della sua responsabilità totale.
"L’homme est liberté. Si d'autre part, Dieu n’existe pas nous ne trouvons pas en face de nous des valeurs ou des ordres qui légitimeront notre conduite. […] Nous n’avons […] des justifications ou des excuses […]. L’homme est condamné à être libre".5 Oreste è condannato ad essere libero, a costruire la sua esistenza. Egli è un esiliato da dio, che lo considera un elemento disturbante rispetto al suo Ordine, un sovvertitore; infatti Jupiter dice a Oreste: "tu empestes"6.
Egli è portatore di peste, di disordine, di libertà. Alla fine della pièce, Oreste abbandona la città di Argos con un autentico gesto teatrale. Egli si è fatto Peste, ha purificato e liberato la città estirpandone il male, ovvero il sentimento di colpa e di sottomissione inflitto dalle autorità. Oreste parte lasciando il trono vuoto, lasciando la possibilità agli uomini di ricostruire le loro vite, volendo egliessere un "roi sans terre et sans sujets".7 Sarebbe paradossale se egli volesse governare, in quanto ciò costituirebbe una limitazione di libertà nei confronti del popolo e, secondo Sartre, la libertà non può essere regolata, limitata, ma solo vissuta in tutta la sua pienezza.
Oreste dunque, entra nella storia e, come il suonatore di flauto di Sciro con i topi, si allontana per sempre dalla città, a passo lesto, seguito dal corteo delle Mosche.

 

Il caso di Caligula
Parallelamente a Oreste, anche Caligula si è fatto portatore di Peste, sovvertitore di ordini, pedagogo degli uomini.
Ne Le Mythe de Sisiphe, Camus scrive: "Vivre un expérience, un destin, c’est l'accepter pleinement. Or on ne vivra pas ce destin, le sachant absurde, si on ne fait pas tout pour maintenir devant soi cet absurde mis à jour par la conscience". 8
Questa è la verità ultima che Caligula tenta di insegnare agli uomini che lo circondano: la consapevolezza dell’Assurdo, della morte, della finitudine dell’uomo. La rivolta è il perpetuo confronto tra l’uomo e l’oscurità: è la coscienza dell’uomo che guarda chiaramente se stesso, è la certezza di un destino schiacciante, ma senza rassegnazione. La ragione profonda della libertà dell’uomo assurdo risiede nel fatto che egli non vive proteso nel domani, bensì ogni attimo presente nella sua pienezza. Nella vita assurda non esiste una scala di valori, l’uomo deve puntare all’accumulo, alla quantità delle esperienze: vivere nell’indifferenza dell’avvenire e nel desiderio di esaurire tutto ciò che ci è dato nella vita. Ed ecco infine l’Assurdo divenire passione per le cose del mondo, volontà di vivere e libertà assoluta.
Caligula, il tirannico imperatore assassino, conscio delle menzogne nelle quali vivono gli uomini, è determinato a farli vivere nella verità, ponendoli costantemente davanti alla tragicità della loro esistenza: la Morte. L’unica azione in grado scuotere le coscienze degli uomini/patrizi è quella violenta che passa per il corpo, sola via attraverso la quale è possibile raggiungere lo spirito dell’uomo. Caligula ha la possibilità di fare ciò in quanto dotato di un immenso potere e di una libertà senza misura.
La libertà ed il potere diventano strumenti per realizzare l’Impossibile: quello di Caligula è un progetto, pur nella sua estrema lucidità, utopico, che prende le mosse da un grande amore per la vita. Egli vuole spogliare gli uomini dalla speranza nell’eterno e dalleloro false convinzioni, deve renderli consapevoli dell’assurdità della loro esistenza, ovvero della Morte. Per raggiungere tale scopo, egli si fa portatore di Morte, diviene Destino, divinità: "On ne comprend pas le destin et c’est pourquoi je me suis fait destin. J’ai pris le visage bête et incompréhensible des dieux".9
Caligula è convinto che esista un solo modo per potersi sostituire al divino, quello di fare della propria esistenza una sorta di artaudiano “teatro della crudeltà”: "Il suffit de se durcir le coeur".10
Secondo Artaud, infatti, "nous avons besoin avant tout d’un théâtre qui reveille: nerfs et coeur",11 ovvero un teatro che colpisca violentemente l’uomo in ciò che ha di più profondo, che riesca a destare l’uomo dalla sua inconsapevolezza; ed è esattamente quello che Caligola intende fare: attraverso le sue azioni egli attua una sorta di "thérapeutique de l’âme dont le passage ne se laissera pas oublier".12
Dunque, il teatro della crudeltà di Caligula intende agire sull’anima, portare ad una modificazione dello spirito degli uomini, come la Peste ed il teatro artaudiano. Come Oreste, anche Caligula ha il ruolo della Peste. Egli dice esplicitamente nella pièce di volersi incarnare nel grande flagello, per mostrare la crudeltà del destino e degli dèi. Attraverso gli omicidi e le azioni violente, sovverte gli ordini morali dei patrizi, svelando una piaga nell’animo degli uomini, quella della non-consapevolezza di sé e del mondo; intende guidarli alla suprema verità, alla coscienza dell’assurdità della vita.
Infatti la Peste, ovvero Caligula, avrebbe la capacità di svelare le contraddizioni, le zone d’ombra nell’uomo, mettendolo davanti alla sua vera natura, alla sua tragica esistenza. L’azione di Caligula si pone come distruttrice e rigeneratrice, in quanto dovrebbe portare gli uomini ad una sorta di purificazione e di liberazione attraverso la violenza e di liberazione. Tuttavia, come nel caso del tentativo di Oreste, Caligula non riesce a portare a compimento il suo progetto. Come già precedentemente affermato, la presa di coscienza è uno sforzo individuale, non può essere trasmessa per via virale da un essere all’Altro.
Infatti Caligula, alla fine della pièce, prende coscienza del suo fallimento. Il progetto di Caligula non è alla portata degli uomini, egli fallisce perché dimentico della sua misera condizione umana, tenta di superare i limiti di se stesso e di realizzare l’Impossibile.
Egli ha voluto dare prova agli uomini della finitudine e della vanità delle cose del mondo, tentando di renderli coscienti della loro esistenza attraverso la sua violenza, la sua volontà di incarnarsi nella Peste, nel Destino, negli dèi. Ha infine acquisito "la divine clairvoyance du solitaire",13 conquistato l’eterna solitudine che tanto agognava, in quanto l’esperienza della presa di coscienza dell’assurdità della vita non può essere che vissuta da soli, nella propria individualità. Caligula infine, va incontro alla morte consapevole – come Mersault ne L’Étranger (Lo straniero, 1942) – per andare a ricongiungersi con quel "grand vide où le cœur s’épaise",14 egli sa di poter trovare riposo solo nella Morte. Poiché prende coscienza dell’impossibilità di saziare la sua sete di Assoluto e di Libertà, egli si sente incolmabile, al punto da affermare che non esista nulla al mondo che sia a misura della sua anima, delle sue altissime aspirazioni metafisiche. La caduta dei suoi ideali collima infatti con la morte, con l’omicidio di Caligula ed Hélicon da parte dei patrizi.
Similmente a Oreste, egli entra nella storia, mantenendo un atteggiamento eroico anche davanti alla morte, momento estremo in cui pronuncia le seguenti parole: "À l’histoire, Caligula, à l’histoire".15

 
 
 
 
 
 
 
 
 
1) Susan Sontag, L'AIDS e le sue metafore (1989), trad. it. di Carmen Novella, in ead., Malattia come metafora (AIDS e cancro), Torino, Einaudi, 1992, p. 133. 
2) Antonin Artaud, Le théâtre et son double, cit,. p. 171. 
3) Jean-Paul Sartre, L'existencialisme est un humanisme (1946), Parigi, ed. Gallimard folio, 1996, pp. 29-30 ("L'uomo, come l'esistenzialismo lo concepisce, non è definibile perché non è nulla in principio. Non esiste la natura umana. L'uomo non è nient'altro che ciò egli stesso si crea. Questo è il primo principio dell'esistenzialismo").  
4) Id., Les Mouches, p. 203(«Una volta che la libertà è esplosa nell'animo di un uomo, gli dei non possono niente contro di lui. È un affare tra uomini»). 
5) Id.,L'existencialisme est un humanisme, p. 39 ("L'uomo è libertà. Se, d'altra parte, dio non esiste noi non ci troviamo di fronte dei valori o degli ordini che legittimeranno il nostro comportamento. Non abbiamo giustificazioni o scuse. L'uomo è condannato ad essere libero"). 
6) Id., Les Mouches, p. 153 ("Tu impesti"). 
7) Ivi, p.180 ("re senza terra e senza sudditi"). 
8) Albert Camus, Le Mythe de Sisiphe, cit.,p. 78. ("Vivere un'esperienza o un destino, significa accettarli pienamente. Oppure non si vivrà questo destino – sapendolo assurdo- se non si fa di tutto per mantenere davanti a sé questo assurdo messo in luce dalla coscienza").
9) Ivi, pp. 96-7 ("Non si comprende il destino ed è per questo che mi sono fatto destino. Ho assunto il volto stupido e incomprensibile degli dei").
10) Ivi, p. 97 ("Basta indurirsi il cuore"). 
11) Antonin Artaud, Le théâtre et son double, cit., p. 131 ("Prima di tutto, abbiamo bisogno di un teatro che ci risvegli: nervi e cuore"). 
12) Ivi, p. 132.("terapeutica dell'anima il cui passaggio non si farà dimenticare"). 
13) Ivi, p. 147 ("chiaroveggenza del solitario"). 
14) Ivi, p. 149 ("gran vuoto dove il cuore si placa"). 
15) Ivi, p. 10 ("Alla storia, Caligola, alla storia!"). 
 
 
 

Bibliografia recenti edizioni italiane
Antonin Artaud
Il teatro e il suo doppio
a cura di Gian Renzo Morteo, Guido Neri
prefazione di Jacques Derrida
Torino, Einaudi, 2000 (1964)
pp. 262


Albert Camus
Tutto il teatro
a cura di Guido Davico Bonino
Milano, Bompiani, 2000
pp. 262


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