“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 20 April 2014 00:00

Il quadro, la scena

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Il punto di partenza per compiere un ragionamento su Monocle è che si tratta – innanzittutto – della resa parlante di un dipinto. Cercare nello spettacolo un’allusione storica d'allora o di oggi o un senso politico passato o attuale rappresenterebbe una forzatura critica, un’aggiunta arbitraria. La Berlino degli anni ’20. Il racconto dell’affermazione nazista. Lo spettro dittatoriale volto al presente. La Francia, la Germania e dunque l’Europa. Il Novecento. Il sonno della ragione. La guerra. Ma anche il mito androgino, la molteplicità sessuale, la trasfigurazione del femminile in maschile e viceversa. Tutto questo non c’è, se non come suggestione effimera, consequenziale o di rimando. C’è invece, sul palco, un interessante azzardo di scena: far parlare un quadro o, meglio ancora, far parlare la figura di un quadro inducendola a condividere un sentimento mai detto, raramente percepito, ora immaginato. E farlo attraverso il teatro.

Sostituire l’immobilità con il movimento, la fissità con l’azione, il mutismo con la voce. Consentire la trasformazione del soggetto. Scardinare l’attimo eterno della pittura, mutandolo nel tempo presente di una recita. Produrre una confessione sonora. Cercare tra i colori le ombre nascoste, il retro invisibile, le frasi mai usate. Far muovere le labbra, poi far muovere un muscolo, due, dieci: fino a far muovere il corpo intero. Rendere percepibile la tridimensionalità fasulla dello spazio. Aggiungere segni ai segni che già sono dell’opera. Trattare del rapporto tra chi dipinge e chi è dipinto, e di tutto il dolore e la fatica e il senso di costrizione e di comando che questo rapporto comporta, mettendo anche in scena il rapporto tra attore e regista. Giocare con la musica. Giocare con le luci. Giocare con la linea che separa idealmente il palcoscenico dalla platea.
Di questo proviamo a scrivere, partendo dal ritratto.


Il ritratto.
Il Ritratto della giornalista Sylvia von Harden di Otto Dix. Lo stesso tavolino in marmo. Sul tavolino la stessa tipologia di bicchiere, lo stesso portasigarette marcato all’interno dal nome, la stessa scatola di fiammiferi. Lo stesso abito nero a riquadri rossi. Le stesse calze velate, il cui bordo si intuisce all’altezza della coscia. Le stesse scarpe con i tacchi angolari. Lo stesso monoloco. Lo stesso taglio alla garçonne. Lo stesso pallore. La stessa posa. La stessa espressione.
Ad un occhio poco attento potrebbe sembrare la riproposizione dell’interno-bar previsto dal quadro: il recupero di un ambiente e la sua falsificata ripetizione frontale. In tal caso l’operazione si ridurrebbe a una copia, a una riofferta del dipinto, a una fotografia sviluppata dal vivo. Ma è teatro, invece, Monocle. Per questo prevede che sia intuibile, in penombra, l’ingresso (dalle quinte) del suo unico interprete. Per questo prevede lo scorrere dei crediti iniziali dello spettacolo. Per questo, al fondo rosso sfumante previsto dal dipinto, aggiunge un rettangolo bianco che incornicia interamente la figura: rimando a una tela ancora linda, pulita, in divenire, il rettangolo ci dice che si fa conto d’essere nell’atelier di Otto Dix. Così al luogo finto ma spacciato per vero (il bar del ritratto) si sostituisce il luogo vero di una finzione (l’atelier in cui si addobba il bar del ritratto) smascherando in tal modo l’artigianale fattura dell’immagine e del suo arredamento funzionale.
Si tratta, per dirla più chiaramente, della messa in evidenza anche di un principio teatrale, per cui si allestisce la scena perché, su questo luogo che è il palco, appaia l’altro luogo che la trama richiede.


Lo specchio.
Due oggetti in aggiunta. Un posacenere – che scopriremo dalle note di regia essere stato usato soltanto “per comodità” – ed uno specchio da figura intera, posizionato alla sinistra di chi guarda. Perché lo specchio? Per inquadrare, di sbieco, parte della sala e, dunque, parte del pubblico rimandandone i tratti, imponendo agli spettatori la propria forma deformata, costringendoli a dar conto a se stessi della propria presenza. Ma se è così allora lo specchio è anche e soprattutto una chiara metaforizzazione del teatro in quanto teatro: non è forse a teatro, infatti, che chi guarda (lo spettatore) finisce per guardarsi? Non è forse il teatro l’unica arte in cui chi è guardato (l’attore) può anche guardare? Non è – per dirla con Amleto – “porgere uno specchio alla natura” la prima finalità del teatro? Lo specchio è il teatro, quindi, ed è il più evidente segno di Monocle: per quanto stazioni nell’ombra, laterale, sovente al buio.
È la presenza di questo specchio, ad esempio, che consente al protagonista di rivolgersi chiaramente al pubblico, nel momento in cui pronuncia la battuta “La luce inonda un po’ di più l’atelier. E tutti questi quadri intorno a noi”. Ed è la presenza di questo specchio – quasi l’evidenziazione di un principio registico – che permette l’uso dei fari verso la platea; che aiuta il personaggio a contemplarsi all’interno dell’opera mentre gli spettatori si contemplano contemplando l’opera stessa; che permette il cabaret di Berlin auf der Tauentzien in ribalta; che aiuta la tramutazione del monologo in un finto dialogo (o, se si preferisce, la tramutazione del dialogo in un vero monologo); che avalla parte della recitazione svolta a ridosso delle poltrone; che dà un senso ai passaggi metateatrali; che stimola la svestizione e il cambio di genere (dichiarato anche dal tedesco che diventa francese); che induce ad offrire un racconto di sé che è puro intrattenimento pseudo-biografico, puro inganno del tempo; che induce a porre la parola “Fine” quando la fine dello spettacolo è giunta davvero.
Lo specchio ci dice che Monocle non è pittura ma teatro, con tutto il suo carico di finzione svelata, di artificio conclamato e di compartecipazione non illusiva e ingannevole tra chi recita e chi assiste alla recita.


La sofferenza della posa.
Il Ritratto della giornalista Sylvia von Harden di Otto Dix, quindi. Ma non solo. Inducendo Luc Schiltz a tendere il corpo, a dare durezza alle gambe, a sussultare ostentando scosse alla gola, alle spalle o alla schiena come fosse in preda a rapide convulsioni da performance, Stéfane Ghislain Roussel impone la compresenza momentanea d’altre figure, appartenenti ad altri dipinti dello stesso pittore. Appaiono così – solo per fare qualche esempio – le pose della Donna incinta, di Martha, del Ritratto della ballerina Anita Berber. Rifiuto, pertanto, dell’immedesimazione completa; negazione del principio di reviviscenza effettiva per cui al suo attore Roussel non chiede di (tentare di) essere Sylvia – fissazione identitaria, assoluta, unica e sola – ma di rappresentare uno stato d’animo che è di Sylvia, o almeno della Sylvia che il regista ha immaginato, ma che appartiene anche a tutti coloro ed a tutte coloro che per Otto Dix hanno posato. Ecco, forse, il vero tema di Monocle: la condizione di chi, oggetto/soggetto dell’opera d’arte, è in balia del creatore, di colui che ha il controllo, di chi può decidere forma, apparenza, natura estetica.
Per questo ci piace azzardare pensando che le mani di Sylvia sono anche le mani del Ritratto dell’avvocato Hugo Simmons; che il braccio alzato sia quello di Suleika; che certi grugni militari sono presi dalle opere che Dix dedicò alla guerra; che le cosce aperte o le dita che scivolano dalla spalla al centro del petto sono le cosce, le dita ed il petto di una qualsiasi delle donne da Salon ch’egli ha ritratto. Roussel – con Monocle – fa parlare la fatica, il dolore, la sofferenza di chi è costretto a rimanere immobile per ore, per giorni e per mesi, perché rimanga immobile per l’eternità. Fa parlare chi fa da modello a un artista, costringendosi ad esserne la fonte e la vittima, l’ispirazione ed il martire.
È per questo che inventa uno spasmo epilettico che non ha alcun valore biografico (nulla accerta che la von Harden ne soffrisse) ma che – invece – ha una funzione esclusivamente teatrale: rendere l’insofferenza crescente, la tensione in accumulo, l’insopportabilità del lavoro che diventa strazio, pena, afflizione e poi disperazione, ribellione, rivolta.
È per questo che Monocle prevede – illuminante gioco da palco – anche una sorta di retro-tela o, meglio, di sua riconversione al contrario: la gamba destra sulla sinistra, la mano sinistra a mezza altezza mentre tiene la sigaretta, così da certificare il rifiuto della posa iniziale, ora fisicamente ribaltata: come se il dipinto fosse visto allo specchio, appunto, così vediamo il dipinto in teatro.


Una suggestione del tutto personale.
Se è vero che − nel passaggio dal femminile al mascolino, dall'accettazione alla rabbia, dalla subordinazione all'imperiosa affermazione di sè − si evidenzia un cambiamento del personaggio Sylvia von Harden che richiama la condizione stessa della Germania, prostrata dopo la prima guerra mondiale e, via via, furiosa verso la seconda (ed in questo il ritratto della von Harden è espressione "di un'epoca"), sussiste anche una suggestione ulteriore, del tutto personale, che lascia lo spettacolo e che è in rapporto con il teatro.
“Fa freddo”. “Mi scusi. Mi sono mossa”. “Fa veramente freddo”. “Ah, si? Mi sono mossa di nuovo?”. “Sono intirizzita”. “Si, fermiamoci un momento”. “Ecco, il freddo è penetrato nel mio utero”. “Mi sono mossa, lo so. Mi scusi, sento dolore”. “E l’ultima. L’ultima posa”. “L’ultima!!!”. “Qui e là, l’ultimo tratto”.
Brandelli del testo, brevi estratti da frasi più ampie che – ripetendosi in forma analoga – servono a esplicitare e a misurare, di volta in volta, il lavorìo cui è sottoposto il corpo donatosi o scelto dall’arte. Offerta di sé. Messa a disposizione del proprio tempo e della propria resistenza. Gesto ideale ma che ha realizzazione fisica. Disponibilità ad essere plasmati, mutati, traditi; consapevolezza del rischio di non riconoscersi; comprensione della possibilità di apparire o sembrare diversi da ciò che si è. Affidamento della propria natura allo sguardo e alle mani di un altro. Predisposizione accettata all’ubbidienza, a rispondere sollecitamente a un ordine, ad acconsentire a un comando o a un’indicazione. Diventare materia plastica, diventare creta, diventare cera. Essere cioè come un attore, al cospetto di un regista che ne fa (ab)uso strumentale, finalizzato alla (ri)creazione.
La suggestione ulteriore che lascia Monocle – almeno a chi scrive – è che sia (consapevolmente o inconsapevolmente) anche un diario teatrale; un quaderno d’appunti segreto e adesso reso esplicito; una confessione da palco di tutto lo sforzo, il sudore e la fatica che precede la prima sul palco. Sylvia von Harden è  l’attrice di uno spettacolo che, in quanto pittorico, risulta fissato e in silenzio per sempre ed Otto Dix, di questo spettacolo, ne è stato il regista. Modella e pittore come attore e regista, quindi.
Sylvia von Harden e Otto Dix; Luc Schiltz e Stéfane Ghislain Roussel.
Un attore e il suo regista.
Esercizi, tentativi, stanchezze, senso di fallimento, insofferenza reciproca, abbandono e ripresa del lavoro, azioni, rabbia, disperazioni, desideri comuni, incertezze, prove, scontri, riappacificazioni, nuovi scontri, momenti di pausa, freddo, solitudine in compagnia, addestramenti, ricerche, compiti volitivi, reazioni psicologiche, stimoli, turbamenti, accettazione dei turbamenti, tramutazione dei turbamenti in dettagli, dei dettagli in carattere, del carattere in una figura.
Perché domini il quadro, perché si prenda la scena.

 

 

 

 

 

Monocle. Portrait de Sylvia von Harden
liberamente ispirato al quadro Ritratto della giornalista Sylvia von Harden (1926)
di Otto Dix
drammaturgia e regia Stéphane Ghislain Roussel
con Luc Schiltz
costumi Xavier Ronze
trucco Sandrine Roman, Marthe Faucouit
musiche Viktor Ilieff
luci Zeljko Sestak
foto di scena Philippe Gallowich
produzione Théâtre National du Luxembourg, Compagnie Ghislain Roussel
lingua tedesco, inglese, francese con sovratitoli in italiano
durata 1h 25'
Napoli, Galleria Toledo, 18 Aprile 2014
in scena dal 15 al 20 Aprile 2014

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