“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 14 November 2014 00:00

Un eroe (vero)

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Non fu figlio di Venere né di Marte l'eroe che salvò la Grecia ai tempi di Aristotele.
CDOBOS, la cui storia fu poi ingiustamente dimenticata, fu tra i più forti ed i più valorosi guerrieri di tutta la storia dell'umanità. Umano troppo umano, nessuna divinità gli offerse mai un qualche potere né tanto meno tradì i cieli per difenderne le tragiche sventure. Cdobos non nacque eroe, lo divenne.

Era un pomeriggio di maggio quando questo ricco ragazzo sensibile all'arte abbandonò la piuma per la spada. Quel giorno una creatura demoniaca venuta da un cratere nel mare attaccò la sua città. L'immagine del Desderide con il padre e la madre fra le fauci forgiò per sempre una corazza di adamantite attorno al suo spirito, da quel giorno egli non visse più che per vendicarsi.
Da quel giorno il ragazzo dedico tutto sé stesso al culto della forza e del corpo, all'allenamento, alla maestria delle armi, all'uccisione e alla tortura. Faticò così tanto da dimenticarsi cosa fosse la fatica, costrinse il suo corpo a tante sofferenze che dimenticò il dolore. A vent'anni Cdobos fu pronto, era un eroe ateo che non aveva neanche più da temere gli dei, e si recò solo nell'antro del mostro.
Era buio e umido, una caverna la cui pietra nera come la pece era ricoperta di sangue. L'antro era pieno di fosse e tunnel che si riempivano improvvisamente di correnti mortifere piene di squali affamati. Con le mani aggrappate lungo le pareti, per non cadere, l'eroe riconosceva la forma dei volti urlanti e pietrificati delle vittime divorate dal mostro per diletto e poi rigurgitati come offesa ultima e suprema. Dal soffitto cadevano, mentre lentamente ma con determinazione avanzava, centinaia di sanguisughe e meduse indemoniate. Nulla tuttavia che potesse anche solo far vacillare per un secondo Cdobos.
Per tre giorni e tre notti Cdobos avanzò, intrepido, verso il centro della grotta dove si trovava la culla del mostro. Scese sempre più in profondità senza mai fermarsi, come un angelo punitore, tuttavia all'improvviso vi fu un terremoto che spaccò le rocce a cui si teneva saldo. Giù, con la bocca aperta ed il ghigno, il Desderide già si pregustava la sua nuova e fresca vittima. Cdobos precipitò verso quella gola violacea percosso dai detriti e bruciato dal sangue, ma ben presto estrasse la sua gigantesca spada dalla lama rettangolare e la conficcò d'un colpo nel marmo nero del muso del mostro. Vi fu un urlo terrificante ed all'improvviso esplose la pietra facendo comparire il cielo aperto. Accecato dall'improvviso bagliore Cdobos lasciò presa e cadde da quattro metri d'altezza fratturandosi così la caviglia. Ma prima che le zanne del Desderide potessero trafiggere il suo cuore d'acciaio, Cdobos si era già rialzato e con tre colpi di spada aveva mozzato un arto della belva. Il Desderide ferito fece un balzo all'indietro e centosette tentacoli pieni di aculei avvelenati si liberarono dal suo ventre raggiungendo e percuotendo senza pietà la carne ora a brandelli del cittadino d'Atene. Lacerati i muscoli ed i tendini di braccia e gambe, l'eroe azzannò con follia la carne bluastra dei tentacoli e ne bevette il sangue infernale. Qualsiasi essere umano normale sarebbe morto di una tale sostanza demoniaca: ma Cdobos non era un umano normale, Cdobos era un essere umano con uno scopo più importante del vivere stesso e qualsiasi umano capace d'un tale sognare ottiene grazie a questa dannazione il potere di mille olimpi in una sola mano. Rinvigorito strinse i tentacoli fino a fratturarli avanzando come lungo una corda per penetrare le viscere del male.
Disperata la creatura, presagendo la morte inevitabile, si lacerò le carni dorsali per farne due ali e scappare volando. La spada cadde ma Cdobos non lasciò presa, e continuò la sua terrificante avanzata. Sapendo l'eroe a pochi centimetri dai suoi dieci cuori neri pulsanti, la creatura si lasciò precipitare sulla terra ferma nella speranza vana di potersi salvare. Ma quando l'impatto della bestia ne distrusse lo scheletro, Cdobos stava già massacrando con i denti e con le unghia i cuori ricoperti di vipere bianche di questa creatura malsana.
Fu una morte lenta, atroce, agghiacciante e umiliante quella che colse il Desderide precipitato nella terra dei demoni Ctoni che ne dissacravano ora da fuori ogni parte. Nessuna folla gloriosa aspettava l'eroe finalmente fuori da quelle viscere, ma solo un'orda affamata di esseri altrettanto malvagi. Demoni cani, ciclopi, arpie, chimere, pipistrelli assetati di sangue: questi erano coloro che, sperando nel corpo esausto di Cdobos, lo osservavano vincitore ed eroe pregustandosi il sapore eccelso di quella carne. Impaziente un ciclope strappò una colonna dalle rovine di un tempio dissacrato e la lanciò addosso a Cdobos. Ma l'eroe strappò due costole del Desderide e ne fece due armi con le quali tranciò in due la colonna. Cdobos poi subito lanciò a sua volta una delle due ossa gigantesche appena strappate al Desderide che trapassò così la gola del gigante.
Per altri sette giorni Cdobos lottò senza pari, facendo risuonare nel cielo un requiem fatto di urla demoniache tali che si provava quasi pena per loro. Ucciso il Desderide, liberato dai demoni il territorio, Cdobos si mise in viaggio verso la sua città natale.
Dovunque si sparse la voce di queste gesta incredibili, tutta la Grecia fu grata a Cdobos della sua incredibile impresa. Si organizzò in suo onore il più grande banchetto mai visto, migliaia di greci aspettavano il ritorno dell'eroe sulle sponde del ponte che divideva il territorio dei cittadini da quello delle creature del male. Persino l'abisso di Ade sotto quel ponte di ossa sembrava quieto ed in ammirazione di questo eroe ateo. Cdobos quasi pianse di gioia dinanzi tale spettacolo che sapeva avrebbe reso orgogliosi il padre e la madre tanto amati.
Improvvisamente però un'arpia, ultima sopravvissuta della sua specie, nascostasi fino ad allora, gli piombò addosso probabilmente aspettando proprio questo momento per fargli perdere l'equilibrio. Ma Cdobos non fu preso alla sprovvista, la prese in volo con una mano quasi fosse un grosso pollo ridicolo, e mentre avanzava lungo il ponte pericolante rideva strappandone le piume e gettandola giù nel vulcano di sangue. Venti passi mancavano oramai al rientro tanto sperato a casa, e nulla poteva impedirlo ormai. Poi tranquillo e un po' sbadato, pigro, attratto dal cibo zuccherato, un grosso calabrone passò proprio sotto il naso di Cdobos, gli gironzolò un po' intorno, e se ne tornò nel suo boschetto vicino. E così l'eroe, il vero eroe, proprio perché non era un impostore, fu terrorizzato, si agitò, perse l'equilibrio e cadde.
Increduli poiché ignoranti e codardi, tutti quanti decisero di dimenticarlo, di dare come al solito a qualche divinità il merito del duro lavoro e della passione di un uomo. Io però me lo ricordo e sempre mi ricorderò di Cdobos: l'eroe ateo spaventato, come me, dalle vespe, l'Uomo che salvò il mondo.

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