“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 21 June 2014 00:00

La prima volta

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Ricordo la prima volta come fosse ieri, come fosse ora, come non sarà mai più, e so bene che di nostalgia si patisce come girasoli all’ombra morituri no, ma vivi e immobili e stanchi e tristi accanto ai salici piangenti non più senza motivo ma per loro, i girasoli dall’ombra funestati come me, rosi dalla nostalgia.

Io quella prima volta non ero precoce né talentuoso né originale né predestinato all’immortalità della plastica ben conservata solida dalle forme gaudenti colorate erotiche, quella plastica sottovalutata che nessuno ci pensa mai ma poi se non è per sempre lo è tanto tanto tanto a lungo e vi dico che non la invidio che gli dèi pativano al punto da dover lasciare la bellezza perfetta dell’infinito per questo mondo osceno perituro disgregato e manco si sa se muore o no, il mondo; ma sì, muore il sole muoiono le stelle anche il mondo a suo modo muore.
Io mi concentrai sul tallone che spuntava dalle scarpe nere con le zeppe e di pelle e tenni d’occhio quel tallone tutta la sera e capii cosa vuol dire il tallone d’Achille il pelide della cui sventurata vita feci a suo tempo versione in prosa e lessi senz’anima perché proprio non capivo un eroe così tanto eroe del quale l’elemento più importante e decisivo era un tallone: cioè non potevo proprio concepire una grande storia alla base di tante e tante e tante storie, ai primordi della Storia, che alla fine era la storia di un tallone e nient’altro.
Le piccole parti, i particolari, gli elementi trascurabili, poi scopri che fanno la differenza e così fu, per me, la prima volta.
Lei aveva un abito lungo nero che scopriva la schiena ritta ed elegante di chi non si è mai piegato al giogo della gravità che da sempre storpia le schiene le inarca le ingobbisce con tale perfezione da rendere la tensione al gobbo una prospettiva in essere ma lontana e forse irraggiungibile perché la vita è breve e il nostro corpo muta troppo e troppo e non ci piacerebbe come la vecchiaia che ci insegue e ci raggiungerà e per fortuna grazie alla chirurgia alla cosmesi e a tant’altro è sempre più breve e verrà il giorno in cui essa, la vecchiaia, non esisterà più; tanto il mondo, ad oggi, sta morendo, e noi campiamo sempre meno.
Era bella, meravigliosa, di oggettiva bellezza e di simpatia e intelligenza affatto disprezzabili, anzi, e io in principio la guardavo negli occhi emozionato che lei stava lì per me solo e mi piaceva e pregustavo la fine della cena e tutto il resto che si può immaginare.
Avevamo poco più di vent’anni.
Sarebbe stata la mia prima volta.
Poi volsi lo sguardo ai piedi e vidi quei talloni: grandi, con la pelle schiacciata e a strati che pareva un hamburger McDonald e squamati e incartapecoriti quasi e mi accalorai e iniziai a sudare e fissavo quei talloni e lei parlava e io non ascoltavo e dicevo parole a caso e lei rideva e io non ridevo mi asciugavo la fronte parlavo a razzo di cose che non ricordo e fissavo i talloni che spuntavano dalle scarpe sotto la sedia e avevo la sensazione che qualcosa di tremendo sarebbe successo e persi tutto l’amore del mondo, tutto, e fui corroso dal disgusto dal senso di insostenibile dall’impotenza dall’orrore e tutto rischiava di crollarmi addosso, per un tallone.
Quello che ho fatto dopo, già lo sapete.
Fu quella la mia prima volta.
Le volte successive vennero perché desideravo ripetere quella potente sensazione del crollo di tutto perché mai e mai e mai mi sono sentito tanto pieno di potenza dentro tale da poter corrodere tutto quanto mi sta sempre appiccicato addosso, cioè la vita, perpetua speranza di toccare le vette dove risiedono quegli dèi che un tempo ci onoravano della loro presenza si mischiavano a noi ci ricreavano ma poi un giorno non si fecero più vivi, né il secondo, né il terzo, né mai più, e io vivo per depotenziare il grigio quotidiano per creare l’abisso la crepa la faglia da dove emerge tutto ciò che non vediamo, e io so che quella prima volta accadde tutto e io so che ne è sempre valsa la pena di provare a rivivere con la morte assurda a ulularti da dietro.

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