“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 13 May 2014 00:00

Due brave persone

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Oggi sarà un giorno incandescente, disse fissando il disco rosso che stava salendo. La luce si diffuse per la casa come un’onda di marea, con ritmo incessante e implacabile, spegneva ogni rigurgito di tenebra nelle stanze soffocanti. Nascosta dietro la tenda, ancora in vestaglia e con in faccia la pesantezza di una notte di sonno, vide sulla strada due uomini strani barcollare esausti sotto il sole che cominciava ad arroventare.


Un giorno di inizio estate alle porte del villaggio entrarono due uomini strani, erano alti e vestiti di stracci, secondo l'uso di tempi disastrati, epoca di grandi epidemie e carestie, mostravano scarpe logore come se ne vedevano da tempo. Osservandoli con attenzione studiata, ben dissimulata tra le righe luminose e accecanti delle persiane e dietro le tende appena scostate, odoranti di muffe e polvere, non era facile capire il motivo per cui apparivano strani, ma lo erano indubbiamente, seminavano il panico al loro passaggio. Viandanti solitari, una coppia di vagabondi. Buoni a perdersi più che a trovarsi. Pensieri cupi e assennati passavano nelle menti della gente del villaggio mentre i due stranieri sfilavano lungo il corso principale portandosi dietro il malaugurio.

Si fermano proprio davanti. La signora Callan li squadra. Occhiacci da civetta. Quelle civette impagliate che piacciono tanto a Tom, quando si dimenano dagli spalti del teatro, li annusa come fossero cani puzzolenti di rogna. I due tizi si tolgono il cappello con aria affabile, ma splende nei loro visi rugosi una luce ironica, o forse sono scherzi del sole. Il sarcasmo rovina sempre tutto. Dietro la tenda osservava i due barcollanti uomini che si guardavano attorno, valutando cose e persone, come se stimassero di vendere tutto.

La signora Callan, moglie del farmacista li incrociò proprio di fronte alla casa degli Anderson, due tizi bizzarri, dall’aria malsana che barcollavano oppressi da un carico di colpe. La signora Callan era donna timorata di Dio, squadrava ogni cliente del marito, teneva traccia di ogni sozzura accaduta nel villaggio in un grigio taccuino, anche delle sozzure venture, riconosceva il peccato, lo annusava. I due stranieri non la videro, attratti dalla casa di fronte. Passò lontano, allungando la strada come se si fosse spalancata un’orrida pozzanghera di fronte, e si sporse, li scrutò aggiustandosi il pince-nez sul naso lungo e affilato, tenne a mente per il suo taccuino perduto nella pochette che le dondolava lungo il fianco prominente. Portò la mano al crocifisso enorme che le danzava sul seno matronale e bisbigliò domine non sum dignus… loro le offrirono il saluto togliendosi il malconcio cappello, le labbra aperte in un generoso sorriso. La signora Callan allungò il passo e distolse lo sguardo come accecata dal sole, le pelle brucia sotto l’occhio implacabile di Dio, siate degni del suo nome domine non sum dignus… si rimisero il cappello dopo aver celebrato un inchino ironico come offerta agli sguardi malevoli della signora. Quando si calcò il cappello il più alto dei due vide la donna che li guardava dietro la tenda dalla casa di fronte, sputò in terra e alzò lo sguardo al cielo, la signora Callan colse in quell’inumidirsi le labbra e in quel gesto così irriverente i prodromi di un’imminente disgrazia e velocemente scomparve dietro la curva dell’orizzonte.

Eccoli, dio mio, guardano da questa parte, chiuse di colpo la tenda sollevando un nugolo di polvere che lentamente tornò a posarsi sul davanzale. Hanno bocche arse, secche come stoppie bruciate. Aria di guai, come se trascinassero dietro sé legato un pagliericcio truccato, un pagliaccio di  sventure. Si toccò le calze e le trovò smagliate come le sue mani. I bambini saranno svegli. Si tormentò le dita magre, uno dei due svetta magro, non bello ma alto, l’altro basso e tarchiato. Guardano, fissano la mia casa, forse mi vedono, come gli occhi di Dio, che vede ogni cosa che faccio. La gente del villaggio mi conosce nell’intimo come se fossi di vetro, sono un’anima che non corre pericoli perché il mio sangue splende della grazia del signore. Si morse un dito quando li vide esausti, provati, assetati avviarsi verso di lei, verso l’uscio dischiuso.

Risoluti si diressero verso la casa di fronte, laddove avevano indugiato sotto la tesa del cappello nel muto saluto alla signora Callan, benché in loro covasse l’indolenza, come uccelli in volo pigramente condotti dalla corrente dove vogliono andare, l’uno più alto dei due sembrava zoppo poiché aveva l’abitudine di pendere da una parte, attitudine diffusa presso gli alti che tendono a curvarsi come gli alberi, l’altro camminava con la testa all’insù come spesso capita ai possessori di pance prominenti. Il lungo aprì il cancelletto curvandosi in avanti, fece passare il corto e poi aprì e chiuse il cancello più volte l’orecchio teso al rumore cigolante, giunture anziane, da oliare, impacco di lino, le buone abitudini della sera. Il corto bussò alla porta mentre il lungo lo raggiungeva, si tolsero il cappello e si guardarono attorno sospettosi, la porta si aprì.

Bussano, malmessi e sudati come rottami dell’umanità di cui disfarsi. Sveglieranno i bambini. Meglio così. Non ho nulla da temere, nel caso. Urlare e fuggire, accorrerà una moltitudine, cavallette bizzarre, farfalle e vespe ronzanti, ubriache di polline, l’aria profuma, satura di fiori. Sistemò i capelli biondo chiaro sotto la leggera cuffietta, socchiuse la porta. Sporse appena il viso, emerse rotondo e piccolo, bianco cosparso di leggiadre efelidi dorate. Disse che non aveva nulla da dare, tempi cupi, vacche magre, in attesa di tempi migliori.

Si tenevano il cappello stretto al petto e porgevano le labbra secche alla piccola donna dietro la porta, dissero che non volevano nulla per niente, sapevano fare molti mestieri, potevano essere utili in casa, solo un pasto, dell’acqua, un bagno caldo, nient’altro. Tenevano lo sguardo basso ma di tanto in tanto alzavano gli occhi su di lei e segretamente percorrevano quel poco che vedevano con gli occhi, saziandosi la vista di quel che la donna offriva dietro la porta affacciata appena con le mani che serravano forte lo stipite e la porta, dita che diventano bluastre, l’ansia che si fa tensione e che diventa paura, folle terrore. Le facce scure dei due uomini improvvisamente buie, labbra piegate in una smorfia di insofferenza e poi improvviso il raggio di sole del mattino che li irradia e trasforma quelle maschere scure tenebrose che annunciano tempesta in franchi e cordiali sorrisi, comprensivi. Porsero il cappello e si inchinarono chiedendo scusa per il disturbo.

Se ne vanno già, timidi avventori, messaggeri di sventura, no, che folle idea, che sciocchi timori. Schiuse la porta finché non fu a metà del suo giro, si sporse e li richiamò. Ci sono dei lavoretti per voi, però solo per la mattinata, potete usare il bagno, vi darò da mangiare e da bere, venite. Si stagliò sulla porta mascherando la timidezza sotto la cuffietta bianca. Passarono accanto scontrandola appena, barcollanti ed esausti. Odore di strada, puzza di fienili e di campi, dormito sotto gli alberi o in qualche fosso, erba fra i capelli e insetti sulle ginocchia, si infilano sotto i pantaloni, ragni dentro le scarpe che calde fumano dopo tanto cammino, dormono sotto i capelli, nelle orecchie il fruscio del vento che scuote gli steli, le stelle sulla pelle a bruciare le imposture del giorno, l’aria fresca della notte che li avvolge come una tela di ragno, la rugiada sulle loro palpebre assonnate, fiori di campo curvi sotto le perle d’argento, riflettono le pupille nere dei viandanti ridesti. Li fece accomodare dentro, prese due sedie e li invitò a riposare mentre prendeva una brocca di sidro e due bicchieri.

Chiuse la porta non senza aver prima fuggevolmente adocchiato la strada in cerca di volti noti, chiacchieroni di paese, sollevò la testa verso la casa di fronte, alle imposte serrate, gelosamente custodite dalle mani avvizzite dei vecchi Roses, sepolti dietro le mura screpolate, come la loro pelle, pelle secca di lucertole stese al sole, nei campi della fattoria dei Losers, vecchie abitudini rinsecchite nei ritagli di tempo, canali che seguono la corrente, alberi di confine che si agitano al vento di un tornado che da lontano all’orizzonte mugghia, canali che si incrociano, acque scure che fendono i campi, li ricoprono di limo, sentore di bosco putrefatto, le vacche al pascolo che pigramente brucano, cacciano via mosche e tafani con studiati noiosi colpi di coda, il vecchio Roses che spinge l’aratro, le zolle spaccate, la terra che si sfalda e si apre al passaggio della lama, il tempo che tutto fa a pezzi, lentamente, solco dopo solco. Nervosa studia la strada silenziosa, deserta, nessun passo risuona, si tira la porta dietro dissimulando ansia. Si contorce le mani nel vestito che si alza sulle ginocchia, un attimo, gli sguardi dei due uomini colgono la nudità bianca al di là del ginocchio nodoso e scuro poi ritraggono vergognosi gli occhi che rimangono appiccicati come l’onta delle loro gote rossastre come macchie d’umidità sui muri attorno.

Il sidro è nella dispensa dietro le conserve, accanto allo zucchero, e alla bottiglia di grappa fatta in casa, lui non beve sidro, lui beve solo grappa fatta in casa dal signor Waco, un buzzurro giù a pochi passi dal fiume, baracca malconcia che divide con due marmocchi e una donna che non parla mai, zitta e santa, zitta e buona, tace e mal digerisce la miseria, dividere poco o dividere tanto fa poca differenza, sempre il peggio ti tocca, quando ti abitui al peggio il poco che strappi è nettare. Scosta appena la bottiglia e dietro sopra le briciole di pane e qualche rimasuglio di zucchero c’è la piccola chiave della cantina di sotto, la chiave del cuore, un posto buio dove andare a piangere, umido e saturo di ragni, là sotto i passi della casa risuonano sordi, tamburi di guerra che destano eserciti dormienti accampati lungo i bordi del paese, lui non lo beve il sidro, agita la bottiglia trasparente di vetro, il liquido ambrato oscilla, un piccolo mare agitato dove annegano mosche, inzuppate di dolce, mielate mosche nere, ali appiccicate, galleggiano come tronchi, andarsene a morire nel sidro, andarsene così con lo zucchero che cristallizza le tue ali, con il dolce miele che ti scende nei polmoni, annegata dissero, annegata come un piombo, trovata sul fondo, trattenuta dalle piante, amica del cuore, biondo grano, capelli che garrivano al vento come stanche bandiere, il suo sorriso profumava i suoi gesti, le sue mani mi toccavano il viso, sei bella diceva, sei bella e buona, ti amo, diceva e mi voleva bene come una sorella e mi baciava e mi teneva con sé, bel fiore strappato da mani rapaci, parassiti ti hanno disseccato, non più corse verso di me, non più fiori tra i capelli, dolce ambrata fanciulla, labbra zuccherine, ali bagnate.

Nettò due bicchieri con lo strofinaccio appeso al camino, versò il sidro ai due uomini, grossi e sgraziati nelle piccole sedie impagliate, allungavano i piedi malconci con rispetto, i grossi cappelli appoggiati sul tavolo. Dateli a me. Nel ripostiglio accanto al cappotto della domenica, sopra le scarpe verniciate, accanto al grembiule e alle scope. Sotto una grossa ragnatela di ragni neri, gambe lunghe, accovacciati nel buio, in attesa di una mosca, la luce trafigge il regno del buio, creature che strisciano, rumori furtivi, come di passi di amanti in fuga dalle alcove, di ladruncoli che frugano nella dispensa tra i barattoli e le conserve. I due uomini fissavano il tavolo e i bicchieri che vennero generosamente riempiti. Si fece silenzio, l’imbarazzo crebbe unito a una certa tensione che lei tentò di placare dicendo di tanto in tanto cose banali, osservazioni sul disordine, sul tempo, sul caldo, sul vento che continua a soffiare fino a strapparti la pelle di dosso e rivelare a tutti chi sei. Potete iniziare dall’erba sul retro, è alta, potete constatare voi stessi. Era nervosa e cercava di dissimulare l’ansia che la coglieva, inopportuna ansia che le faceva battere il cuore, e sollevare il petto a ondate, si ficcò le unghie nel palmo della mano per impedirsi di perdere il controllo. Non adesso, non ora, mantieni il fuoco, concentrati, nulla di male, nulla di cattivo, fai il tuo dovere di cristiana, si disse. E quegli uomini tacevano, di tanto in tanto brandivano il bicchiere con molta delicatezza e bevevano un sorso, sembravano pensosi e tacevano, tutto soppesando tutto vagliando allo sguardo apparentemente spento da viandanti sfiniti dalla cattiva strada percorsa. Se date un’occhiata noterete che è davvero molto molto alta e che bisogna tagliarla, lo farebbe mio marito certamente. Non voleva dare colpe al marito, non voleva sminuirlo agli occhi dei due forestieri.

I bambini di sopra, il pensiero le balenò vile alle sue spalle, la colpì dietro la schiena facendola trasalire. Trascuro i miei bambini, colpevolmente, mi intrattengo con questi sconosciuti taciturni, silenti convitati alla mia tavola, disegnano presagi oscuri con le dita, costruiscono barriere di briciole, giocano con le unghie del mignolo, guardano di sottecchi, il pericolo in casa, a pochi passi, ho chiuso fuori la salvezza mia, dei miei figli e della mia anima. Si scostò dal tavolo a cui si era appoggiata senza pensarci in una postura equivoca, profferta, penseranno che mi offra alla loro sete, che penso, i miei bambini, in balia di due sconosciuti, e io indifferente, non sento i loro pianti, le loro invocazioni. Bambini fatti a pezzi, con l’ascia, si contorcono insanguinati, pezzi sanguinolenti, strillano e piangono rossi di sangue, fatti a pezzi, barbaramente, sadicamente, morti fatti a pezzi, urlano e si dibattono a pezzi, morti, piangono, la loro bocca è oscenamente spalancata in un pianto a dirotto mentre gli occhi serrati di morti chiusi cuciti con i bottoni, li vestono di tutto punto, non hanno mai avuto abiti degni, sempre laceri e sporchi, mai orgogliosi di sfoggiare un bel vestito, sempre mocciosi dal naso sporco e dalle scarpe sfondate, e abiti troppo larghi o troppo stretti presi al mercato, roba usata, consumata astuzia.

Il silenzio spezzato, improvviso il suono della voce del lungo. Posso tagliare l’erba io, mentre lui, indicò il corto, si dedica ad altro. Fece una pausa, sospese il tempo. Lei si perdette nell’oscurità del terreno mancato, datemi un appiglio, qualcosa a cui reggermi, qualcosa di saldo che mi tenga ancorata al terreno, sicura da impacci, libera di essere ritta, pronta a sostenere il mondo e le sue crudeltà. La mente incrinata, pronta ad andare in pezzi ad ogni curvatura del tempo. Lui può dedicarsi ad altro, fece un sorrisetto allusivo. Lei impallidì, le mancò il fiato, si resse al tavolo come se sentisse la terra mancarle. Non è molto pratico di giardinaggio, e scoppiò in una risata aperta, scrosciante. Lei rifiatò, abbozzò un sorriso tirato, le labbra appena dischiuse. Il corto disse che soffriva di allergia e che starnutiva a raffica appena veniva in contatto con certe erbe, meglio evitare. Capisco, disse lei, arrossata in volto, le farò aggiustare il tetto della veranda, ci piove e noi dobbiamo sempre mettere un secchio sotto per evitare di allagarla. Sarah, la piccola, apparve sulla soglia della cucina, adorna di una bianca vestaglietta teneva stretto al collo il poppante ancora dormiente.

Povera piccola mia. Le andò incontro spaventata di vederla così piccola in mezzo ai forestieri che la fissavano sorridenti. Ghigni o sorrisi, hanno volti duri, induriti e ingialliti dalle intemperie, le asprezze della vita, potrebbero ferirla con le mani così segnate, pieni di calli, duri come sassi aguzzi, le aprirebbero le carni, esposte al sole morente, carni da macello appese, dilaniate sotto la mannaia, il macellaio Jones che strappa la carne con le mani la allarga con le dita facendo forza, mosche volano attorno, puzza di morte aleggia, pomeriggio caldo, le mie manine sudaticce in quelle di Ma’ che osserva compiaciuta il quarto di libbra che il macellaio avvolge nella carta gialla insanguinata, gli occhi di Sarah occhieggiano dalla testa di mucca appesa ai ganci a mo’ di trofeo, la testa della piccola Sarah attaccata ai ganci, ride, sghignazza, il macellaio è il forestiero alto, la tira giù e le offre una caramella. Le andò incontro e le strappò il bimbo dalle braccia che si svegliò e cominciò a piangere disperato. Sorrise ai forestieri. Ha fame, povero piccolo.

Lasciò la cucina e si appartò in una stanza attigua per offrire il seno al piccolo. Sarah rimase con i due forestieri. Le chiesero come si chiamasse. Lei disse il suo nome dondolandosi su un piede, si teneva le dita sporche in bocca vergognosa. Ti piace il sidro e scoppiarono a ridere, poi il lungo tirò fuori una cordicella da un taschino nella camicia lercia e lo fece danzare sul tavolo come un serpente. La piccola si avvicinò sorniona e glielo strappò di mano, poi fuggì ridendo nell’altra stanza. Il corto lo guardò e scosse la testa. Il lungo chiuse gli occhi e aspirò l’aria satura della casa, muffe, umidità, funghi e vecchi sentori di zucchero, vino e carne frolla.

Mangia piccolo mio, e tu non gridare, non fare confusione. La piccola Sarah roteava nella stanza srotolando la cordicella nera che aveva strappato al forestiero alto. Piccolo folletto aggraziato, sorrise tristemente, le piccole gambette ossute, tanto fragili, il dolore delle ginocchia la sera, mitigato dai baci e dall’acqua fredda col limone e lo zucchero, bevi piccola e dimentica, tutto dimentica, il dolore nel sonno, soffocalo nel cuscino, cullalo cullalo dolcemente come fosse il tuo bambino, placalo senza sgridarlo, il dolore ci ricorda che siamo vivi, impariamo dal dolore, senza il dolore non c’è crescita, impariamo dal dolore a sopportare il rigore degli stenti, la vita è una salita amara cosparsa di cocci aguzzi, impara a sanguinare composta e dritta, senza lacrime, stringi i denti e la bocca, cancella la tua gioia, impara a gustare l’amarezza degli anni. Le labbra del piccolo imperlate di latte, chiuse la camicia, nascose il seno bianco.

Il lungo prese ad affilare la lama della falce, con studiata dissimulazione fingeva di essere sbadato, faceva boccacce e smorfie alla piccola Sarah, giardino di delizie, lei si copriva la bocca rossa con il vestitino bianco lacero e si scopriva le gambe secche, bianche, venate di piccole venuzzole. L’uomo affilava la falce con la pietra, la intingeva nell’olio e poi la passava sulla lama digrignando i denti, lei lo vide alla finestra, il bimbo in braccio, la testa reclinata sulla spalla. Gli occhi del lungo emettevano bagliori, o era la lama che sbriluccicava unta d’olio al sole crescente. La lama si avvicinò pericolosamente alla testa della piccola, un raggio di luce la rese cieca. Corse alla porta sul retro sbatacchiando il poppante che si destò smarrito, prese a frignare mentre la madre arrancava verso il giardino sul retro e scorse tra l’erba alta il lungo che con ampie manovre falciava l’erba e la bambina intatta seduta sulla staccionata che divideva il giardino dai campi incolti della vecchia Jo.

Fissa la lama che taglia implacabile, lenta l’erba salta attorno al mietitore e ricade come neve al suolo, sparge un profumo acre, mosche e api ronzano nell’aria che comincia a farsi calda. Devo rammentare di mettere al fresco latte e formaggio. L’aria satura di calore e erba. L’erba macchia come il sangue. I pantaloni del lungo screziati di righe verdi. Dormi piccolo mio, dormi, quietati. La falce ha un profilo deciso, come il naso della Callan, aguzzo come il becco dei corvi che sorvolano l’orizzonte portando il malaugurio. Nonna e le sue filastrocche. Sorrise al ricordo della nonnina bianca e piccola, gote imporporate. La cara nonna affetta dalla gotta, i dolori atroci serbati nel cuore, le labbra che si facevano sempre più secche e tirate dietro l’ombra di un sorriso spento, il fuoco è spento e lo capisci anche se sembra acceso, non dà più calore, dietro gli occhi si vede il buio, luce dipinta, riflesso di una luce morta da tempo che ancora ci giunge, l’umanità è una stella morta, mandiamo bagliori come falene impazzite, entriamo e sbatacchiamo le ali polverose, tenebre ci avvolgono e luci false ci attirano in trappola, ragni pronti a ghermirci. La nonna lo diceva sempre che il buio non è solo fuori, che può venirti in casa e può venire da te, poi mio padre mi strappò via e il sorriso di nonna smise di brillare nell’oscurità.

Condusse con sé la piccola dentro casa mentre il lungo continuava a menare colpi con la falce. Quando si fermava si detergeva il sudore della fronte con le maniche sporche della camicia. Sulla fronte righine nere si erano formate di sudiciume, lo facevano grattare con le unghie nere spessite dal freddo e spaccate dal caldo. La terra si apriva e si spaccava quando l’erba veniva via come a voler inghiottire ogni traccia dello sterminio che si andava compiendo, nugoli di mosche si sollevavano ad ogni colpo di falce e finivano contro il petto dell’uomo che le mandava via imprecando. Il corto era rimasto in veranda ad osservare il tetto, lo spiraglio da cui pioveva, ingegnandosi prima di come avrebbe potuto ripararlo. Venne con la piccola stretta alle ginocchia e gli mostrò le tavole di legno con cui avrebbe potuto riparare lo squarcio e gli arnesi con cui lavorare, una sega, un martello e chiodi. Il corto appoggiò la scala alla veranda da fuori, alcuni avventori lo videro e guardarono la giovane madre con in braccio il poppante, la bambina dietro appesa alla gonna che si sollevava oltre le ginocchia.

Meglio rientrare, meglio che non mi vedano troppo. Visi che mi scrutano senza scrupoli, mi guardano dentro come se sentissero che sono marcia. La puzza arriva ai loro nasi troppo perbene. Sotto la gonna l’acre profumo del sangue, sale alle narici, ci metto le mani e le tingo di rosso, le mostro piena di vergogna al cielo e chiedo perdono, mi lavo e sfrego fino a farmi male, poi sono le cinghiate del babbo che mi segnano le gambe, bande rosse vermiglie, mi viene il capogiro e svengo sul letto, l’odore del sangue me lo porto appresso. “Sento puzza del demonio qui dentro di me” dice il babbo e mi fissa con occhi pieni di odio, “Hai portato la sporcizia in casa mia”, esce e sbatte la porta, non lo vedemmo più per giorni, poi tornò e ci picchiò tutti, e poi fece anche venire buio d’improvviso, la notte in casa, il buio nei nostri giorni, non vi fu più luce dentro di noi. Tu non dovrai crescere così. La piccola cantava una nenia indecifrabile e si dondolava leziosa, piccola puttanella, ancella del diavolo, non seguirai il destino, estirperemo pregando fino alla morte quest’impudicizia che ci divora.

Il lungo le raggiunse in cucina, disse che aveva finito e che aveva bisogno del bagno, si tolse la camicia di fronte a lei e alla bambina. Prese la camicia e la gettò in un catino. Disse freddamente che lo avrebbe condotto al bagno di sopra, salirono le scale, il bimbo fissò gli occhi semichiusi sul petto ossuto e sporco dell’uomo che li seguiva, l’uomo fece un verso con le mani e poi strizzò gli occhi, gli bruciavano dal sudore che gocciolava fitto dalla fronte madida come se la pioggia lo avesse battuto a lungo. Il bagno era stretto e lungo, occupato da un catino piccolo e uno più grosso pieno d’acqua fredda. Chiese se voleva acqua calda, la poteva mettere a bollire, ma ci voleva un po’ perché doveva accendere il fuoco e ormai lo accendeva solo la sera per fare cena e per i lavacri del marito. Disse che andava bene l’acqua fredda e un sapone. Erano in piedi nel piccolo bagno, stretti l’uno accanto all’altra, l’uomo alto si scusò e passò oltre, indugiando le parve sul suo collo bianco madido di piccole gocce di sudore ‘Sarebbe bello fare il bagno tutti insieme’, disse, e ammiccò con gli occhi accesi di una furberia sensuale, ‘dico, non sarebbe bello fare il bagno tutti insieme, piccola?’, la bimba spuntò dietro la madre il cui volto era pietra, occhi chiusi dallo sdegno serrava i polsi, ‘giù al fiume, in questa stagione l’acqua è fredda, dovreste andarci, conosco un posticino dove non ci vedrebbe nessuno’.

Giù al fiume, annegate speranze, salpare verso il confine incerto, le nuvole basse si specchiano sull’acqua, col dito le rompo e le divido, mentre la barca costeggia la riva piena di lavandaie nude che fanno il bucato in preda al riso e a strane fregole, uomini caprini le spiano dietro i cespugli, la barca si scuote come squassata da una tempesta. L’uomo scuote, afferra la mia mano, la stringe in una morsa. Mi fissa con violenza, un’espressione crudele sulle sue labbra grassocce, si avvicina e stringe la mano. Indietreggia e ripara la bimba, malcapitata al mondo, ottusamente nata, pervicacemente aggrappata alla vita come al corrimano. Apre la mano chiusa, stretta e una poltiglia giallognola cade per terra. L’uomo lascia la sua mano e la raccoglie. Prende il sapone e si spoglia davanti a loro, toglie tutti gli indumenti senza attendere di essere solo e li porge uno per uno a lei, finché non rimane lì davanti nudo, il corpo sgraziato e incombente, inaspettatamente vulnerabile, scarico, senza vita, un corpo ottuso che può solo cedere. Il volto dell’uomo sprofonda dentro di sé, la pelle affonda nel teschio, la scarna carne cede molle, gli occhi cadono come palline di vetro, l’uomo si scioglie in un cumulo di ossa e fatica.

Lo lasciarono dentro la vasca a crogiolarsi nell’acqua fredda, dopo avergli fatto scivolare il sapone dietro la schiena, che affondò nell’acqua limacciosa, giallognola come quella del fiume che ristagna nelle piccole anse, ristagni in cui il sole affonda e l’ombra mette radici, fradice come pozze di coscienza su cui zampettare innocenti, come rane gracidanti al tramonto di ogni sera, la schiena lucida baluginava di gocce e bolle di sapone spente dall’aria immota e carica di calore e arsure, il sudore gocciolava indistinto dall’acqua sporca sul pavimento, pozze che ristagnano di cattivi pensieri, desideri sopiti trattenuti sotto l’acqua immobile. Il corto ritto sulla scala martellava forte, imprecando talvolta alla malasorte e ai corvi che venivano a beccarlo, torvi pensieri che volavano incuranti del bene e del male, in attesa delle carcasse indifese, fiere bestie senza peccato, occhi neri come il buio. La vide sbucare tormentata aggraziata figura, la spiò mentre posava il chiodo. Lei si sentì spogliata da quello sguardo, indifesa come un manichino di un negozio in città, alla berlina degli sguardi, immobile e fredda, eppure calda sotto le vesti, fragile come una porcellana di limoges, maneggiare con cura, avrebbero dovuto leggere sulla sua fronte pallida e solcata da leggiadre venuzze, creatura di un’altra era, perduta al mondo. Poi con rabbia disse è ora di fare sul serio, gli occhi pieni di cupo furore, le braccia tese, i tendini del collo tirati. Lei si nascose dietro la porta, tirandosi dietro la piccola e facendosi innocentemente scudo con il piccino, dietro lo stipite incollata con la labbra senza respirare sbirciò le sue cattive intenzioni, poi lo vide con violenza assestare una martellata potente e il chiodo entrò tutto dentro fino in fondo. Si lasciò cadere a terra, corpo senza più emozioni.

Riprese conoscenza a poco a poco, sentiva la piccola ridacchiare alle tormentose punzecchiature del lungo, il corto era in piedi con in braccio il bimbo, lo cullava tra le sue tozze braccia. È svenuta disse il lungo.

Il corto si denudò e si immerse nella stessa bagnola in cui il lungo si era lavato, ribolliva di schiuma marroncina, l’acqua debordò e dilagò sul pavimento scomparendo nelle piccole fenditure, sgocciolando di sotto sul tavolo della cucina dove era stata messa una bacinella su cui l’acqua zampillava sempre più lenta nell’aria ferma, finché una goccia luminosa rimase sospesa a mezz’aria, così come il muso ferino della bimba che spalancò la bocca fino alle piccole orecchie. Il lungo sedeva di fronte a lei muto e assorto, placidamente raccolto nella sua soddisfatta spossatezza. Il bimbo dormiva nel seggiolone, il musetto appoggiato al ripiano cosparso di rimasugli di cibo, un rivolo di bava colava dalle sue labbra che iniziavano ad assumere i contorni dell’idiozia, gocciolava a terra raccogliendosi in un limaccioso piccolo laghetto in cui annegava una coccinella. Lei dondolava la testa assorta senza pensieri, gli occhi di tanto in tanto a spiare le intenzioni del lungo che schiudeva le sue labbra umidicce e che con le mani disegnava oscenamente sul tavolo corpi in lieti amplessi e leggiadri corpi senza forma, ombre del piacere che svanivano dietro l’ultimo sole delle tendine di pizzo tirate e delle persiane serrate sul cuore. L’acqua riprese a zampillare eterna e caduca, il ritmo del vento agitava le foglie dell’erba che spandevano l’odore acre della morte e della vita, insetti disparati banchettavano intorno a briciole sul pavimento, il cigolio dell’insegna del macellaio duecento metri più avanti arrivò distinto alle loro orecchie tese agli infiniti rumori delle cose e della natura. Poi il corto riapparve vestito, l’aria soddisfatta e gli occhi umidi di piacere e riposo, la nuca ancora umida faceva capolino dal colletto della camicia sporco, grumi di sapone erano rimasti sulle sue scarpe sfondate.

Seduti al tavolo con i gomiti piantati mangiavano in silenzio la minestra di fagioli e il pane abbrustolito che lei aveva disposto per loro. Mangiano come fosse l’ultimo pasto, appetito famelico, la vita scorre nel loro sangue bruno come i cavalli frantumano l’erba sotto i loro zoccoli acuminati, occhi che bramano nell’oscurità la carne bianca e profumata, mani che sventrano e fanno a pezzi. La mannaia cala sui piccoli senza pietà, il camice imbrattato di sangue e l’odore della vita che se ne va e lascia il posto alla fredda e marcia morte, la putrefazione il banchetto per nuova vita, tutto muore e tutto rinasce senza posa, inaudita violenza di una macchina che tutto falcia senza pietà e distinzioni. Così piccoli e presto già grandi, buoni anche loro per le casse del signor Jones, in fondo al paese, casse per tutti i portafogli, la morte sorride a tutti, puttana misericordiosa, se ne andranno vestiti di tutto punto come si conviene, come la domenica e nelle feste del paese, si lascia il mondo al meglio per tornarvi, il miglior vestito dedicato ai vermi e alle impurità dell’oscurità eterna, la terra che ribolle di marciume, i morti e i vivi che banchettano sui morti e i vivi.

Finito di mangiare si profusero in inchini, si tolsero il cappello dopo averlo ripreso dal ripostiglio buio, se li misero solo per toglierseli, ringraziarono e diedero baci alla piccola e al piccino che sonnecchiava satollo del pasto nel seggiolone. Uscirono sulla veranda e lei rimase sull’uscio a salutarli, gli occhi bassi dalla vergogna, la piccola si teneva forte alla sua gonna temendo di cadere, la sollevava inavvertitamente e la bianca carne di una coscia baluginò al sole del mezzogiorno. I due uomini ebbero solo una fugace visione poi distolsero lo sguardo colpevole e videro il paese che li osservava. Erano dappertutto come corvi. La signora Callan appollaiata sul tetto della veranda di fronte, la casa degli Anderson, i due anziani penzolavano le loro secche scarne gambe dalle finestra, sui tetti delle case attorno stavano gli altri, i ragazzi erano abbarbicati sulle staccionate, tutti fissavano i due forestieri e la donna che li aveva accolti, non dicevano nulla e nulla traspariva dai loro occhi senza vita, occhi neri senza luce, pozzi d’ombra.

È notte fonda quando rincasa, il silenzio attecchisce come un’erba cattiva, il profumo dei gesti e il cattivo odore delle intenzioni aleggia ancora per poco, poi svanirà prima dell’alba. Si mette a letto con le scarpe ancora sporche di terra, troppo stanco per spogliarsi. Giornata dura, infame. Tocca la moglie fredda accanto a lui, le solleva la sottana e la prende con gesto rituale e meccanico, l’amplesso si consuma in fretta con grugniti di soddisfazione che le solleticano le guance imporporate dal piacere. Si morde le labbra finché il sangue non zampilla, lui beve stordito e inconsapevole. Poi si riabbottona e le dà la buonanotte toccandole la mano che fredda non si solleva, rimane attaccata al braccio. Lei si sente appiccicosa e guasta come una frutta lasciata all’opera di un sole malato. Un’inesplicabile senso di colpa la invade, le sale alla bocca e sembra quasi trovare una forma compiuta in un pensiero, in una frase, ma muore prima che la forma divenga matura e rimane un senso amaro di qualcosa che si andrà a sedimentare come nel letto di un fiume. Notte moglie. Il silenzio ripiomba cupo e amaro prima che la sua bocca riesca ad articolare qualcosa. Notte marito. Giacciono entrambi le mani incrociate sul petto fino all’alba quando il sole depositerà su di loro un fiore dallo spiraglio della finestra.

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