“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 09 January 2015 00:00

Per sempre Le ore – The Hours

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“Vorrebbe aver fatto qualcosa di meraviglioso,
qualcosa che appaia meraviglioso anche a chi non la ama”

Mi piacerebbe raccontarvi una storia a tratti noiosa, senza azione e lieto fine, una storia universale e spalmata nel tempo, che non conosce l’usura della vecchiaia, che non è mai anacronistica, mai rattrappita, mai finita. È una storia di donne, di mamme, di poeti e bambini, di fragili musei nei quali il silenzio e il boato coabitano in teche di sorrisi e fossili. Se doveste annoiarvi abbandonate la lettura, non sperate migliori, perché oltre questa teoria di esposizioni arriva una piccola stanza vuota, ma piena di voci e lamenti, con le pareti come mostri marini che avviluppano tutte le pietre, lasciandovi decidere se morire o vivere.


Virginia Woolf
Virginia Woolf: l’immensa scrittrice che tutti conosciamo, la ritroviamo nel prologo a un passo dal suicidio, con la sua collezione privata di sassi e l’acqua che ingoia l’esile corpo bastonato e ingiuriato dai mostri della mente. Virginia alle prese con la Signora Dalloway, in esilio dal suo mondo esuberante, dal suo gorgo di ebrezza e disperazione, piccola figura dentro un teatro di asettica sanità, di correttori di bozze, fustigatori di errori. È qui una donna mattiniera, una delle tante che si sveglia al mattino cercando ovvie ragioni per non impazzire, sforzandosi di amare gioie accessorie, simili a letti di rose per fortunati uccelli morti. E poi il diavolo, l’incubo e il sollievo, la minaccia e la soluzione: “ll diavolo è tante cose ma non meschino, non sentimentale; ribolle di una verità letale, intollerabile”. I demoni che chiedono, esigono il cedimento delle tue banali difese, lo spettacolo naturale della vita dentro l’arte, dentro il cuore profondo, dentro la fredda tomba dalla quale cavasti un urlo e nessuno ti sentì mai. La penna fa male, si ritira, non è capace, appassisce come uno stelo d’erba svilito dalla vicinanza di un fiore splendente.

Laura Brown
Laura Brown: è un’immagine facile da indovinare, la comune donna sposata, madre di un maschio e in attesa del secondo figlio. Dietro di lei, la guerra, nella sua abbagliante inutilità, davanti, la pace e l’ordine, l’indisciplinata simmetria di villette a schiera, vicini sorridenti e mariti eroi. Davanti, compiti e taciti cerimoniali, comodità e torte di compleanno, che se poi la glassa è un completo disastro finisce con una nevrosi e una fuga, una corsa disperata tra gli arbusti finestrati di Los Angeles. L’amabilità è come un cappio di fiori profumati, sgozzarsi con quel nodo al collo è lento quasi da non sentirsi, come se la morte così facile e giusta sia tragicamente prorogata dalla memoria di un odore, dal tempo che ci impiega la vita per sentirsi residua. Qui la storia è claustrofobica, la maniacale ripresa del dettaglio, dell’oggetto piccolo, ogni minimo arredo diventa un più stretto orizzonte, una parete di casa. Sembra tutto stanco, deciso, Laura è dentro questa scatola e questa scatola si sta chiudendo, come si chiude, per una sera, la voglia matta di morire dietro uno sportello sullo scaffale del bagno. Il demone attacca e allora niente basta più, la geometria di un accampamento di gente per bene diventa un labirinto, dove tu hai già contato, miliardi di volte, i passi che ti tocca fare, né più né meno che quelli. Piove adesso, fa caldo, ma piove, la torta che hai fatto non sarà mai un buon libro e chi ti ama non ti dirà mai quanto sia mediocre la glassa su quella fottutissima torta che è la tua opera peggiore. Sarebbe bello brillare senza prestigio, sarebbe tutto più bello se queste case fossero meno dritte e l’amore meno eroico.

Clarissa Vaughan
Clarissa Vaughan: quale migliore presentazione di questa: “[…] come se ogni cosa del mondo fosse parte di un intento vasto e imperscrutabile e ogni cosa nel mondo avesse il suo nome segreto, un nome che non può essere incanalato in una lingua, ma è semplicemente il vedere e sentire le cose in sé”. L’esistenza di Clarissa è stata quasi tutta così, fortemente ancorata a un fatalismo mai banale, frutto, piuttosto, di una profonda consapevolezza radicata nella vita stessa, nel suo bagliore piccolo e discreto, un colore sicuro che se anche mondano, comunque equilibrato. In questo giorno vicino alla sua età matura, setaccia, in un flusso pacato di riflessione, il suo passato, alla ricerca di quell’attimo felice, del momento esatto in cui tutta la felicità era priva di statuto e progetto, in cui era abbastanza quello che c’era, solo quello. Sua figlia, la sua compagna di vita, la sua casa nuda ed estranea, poi di nuovo familiare, il vento che disorienta e poi smette, l’amore per il poeta e l’amico, l’uomo che cavalca il vento sopra una finestra al quinto piano. La malattia e l’odore della morte, ma poi la vita, ancora la vita, ancora questo piccolo momento. Subito dopo: il salto. In una poesia resterà per altri, forse pochi, il resoconto di un uomo su una donna, su Clarissa che acquista fiori per celebrare i fasti di quel poeta ingiallito. Però poi davvero, si sale ancora e domani sarà solo il giorno dopo, un mattino meno tiepido ma ancora buono per continuare a scrivere poesie su altre donne con nuovi nomi. Poche ore alla notte, si spegne l’eccitazione, verso casa marciano gli ultimi cordogli. La spettacolarità degli amori falliti, per Clarissa che l’ha desiderata, è una vertigine e una bugia, perché il buio ha ore lunghe e l’amore deve saper restare.

Mrs Dalloway
Tra loro un romanzo: Mrs Dalloway.
Virginia lo sta scrivendo, Laura lo sta leggendo e Clarissa lo sta vivendo.
Le fasi della scrittura e della vita – perché in fondo si somigliano questi due momenti qui, sono un cordone ombelicale fitto, intrecciato, che ti mantiene vivo, ti nutre e ti salva finché resta dentro, ti avvelena e ti uccide dopo che la vita ha smesso di urlare.

Questo libro è un inno alle piccole cose, minuscole e tragiche, quelle che ti arredano una casa o la realtà.


 

 

 

 

 

 


Michael Cunningham
Le ore (The Hours)
traduzione Ivan Cotroneo
Bompiani, Milano 2012
pp. 169

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