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Tuesday, 14 October 2014 00:00

Sono dietro di te (parte 3)

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Dunque, vi ho raccontato dei miei film/gioco, tutta una produzione pseudo letteraria che letta a distanza di anni mi è sembrata solo robaccia, fino a quando un giorno non mi è ricapitata tra le mani la storia che vi ho poco fa raccontato (Il mostro che mangiava le bambole). Rileggendola nel lontano 2001 ho cercato disperatamente di rivivere un’esperienza del genere e fortuna ha voluto che pochi mesi dopo incontrassi Martina, una vecchia fiamma delle medie.

Anch’essa come Samantha era uscita da poco da una lunga relazione con un ex possessivo e violento. Confortarla è stato facile, non mi sembrava vero di poter rivivere sul serio, nel mondo reale, una mia creazione dell’età puberale, quando gli ormoni galoppano. A contatto con lei i miei ormoni sono tornati al massimo, mi cavalcavano in testa, ma sono stato bravo nonostante l’inesperienza. Martina si è subito sciolta. Siamo stati una notte intera insieme, senza preoccupazioni e soprattutto senza nessuno che sapesse del nostro fortuito incontro. L’ho decapitata verso il mattino, in casa mia. Il corpo lo lasciai sui binari del treno mentre la testa la buttai nel cassonetto dei rifiuti. Ricordo che quando il corpo venne ritrovato sudarono sette camice per identificarla visto che non aveva segni particolari ma, non so come, poi ci riuscirono. La cosa strana invece è che la testa non fu mai ritrovata, il che mi fa avere qualche perplessità sull’efficienza del sistema di smaltimento rifiuti del nostro paese. Comunque, quello fu il mio primo delitto. Martina …  bella ragazza, e che testa!
Fu un omicidio del tutto arbitrario (spiegherò in seguito cosa intendo per arbitrario), cosi come il secondo. Niente di straordinario. Vi ho detto che da tempo stavo cercando una preda per sfogare le mie fantasie adolescenziali e cosi incominciai a bazzicare il giro delle battone. Poi mi capitò il colpo di fortuna con Martina, ma dopo il suo omicidio pensai che valeva la pena raccogliere comunque quello che avevo seminato nel mentre. Avevo infatti frequentato assiduamente nell’ultimo mese una certa Jessica, puttana d’alto bordo, 19 anni, ucraina. Si accompagnava solo a clienti facoltosi che arrivavano in Mercedes e BMW. Io però facevo il timido (anche se in realtà lo sono davvero) e suscitai la sua simpatia. Cosi, dopo il “fattaccio Martina” mi decisi a fare il passo decisivo e, anziché consumare in macchina, come al solito con lei, feci in modo da portarmela a casa. Mi accorsi che quella notte lavorava in zona anche una certa Fanny e non era razionale lasciare una testimone che ci aveva visti allontanarci insieme in macchina, cosi decisi di caricarle su entrambe dicendo loro che quella notte non avrei badato a spese perché in vena di festeggiamenti per la promozione a lavoro. Fanny la uccisi a notte inoltrata mentre Jessica dormiva nel mio letto. La disinibita Fanny si era alzata per fare un goccio di pipi, la seguii in bagno e la strozzai. Era così assonnata che arrivò sulla tazza del cesso barcollando, non oppose nessuna resistenza. Ricordo perfettamente la sua faccia di cazzo mentre la strangolavo. Mi accorsi poi con soddisfazione che il mio intervento servì anche a farle fare un po’ di cacca. Tornato in camera da letto, la dolce Jessica dormiva ancora. Me la volevo godere, allora la legai alla spalliera e le segai pezzo per pezzo tutti gli arti. Poi, mentre era ancora viva, con un grosso martello emulai le gesta di John e la presi a martellate nello stomaco. Vomitò tanto la dolce Jessica. Aspettavo che dicesse qualcosa stile Samantha prima di sgozzarla. Avevo sempre fantasticato sulle ultime parole che un essere umano potesse pronunciare in punto di morte violenta. Avevo il sentore che in preda al dolore e alla follia, durante gli ultimi attimi di vita, quando la ragione ti sta abbandonando, non si dicessero le solite frasi tipo: “Aiuto, non lo fare, ecc …”.
Avevo aspettato anche con Martina prima di decapitarla, ma invano, non proferì parola, urlava e basta. Invece Jessica non mi deluse. Nel suo totale caos mentale, tra la vita e la morte, mentre il seghetto stava iniziando ad affondare nella gola, disse per ben due volte, con gli occhi assenti e con voce spenta ma chiarissima nonostante il suo accento ucraino: “Fammi passare, fammi passare”.  Ricapitoliamo la scena, Jessica era solo testa e busto, gli arti mozzati, ricoperta di sangue e vomito e la frase che disse prima di morire fu: “fammi passare”. Avevo avuto ragione, niente frasi tipo: “non mi uccidere” e “pietà”, ma invece una frase apparentemente del cazzo. Lei, senza gambe, voleva che la lasciassi passare. In effetti, anche se bizzarra, ha il suo perché. Era un modo per dire lasciami andare. In quelle condizioni, con la mente appannata, era un’espressione comprensibilissima, voleva andare via di lì ed io le ero di intralcio. Comunque non la feci passare. Liberarmi dei loro corpi non fu nemmeno questa volta difficile. Me le caricai in macchina e le riportai semplicemente dov’erano. È strano come nei film queste cose sembrino cosi difficili. La logica del reale è molto più semplice; tesi: nessuno mi ha visto quando sono venute da me, antitesi: nessuno mi ha visto quando ho buttato due sacchi neri sul marciapiedi, sintesi: non mi prenderanno mai. Tutto questo avveniva nel 2001. In questi 10 anni ne ho ammazzata di gente; puttane, vagabondi ed umanità varia, ma le cose, dopo il duplice omicidio Jessica-Fanny, sono cambiate. Pochi giorni dopo infatti mi ritrovai a leggere un altro mio vecchio racconto, anche questo un classico dimenticato. Sapete com’è, verso i tredici anni iniziarono ad uscire le consolle e così il tempo dei giocattoli fu accantonato, ma i quaderni erano stati conservati. Leggendolo mi accorsi che mancava qualcosa ai miei delitti: il giusto equilibrio tra amore ed odio.

 

ATTIMI DI FOLLIA

Dick è un impiegato annoiato che vivacchia tutta la settimana per poi sfogarsi il sabato sera.  Beve, fuma hashish e si accompagna a balordi di ogni genere. Dal lunedì al venerdì invece è impeccabile, col suo vestito grigio, rispettoso della morale comune. Ma il sabato no. Il sabato è sacro, e deve fare il pazzo. Una notte incontra Sam, cinquantenne. Un uomo misterioso, mezzo filosofo diciamo cosi. Sam è in vena di esperimenti quella notte. I due parlano, della vita, della morte, del sesso … e di un omicidio. Dick ascolta e ribatte interessato. “Alla fine si filosofeggia soltanto”, pensa, “niente di concreto”. I due bevono e ridacchiano come vecchi amici, poi dopo un po’ Sam cambia tono e il discorso si fa più serio. Racconta che ha una sorella più piccola, 29 anni, che vive da sola con lui. È malata di un male incurabile, ma non vuol saperne di morire. Gli propone di aiutarlo quella notte. “Non ho il coraggio da solo, magari con un amico …”. Sam fa una breve pausa in attesa di una risposta che però non arriva, allora incalza: “Margaret, mia sorella, vive da sola con me da quando aveva appena 10 anni, i nostri morirono in un incidente ed io la accudii. Poi sei anni fa si è ammalata e da allora è rimasta a letto immobile. Non la sopporto più. Aiutami Dick. Non ci saranno conseguenze, nessuno si occupa di lei a parte me. Dirò che è soffocata per i muchi che ha in gola, sono io che le ripulisco il cavo orale ogni giorno”. “Ma allora non puoi aspettare che muoia da sola con questi muchi che le bloccano la respirazione?”. “Ci ho già provato Dick. Quella bastarda non muore. Se ne sta ore lì ad affannarsi per espellerli da sola, schizzando dappertutto quello schifo e non muore. Secondo me ha fatto un patto col diavolo, la stronza. Dobbiamo soffocarla con un cuscino” dice risolutivamente Sam . Dick ha lo sguardo annebbiato, forse non ha nemmeno capito bene cosa quell’uomo gli abbia effettivamente proposto e, senza troppa convinzione, gli risponde: “Mah … Andiamo a vedere, ok?”.
Dick è ubriaco fradicio. Probabilmente accetta più per mancanza di lucidità che per effettiva capacità di persuasione di Sam, e poi pensa: “è sabato cazzo, in questo giorno non ci sono regole”. Escono dal pub e si incamminano. Dick barcolla vistosamente. Per tutto il percorso i due non dicono una parola, poi finalmente arrivano a casa. Nella poco illuminata camera da letto di Margaret c’è un cattivo odore. La donna ha defecato, ma la puzza di feci è mischiata a qualcos’altro, qualcosa di marcio. Dick nota infatti delle vistose piaghe da decubito sul collo e sulle orecchie, ma non dice una parola. Margaret osserva il nuovo ospite con sguardo severo, poi rivolta al fratello con voce flebile e tremolante esordisce: “Sam, non mi va di scopare stasera”.
Sam imbarazzato accenna un leggero sorriso all’amico, poi gli dice: “Allora, te la senti? Te la vuoi prima fare?”. A sorpresa Dick afferra un cuscino mal riposto sul letto e la soffoca. Un lavoro di circa dieci secondi è bastato per spegnere Margaret. Sam è impietrito. Dick si appoggia ancora barcollante alla parete, poi singhiozzando dice: “E adesso?”. “Vattene!”. Dick, indifferente: “Ho fatto come volevi, no?”. “Vattene!”
Dick si allontana goffamente dal letto e prima di uscire dalla stanza esclama un’ultima frase: “Mi sono quasi divertito!”. Sam si siede accanto alla sorella, versa qualche lacrima, poi timidamente le accarezza le gambe fino alle mutandine e si adagia sul suo ventre.

 

CAPITOLO 3

Quando ho riletto questa mia vecchia storiella sono rimasto sorpreso. Ovviamente non ricordavo cosa avessi in mente quando la scrissi ed alcune parti mi hanno fatto pensare. Innanzitutto i personaggi sono molto, forse troppo, ambigui. Dick è un uomo, oserei dire, dalla doppia personalità. Perbenista e conformista al lavoro ed estremamente immorale ogni fine settimana. Il suo gesto di uccidere Margaret appare di totale indifferenza. Non si preoccupa più di tanto delle conseguenze, si fida delle rassicurazioni del compare che in fin dei conti è comunque uno sconosciuto. Non lo fa nemmeno per un gesto di generoso altruismo, infatti si mostra estraneo ed insensibile alla faccenda nel momento del rimpianto finale di Sam. L’unica possibile spiegazione che posso dare al suo incomprensibile comportamento è che fosse troppo ubriaco. Sam, dal canto suo invece, è forse il più confuso di tutti. È un uomo di mezza età, ma non sappiamo come viva. Ci è dato sapere soltanto che accudisce praticamente da sempre sua sorella, che negli ultimi sei anni si è ammalata (non si sa di cosa) e che adesso vuole sbarazzarsene, per poi averne rimorso o forse solo un attimo di tenerezza alla fine. Un rapporto tra i due parenti che appare forse incestuoso nell’ultima scena, probabilmente usava la sorella anche per tirare su qualche soldo, ma questa faccenda non è approfondita, è lasciata come semplicemente accennata giusto per dare un tocco maggiore di degrado e rendere più visibile il decadimento nel quale versavano i due fratelli. Per quanto riguarda Margaret invece la sua figura è al confine tra l’essere pensante ed un pezzo di carne inanimata che sta marcendo. Muore senza opporre resistenza (del resto però non è che potesse fare molto nelle sue condizioni) e i dieci secondi circa per sbarazzarsi della sua inutile vita sembrano davvero esigui (ci vuole molto più tempo per soffocare qualcuno, fidatevi), come se anche lei non aspettasse altro, infatti alla fine sembra forse non essere lei la vera vittima. I personaggi nel loro insieme appaiano quindi come uno specchio annichilito che si aliena dal quotidiano fatto di burocratiche luci del giorno per riflettere nella notte le immagini di mostri solitari e disorientati, che vagano tra l’indifferenza e la rabbia nella perenne e costante routine del mal di vivere.

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