“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 25 January 2013 15:14

Guardare, la vita

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Beckett si dedicò al teatro a partire dal 1947, la sua prima commedia fu Eleutheria, che rappresentò un momento di rottura nel panorama della produzione teatrale, poiché, applicando il rasoio di Ockham, si lasciava alle spalle gli elementi tipici della teatralità come quello dell’importanza del dialogo, entrando di diritto fra i più importanti esponenti del “teatro dell’assurdo”, il cui iniziatore fu considerato Ionesco con La Cantatrice calva.

Aspettando Godot, di cui ho apprezzato la regia di Cocifoglia e la bravura degli attori, fu invece pubblicato nel 1952 e rappresentato nel 1953 nel Théatre de Babylone con la regia di Roger Blin. La scena di muto iniziale preannuncia già il tema di fondo della pièce di Beckett: la  parola non sta più alla cosa, perde la sua capacità di comunicare, quasi come se l’autore, nel riadattamento di Fabio Cocifoglia, chiedesse allo spettatore di “non chiedergli la parola che squadri da ogni lato l'animo nostro informe, di non domandargli la formula che mondi possa aprire, sì qualche storta sillaba e secca come un ramo”. L’uso della didascalia, ovvero della descrizione degli oggetti e dei movimenti della scena senza che sia proferita parola, rappresenta proprio la chiusura ad ogni discorso razionale, che tenti di giustificare l’assurdità della condizione umana, dell’illogicità di un vivere il cui senso è il non-senso dell’omnia vanitas vanitatum della Vulgata.  Spariscono trama e intreccio, non ci sono antefatti, né le vicende sono tra loro collegate, non c’è infatti bisogno che si abbia contezza delle storie individuali dei personaggi, ciò che si vuole trasmettere è l’universale senso di sgomento, di sconforto, di ansia e di rassegnazione, che rappresentano la costanti di un mondo indecifrabile ed ermetico, in cui  gli uomini contemporanei si muovono come degli automi. È il caso dei personaggi di Aspettando Godot, che parlano per non dire nulla, perché nulla possono le loro parole, se non riprodurre, attraverso il vano chiacchiericcio, il vacuo e interrotto flusso della vita. La svalutazione del linguaggio e la sua subordinazione a ciò che accade sulla scena rappresenta la trasposizione teatrale di un atteggiamento mentale che filosoficamente si definisce fenomenologico, e che consiste nella necessità di focalizzare l’attenzione su ciò che si mostra, di affermarlo come esso si dà e solo nei limiti in cui si dà, senza la necessità di costruirci interpretazioni, sempre smentite dalla triste realtà dei fatti. L’atteggiamento che ci si richiede allora è quello di assistere alla vicenda di Vladimiro ed Estragone, con la mente sgombra da pregiudizi, perché ciò che verrà mostrato, al di là di tutte le teorie e di tutte le interpretazioni, sarà la vita in tutta la sua evidenza. Il testo presenta due vagabondi, Vladmiro ed Estragone appunto, che trascorrono due giornate aspettando che arrivi un non meglio identificato Godot. Le giornate sono scandite da discorsi insensati di attori che chiedono persino la replica (“Dài Gogo, bisogna darmi la replica di tanto in tanto") come se avessero un messaggio da comunicare, ma non riescono in realtà nemmeno ad identificarsi: nulla infatti sembra essere sicuro, non c’è certezza nemmeno di quello che si è detto o fatto un secondo prima. La situazione in cui si è gettati è quella dell’immobilità più completa a cui né il dialogo né l’irruzione di personaggi come Pozzo, riescono a dare una svolta, lasciando così lo spettatore insoddisfatto nella sua sete di senso. L’attesa è l’unica costante in un succedersi incoerente di battute in cui alle banalità si alternano frasi fatte e gratuite. Si attende Godot, ovvero per molti interpreti Dio (God), un Dio che si è rivelato per nascondersi due volte (ri-velato velarsi due volte), un Dio che, inaccessibile, ci offra una via d’uscita, ci salvi dalla dannazione dell’eterno ritorno dell’insensato, perché l’uomo non sarà mai l’oltreuomo in grado di dire “sì” a tale insensatezza. Solo l’incosapevolezza, allora, può salvare Vladimiro e Estragone che, ben interpretati da Rosario Sparno e Luca Iervolino, non vogliono mai realmente sapere cosa accade loro e preferiscono presentarsi come giullari intenti l’uno a “giocare” con le sue scarpe (“Ecco gli uomini se la prendono con la scarpa quando la colpa è del piede") l’altro con la sua bombetta, nell’attesa di una morte che “si sconta vivendo”.  Ai delusi dalla pièce di Beckett, ottimamente riadattata da Fabio Cocifoglia, scontenti perché non vi hanno trovato il tipo di trama tradizionale, non posso che dedicare la parole di Sylvain Zegel che sul quotidiano Libèration scriveva: “ Forse alcuni brontoloni si saranno lamentati del fatto che è una commedia in cui non capita nulla... o perché usciti dal teatro, non avranno saputo farne un riassunto... avranno sentito usare le parole di tutti i giorni e non avranno capito che per un miracolo inspiegabile che si chiama arte quelle parole improvvisamente assumevamo un nuovo valore. Avranno visto dei personaggi che erano felici e che soffrivano, e non avranno capito che guardavano la loro vita”.

 

Aspettando Godot

di Samuel Beckett

adattamento e regia Fabio Cocifoglia

con Massimiliano Foà, Luca Iervolino, Rosario Sparno

Caserta, Teatro Civico 14, 20 gennaio 2013

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