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Saturday, 07 June 2014 00:00

Intervista ad Alberto Moravia: il teatro è un romanzo

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"E i teatri non mi sembrarono mai così belli, a Segeste, a Ostia, a Epidauro, a Delfo, come quando li vidi vuoti e morti; caldi di sole, con le lucertole guizzanti per le pietre e le erbe fervide d'insetti; deserti di spettatori per tutto il fitto sgretolio dei gradini rovinati; con la campagna distesa e silenziosa là dove, oltre il proscenio, un tempo si erano agitati con visi coperti da maschere i piccoli uomini dalle voci cavernose" e...
“Cosa sta facendo?”

La citavo.
“Lasci stare. Cominciamo”


Come desidera. Signor Moravia, La disturbo perché una mia collega di giornale mi ha messo una pulce nell’orecchio: ha scritto (http://www.ilpickwick.it/index.php/letteratura/item/944-%E2%80%9Cgli-indifferenti%E2%80%9D-un-dramma-mancato) che il suo romanzo “ha ritmo fortemente teatrale”, che i “dialoghi sono incisivi e diretti”, che vi sono “continue entrate e uscite” e che i personaggi si muovono “da una stanza all’altra”, cioè soltanto in interni. Ha poi scritto, la mia collega…
“Non la faccia lunga, che non ho tempo. La sua collega ha ragione. Cosa vuol sapere”.


Vorrei sapere fino a che punto Gli indifferenti sono anche un’opera teatrale. Comincerei dalle prime due parole del suo primo romanzo: “Entrò Carla”. A me, Le confesso, pare una didascalia da testo drammaturgico…
“Chieda alla sua collega, che certamente avrebbe potuto risponderle come adesso farò io. Non nego: ho cominciato a scrivere Gli indifferenti che non avevo ancora diciassette anni. Ero a Bressanone, disteso sul letto. Mi venne la frase, breve, che Lei ha appena citato: ‘Entrò Carla’. Non sapevo ancora cosa avrei scritto. Pensandoci... quella frase stava forse a indicare la mia ambizione di scrivere un dramma travestito però da romanzo. Già, forse volevo fondere la tecnica teatrale con la narrativa”.


Questo lo ha scritto anche Jennifer.
“Chi è Jennifer?”.


La mia collega. Ha scritto: “fondere la tecnica del romanzo con quella del teatro”. Dunque, a diciassette anni, non ancora compiuti, sapeva già di voler fondere la tecnica scenica con la narrativa?
“L’ho appena detto, mi pare: non sapevo cosa avrei scritto. Ma so, ora, che avevo una sorta di vocazione teatrale. Le mie prime letture, d’altronde, sono stati Molière, Čechov, Goldoni e Shakespeare; tanto Shakespeare. E poi c’era Dostoevskij… “.


Dostoevskij?
"Sì, Dostoevskij… ha presente, vero, Fëdor Mihàjlovic Dostoevskij? Lo conosce? Sa chi è? È senza dubbio lo scrittore che ha avuto più influenza su di me. Ebbene, Dostoevskij è il più teatrale dei romanzieri russi dell’Ottocento. Su questo non c’è da discutere, mi pare”.


Scusi se insisto: Lei ha, a meno di diciassette anni, un’ambizione drammatica; legge Čechov, Molière, Goldoni e tanto Shakespeare; scrive su foglio una didascalia… perché ha composto un romanzo e non un copione per il palco?
“Innanzitutto – cosa che non può sapere perché sono carte segrete, prove e composizioni rimaste in fondo a un cassetto – c’è una paginetta che anticipa Gli indifferenti e che ne è piccolo studio: s’intitola, se non ricordo male, Dialogo tra Amleto e il Principe di Danimarca: c’è Amleto che interroga, in dialogo furente, la propria coscienza e… lasciamo stare, magari lei non sa neanche chi è Amleto: mi ha chiesto perché mi sia dedicato al romanzo piuttosto che al teatro, vero? Perché il teatro, allora come ora, non era più cosa viva, anzi: era cosa già morta… “.


Ed infatti Lei fa dire a Kurt, protagonista di una sua pièce, “La tragedia è morta” …
“… La tragedia è morta, viva la tragedia!”: questo faccio dire a Kurt. Bene, qualcosa ha studiato. Ma stavo spiegando che… sì, che il teatro è cosa morta. Perché ci sia del grande teatro occorre che ci sia una società teatrale cioè composta, come ai tempi di Čechov o Shakespeare, di registi, di pubblico, di attori, di autori, di critici... Ebbene, questa società allora non c’era e, tantomeno, mi pare ci sia oggi. Il cinema e la televisione hanno preso il posto del teatro come spettacoli di massa e questo è gravissimo”.


Perché ritiene sia gravissimo?
“Perché, senza il teatro, certe cose non si possono dire. È il teatro la forma d’arte suprema, il luogo religioso, laicamente religioso, nel quale l’uomo s’interroga sui grandi problemi dell’umanità. Il teatro è nato nell’antica Grecia, non come il romanzo, ch’è nato tra le strade di Spagna e nei salotti d’Inghilterra…”.


Ma se pensa questo, perché s’è dedicato di più al romanzo? Non sarà perché, come ha confessato una volta, considera “Il successo teatrale meno soddisfacente del successo con i romanzi”?
“Non è proprio così, se permette. Occorre essere precisi, se si vuol fare i giornalisti. Ho detto che il romanziere non sa chi leggerà i suoi romanzi e, dunque, può farsi delle illusioni. Invece lo scrittore di teatro basta che si affacci, prima della rappresentazione, da un angolo del sipario e vedrà in faccia tutti i suoi spettatori, perdendo così ogni illusione: il pubblico del teatro è molto più ignorante, meno affezionato, meno sensibile, più distratto di quello, ad esempio, del cinema. Si tratta infatti di persone che, il più delle volte, vanno a teatro per dovere sociale o perché non hanno niente di meglio da fare e che interpretano il teatro come uno spettacolo di sublime artigianato, cui occorre presenziare per distinzione ideale. Ma lei mi fa parlare di questo e non mi fa dire ciò che conta…”.


Cos’è che vuol dire, di cosa vuole parlare?
(Un sospiro, veloce e infastidito)
“Allora: Io divido il teatro in due grandi categorie: quella della parola e quella della chiacchiera. Nel teatro della chiacchiera i personaggi dicono cose insignificanti, quotidiane, come in Čechov, oppure dicono poco o niente, come in Beckett… conosce Čechov e Beckett, vero? Lei dice sì, io ne dubito, ma andiamo avanti. Il dramma si svolge fuori dalla scena, ma la chiacchiera quotidiana con la quale si esprimono i personaggi sulla scena ha la qualità di proiettare delle ombre drammatiche come gli oggetti in controluce. Il teatro della chiacchiera finisce in teatro del silenzio mentre…”.


E
il teatro della parola?
“Se non m’interrompe glielo dico… nel teatro della parola invece, che è il teatro tradizionale, il dramma si svolge sulla scena, il discorso quotidiano è ridotto al minimo, ma quel minimo deve valere tantissimo. Ecco: la mia scrittura è teatro della parola: il dramma non tace, ma deve essere più forte del vivere quotidiano”.


Vediamo se ho capito: il suo teatro, ovvero la sua scrittura, vive di una scena (sia pure cartacea) in cui si dicono parole dall’alto valore referenziale che…
“Senta, gliela rendo più semplice: sa come ho scritto davvero Gli indifferenti? Componevo una pagina, disteso sul letto di un sanatorio, tenendo il pennino rovesciato, spesso bucando la carta e sporcando d’inchiostro le lenzuola… scrivevo una pagina e la controllavo all’orecchio. Cioè io cominciavo dall’orecchio (quasi riprendendo la tecnica dei cantori), ascoltando quello che scrivevo. Scrivevo e ascoltavo e, ascoltando, cominciavo a vedere. Ha compreso? I miei romanzi sono oralità fatta visione”.


Ho compreso. Quindi possiamo dire che i suoi romanzi sono teatro…
“Quindi possiamo dire che, essendo il mio ideale letterario la fusione tra tecnica teatrale e tecnica narrativa, i miei romanzi sono in realtà dei drammi travestiti. Li ha letti, i miei romanzi? Li ha letti o no? Ebbene: pochi personaggi, unità di tempo e di luogo, poca analisi, cioè molta sintesi, cioè azione…”.


Eppure Roma, come ambientazione…
“Lasci stare Roma, per carità: per me Roma è solo un fondale di teatro! Si concentri, piuttosto, sui pochi personaggi e l’unità di tempo e di luogo, ed il dialogo, l’azione, le situazioni teatrali… spii la punteggiatura, che sovente è irregolare perché l’aggiungo sempre dopo aver scritto, dopo cioè aver udito e visto la scena”.


Quindi tra il romanzo che ha scritto e il teatro che poi ha composto…

“Senta: il teatro in sé mi ha sempre appassionato, ma non sarei mai arrivato a scrivere per esso, se non avessi visto apparire sempre più frequente il dialogo, fin quasi a consumare tutte le parti descrittive e propriamente psicologiche”.


Questa consapevolezza di poter anche scrivere direttamente per il teatro si è manifestata poi dopo, se ho ben capito, scrivendo altri romanzi.

“Per una volta sembra quasi aver capito. Vidi affiorare questa esigenza mentre scrivevo La noia, mentre in La noia scandivo nel dialogo l’azione stessa. Mi accorsi che tutto era superfluo, tranne quel che i personaggi dicevano. E allora perché continuare a scrivere romanzi? Questo lo dico ora, pensandoci un po’ sopra, parlandone con lei… Ma è anche vero, ora che ci rifletto, che con L’attenzione lo scrivere narrativa provocò in me qualche crisi. In più, credo, che con l’età l’uomo acquisti una capacità di astrazione sempre maggiore, che i sensi si raffreddino e che la mente diventi più sottile. Queste, sono convinto, sono le qualità che servono per scrivere teatro e, queste qualità, sentivo che sempre più si impossessavano di me”.


A questo punto dovremmo parlare dell'avventura della Compagnia del Porcospino, che condivise con Dacia Maraini ed Enzo Siciliano, fondatrice – scusi, leggo dal manifesto d'allora, pubblicato su Sipario (n.246, 1966) – di "un teatro dove le idee hanno un ruolo preminente, divenendo esse stesse azione, a rischio di farsi schematico, simbolico e didascalico". A quali autori vi ispiravate?
“Eravamo attratti da Ionesco, che era il caso più riuscito e che ha contribuito al rinnovamento del teatro contemporaneo. Ma accettavamo anche l’insegnamento di Brecht e Pirandello cercando di rivendicare il senso della loro opera al presente, angoscioso aberrante mondo neo-capitalista. Ma io parlo e forse lei non sa neanche chi sono Ionesco, Brecht e Pirandello. È mai stato a teatro?”.


Qualche volta…

“Figurarsi”.


Possiamo, adesso, parlare dei sei drammi veri e propri e degli atti unici che ha composto…
“A questo punto sa che deve fare? Vada a rileggersi l’articolo della sua collega e poi si legga (perché secondo me non lo ha mai neanche aperto) Gli indifferenti, in particolar modo i primi quattro capitoli, da pagina 3 a pagina 38. Un salottino, la madre e la figlia, il figlio e l’amante; una tavola male imbandita, una cena, un paralume, una lampada e, come faccio dire a uno dei personaggi, ‘l’indegna commedia’. Si rilegga questi capitoli, se li rilegga: ci troverà non soltanto il senso di tutto il romanzo, ma il senso di tutta la mia produzione. E ci troverà il mio teatro migliore, il mio unico vero teatro”.


Allora rileggo… Ma sa che Jennifer – la mia collega – ha scritto che Gli
indifferenti è “una sorta di commedia mancata in cui i personaggi necessiterebbero solo del soffio della vita per poter inscenare quella grande farsa grottesca che è la loro esistenza, soffocata com’è dalle convenzioni, dalle ipocrisie e delle falsità tipiche della forma mentis borghese degli anni del fascismo”? Secondo lei…
“Secondo me la prossima volta – per il bene del giornale – è meglio che il direttore mandi la sua collega a fare l’intervista. Lei, mio caro giovanotto, ne sa poco. Legga, Legga. Pensi invece a leggere. Faccia come le ho detto…”.

 

 

 

 

NB. L'intervista impossibile ad Alberto Moravia − fatta eccezione per gli incisi colloquiali − è interamente composta da citazioni tratte da opere dello scrittore romano o da altre interviste che lo stesso ha rilasciato: quand'era in vita, naturalmente. Nulla, in termini contenutistici, è stato arbitrariamente aggiunto da chi firma questa invenzione, nelle sue parole veritiera.

 

 

 

 

Alberto Moravia - Alain Elkann
Vita di Moravia
Milano, Bompiani, 2007
pp 289


Alberto Moravia
Teatro
a cura di Aline Nari e Franco Vazzoler
Milano, Bompiani, 1998
pp. 894


Renzo Paris
Moravia. Una vita contro voglia
Milano, Mondadori, 2007
pp. 324


René de Ceccatty

Alberto Moravia
traduzione a cura di Sergio Arecco
Milano, Bompiani, 2010
pp. 972

Enzo Siciliano
Alberto Moravia. Vita, parole, idee di un romanziere
Milano, Bompiani, 1982
pp. 252

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