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Tuesday, 22 April 2014 00:00

Le tre vie

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Bisogna che tutto apprenda:

e il solido cuore della Verità ben rotonda

e le opinioni dei mortali, nelle quali non c’è una vera certezza.

Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono bisognava che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso.                                                                    

(Parmenide, Sulla Natura, Fr. 1 v.28-32)

 

PREMESSA

Quella che segue è una storia reale. Lo era, lo è e lo sarà sempre nell’eterna immutabilità del divenire. Le tre possibili soluzioni possono essere interscambiabili. Attraverso un’attenta analisi del mio intimo sentire ho deciso di catalogare i tre atti rappresentanti la scelta nelle tre diverse scale palesateci dal filosofo di Elea. Il lettore potrà invece cambiare a proprio piacimento la catalogazione dei suddetti atti, in modo da renderla il più vicina possibile alla propria anima. 

                                                                     

INTRODUZIONE

Giovanni aveva appena ricevuto la notizia che gli sembrò di aver preso un gancio al mento, di quelli precisi e potenti che spostano la mandibola a tal punto da far leva sulla calotta cranica e farti schiamazzare al suolo per qualche secondo. Margherita non aveva dubbi: era incinta!

“Ho fatto il test” – disse lei e aggiunse – “questi cosi non si sbagliano”. Ci furono attimi interminabili di silenzio. Poi lui con voce debole e a tratti tremante rispose: “Non so che dirti”. Era stato un errore di valutazione, un calcolo sbagliato. Giovanni e Margherita non volevano avere figli, almeno non in quel momento. Giovanni, in verità, non li voleva affatto. Lui si sentiva come quel personaggio interpretato da Gunnar Bjornstrand ne Il Posto delle Fragole, quello che non voleva dare spazio ad una nuova vita perché si sentiva lui stesso morto e desiderava la sepoltura il prima possibile. Margherita invece, nel suo profondo, lo voleva. Sperava tanto di avere un bambino, anche per sbaglio come stava accadendo e fingeva di mentire a se stessa ripetendo che non era il momento. Passarono i giorni. I commenti degli amici non trovarono soluzioni concrete al problema. Giovanni e Margherita non potevano avere figli, almeno non razionale parlando. Disoccupato lui, sotto pagata lei. Giovanni si arrangiava con qualche lavoretto. Puliva le scale di alcuni palazzi, scriveva per qualche rivista che gli dava una miseria, con il sogno, mai del tutto sopito, di vivere suonando. Margherita invece si faceva in quattro, al mattino andava a lavoro nel suo asilo nido, al pomeriggio ripetizioni per qualche bimbetto e almeno due volte a settimana anche lei si adoperava per dare una spazzata a qualche condominio del paese per arrotondare. Giovanni non riusciva più a pensare. Il suo lavoro, quello di scrivere, era ad un punto di stallo. Non che scrivesse cose importanti, scempiaggini che vanno di moda nell’italietta di oggi, ma proprio non riusciva a pensare ad altro che al fatto di diventare padre. Margherita aveva capito che qualcosa non andava nel suo compagno, ma il desiderio di maternità era più forte di ogni cosa. Sentire dentro di sé un essere crescere, nutrirsi della propria vita, era troppo grande per essere accantonato. Il bambino doveva nascere. Questa la scelta finale di lei. Giovanni aveva provato in tutti i modi a farla desistere. Aveva cercato di illustrarle le conseguenze di un gesto del genere. Cercava di impaurirla dicendo che gli assistenti sociali avrebbero potuto un giorno toglierle il bambino perché non c’erano le condizioni necessarie per accudirlo. Niente da fare. Margherita non volle sentire ragione, e ormai si riferiva a se stessa al plurale, come fosse due persone in una. Nel silenzio della casa dove insieme vivevano e dove Giovanni rimaneva solo per la gran parte del tempo, il futuro padre rimaneva immobile a pensare. Immaginava quello che sarebbe stato e quello che sarebbe potuto essere. Poi, d’un tratto, fece la sua scelta.

ATTO I

Riordinò la sua roba, prese le cose più importanti e si infilò di corsa nel primo treno per Napoli, dove vivevano i suoi genitori. Mamma e papà a telefono lo avevano scongiurato di non farlo, di non abbandonare quella ragazza in dolce (amara) attesa. Giovanni non seppe resistere e mollò tutto. A casa trovò un clima ostile, a tratti bellicoso. Per non parlare poi delle scenate e delle ingiurie ricevute dalla famiglie di lei. Margherita provò grande rancore, ma poi la sua rabbia, col tempo, sembrò placarsi per lasciare spazio ad un sentimento di compassione e pietà. Giovanni riprese la sua vecchia vita. Riformò un gruppo rock, suonò nei locali e realizzò tutto sommato il percorso che aveva sognato, ma ci vollero mesi prima che ciò accadesse. Intanto Margherita era pronta a dare alla luce suo figlio. “Lo chiamerò Parmenide” disse una volta per scherzo, cercando di invogliare Giovanni a diventare padre. Lo scherzo diventò realtà. Il piccolo prese il nome di Parmenide, forse proprio perché Margherita voleva creare in Giovanni un sentimento di rimpianto, un dolore profondo e indelebile. Passarono gli anni, Parmenide cresceva. Nessun assistente sociale si fece largo in quella famiglia formata da mamma e figlio. Il piccolo Parmenide non chiese mai del padre, e sua mamma non glielo fece mai mancare. Dall’altra parte dell’universo invece Giovanni faceva baldoria con gli amici. La sera usciva per suonare o per far festa. Era tornato un 18enne. Beveva come una spugna e, a tratti, dimenticava. Il piccolo Parmenide non lo conobbe mai, e pensava che mai più avrebbe parlato con sua madre dopo tutto quello che si erano detti anni prima. Non c’era giorno però che il vecchio Giovanni non pensasse a Parmenide. A cosa sarebbe stato vivere con lui. Vedere una partita di calcio in tv o un incontro di boxe. Ogni giorno, durante la visione di un film, immaginava cosa avrebbe pensato suo figlio a riguardo. Se avrebbe provato le stesse emozioni, se avrebbe cercato le stesse ragioni nelle cose della vita. D’un tratto Giovanni non resse il peso. Morso e rimorso dai rimorsi telefonò alla sua ex compagna. Una frase gli ronzava in testa: “tutto ciò che è reale è razionale”.

“Ciao, sono Giovanni”

Dall’altro capo del telefono ci fu il silenzio. Un mutismo ricco di dolore. “Volevo sapere come state” disse Giovanni. Margherita non perse il senso dell’umorismo e rispose: “l’ultima volta che ci siamo sentiti, circa 15 anni fa, mi davi del tu”. Gli raccontò che andava tutto bene, che Parmenide era ormai un ometto e che non c’era bisogno del suo aiuto, anzi sarebbe stato meglio per il figlio se non avesse mai saputo di questa telefonata. “Se un giorno vorrà, sarà lui a cercarti”, concluse Margherita. Giovanni ingoiò il boccone e tornò alla sua vita. Non le telefonò mai più, né il giovane Parmenide corse mai a cercare sua padre.

ATTO II

Era come una fitta al cuore perenne, cronica. Una malattia. Giovanni non riusciva ad accettare, ma lo fece, almeno parzialmente. Si adagiò, ingurgitò l’amaro calice tutto d’un fiato e tirò avanti. Quasi ogni settimana una visita dal ginecologo, ma lui non provava niente. Il monitor trasmetteva gli scalpitii delle sue gambette, i movimenti frenetici delle sue manine, ma non c’era un filo di emozione nell’animo di Giovanni. Solo noia associata a preoccupazione e tormento. Intanto, Margherita lavorava, tornava a casa distrutta e crollava sul letto stanca morta. Giovanni capì che quella situazione non poteva durare per molto. Doveva fare una scelta. Tutti erano dalla parte di lei, il bambino doveva venire al mondo e lui doveva darsi da fare. Quel poco che guadagnava non bastava più e se non voleva sentire continuamente le lamentele dei parenti doveva trovare un lavoro vero. Una frase continuava a ripetersi nella sua mente, quasi a tormentarlo: “tutto ciò che è reale è razionale”. Intanto, Margherita era pronta ed il piccolo non voleva saperne più di aspettare. Dopo qualche mese venne alla luce Parmenide, così avevano deciso di chiamarlo. In realtà fu più una decisione della mamma, in quanto Giovanni sembrava ormai spento, a tal punto che quasi non si accorse della nascita del figlio. Aveva trovato un lavoro da qualche settimana come operatore sanitario in una casa di riposo. Di quelli che devi accudire il vecchio moribondo, vestirlo, lavarlo e dargli da mangiare nel minor tempo possibile perché ne hai 20 da gestire e quei corpi flaccidi diventano oggetti in una catena di montaggio pronti ad essere scartati per passare al prossimo della fila. Passarono gli anni, Giovanni viveva per il lavoro, turni su turni. Margherita aveva perso il suo dopo la gravidanza ed ora era lui a dover sfamare la famiglia. I soldi non bastavano mai., la casa di riposo che lo aveva assunto gli faceva fare orari massacranti per paghe ridottissime. Nei turni di notte Giovanni pensava alla sua giovinezza. A quando aveva una rock band e si ubriacava con gli amici sognando l’eterna gioventù. Pensava agli incontri occasionali con l’altro sesso nel bagni dei locali napoletani e alle sue storie amorose finite così come erano iniziate, senza impegni e senza pargoli minacciosi. I ricordi si affollavano, e il dolore che fossero solo ricordi era diventato insopportabile. Nella sua vita ora c’erano soltanto Margherita e Parmenide. “E ti pare poco?” disse una volta un collega col quale Giovanni si stava sfogando. I commenti di amici e conoscenti non servirono a tirargli su il morale, non riuscirono a fargli vedere l’intera faccenda da un altro punto di vista. Niente. Solo una cosa era certa nella testa di Giovanni: tutto ciò che è razionale è reale. Tornò dal suo ennesimo turno di notte. A casa, lei ed il piccolo dormivano. Giovanni si guardò allo specchio e scrutò attentamente la pancia arrotondata che negli anni aveva assunto una dimensione sempre più ridondante. In quella rotondità sembrava cercasse l’origine di tutti i mali, o per contrappunto, una scintilla di spensieratezza. Non trovò nessuna delle due cose. Ancora quella frase a fargli rintronare il cervello: “ciò che è reale è razionale, e ciò ch’è razionale è reale”. Giovanni era confuso, annebbiato dalla rutine e dai fiumi di alcool che ormai da tempo beveva e che erano diventati la sua unica evasione dalla realtà. Prese un cuscino e si diresse verso il piccolo Parmenide che dormiva spensierato nella sua culla. Ci vollero pochi secondi per soffocarlo con il cuscino in faccia. Poi, avanzò verso Margherita che era distesa sul letto a pochi passi dalla culla. Si chinò su di lei e, senza nessuna espressione descrivibile sul volto, iniziò a strangolarla. Margherita si svegliò e cercò di scuotersi, ma Giovanni l’aveva bloccata come si deve, con le gambe sulla braccia e le mani intorno al collo. Il primo sguardo di Margherita, nonostante il dolore provato dalla morsa stretta al collo, fu verso la culla. Vide il corpicino di Parmenide immobile e scolorito. Era morto! Un dolore indescrivibile scosse l’animo della mamma. Giovanni tirò fuori tutta quella forza che non aveva avuto fino a quel momento. Un forza reazionaria, una ribellione autentica e devastante. Potenza allo stato puro. Con quella sua espressione indifferente ed apatica, e quella sua violenza repressa ed accumulata avrebbe potuto stendere un rinoceronte. Margherita era già morta prima ancora di morire. Nel momento stesso in cui vide suo figlio esanime il suo cuore cessò di battere. Dopo aver ucciso Margherita, Giovanni si alzò e si avviò, quasi come sonnambulizzato, verso il tubo del gas. Si attaccò alla canna e inspirò per diversi minuti quell’afrodisiaco odore di pace fino ad addormentarsi. Strane scene oniriche si accalcarono nella sua testa: un grosso pene in erezione, una bottiglia che cade e si frantuma in mille pezzi, tette e culi in abbondanza, immagini distorte di un vecchio film visto nell’infanzia, poi una serie di flash back del passato, sua mamma, suo padre, il volto di amici che credeva aver dimenticato, e perfino i suoi nonni gli sembrò di vedere in quegli interminabili secondi che lo accompagnavano alla fine. Poi più nulla, nemmeno il buio più nero. Qualche settimana dopo, la padrona di casa, stanca delle continue chiamate sul cellulare mai risposte dai due coniugi, decise di andare di persona per ottenere l’affitto. Aprì la porta con le sue chiavi e, per farsi luce nel buio maleodorante della stanza, accese l’interruttore della lampadina. In quel luogo non rimase più nulla di Parmenide, né di Margherita e Giovanni, né tanto meno della vecchia signora che aveva aperto la porta.

ATTO III

Giovanni era molto stanco. Ormai gli anni si facevano sentire, 65 sono una bella cifra. Aggiungiamoci poi che la sua vita non era stata una di quelle solitamente dette salutari, ed ecco che i suoi malanni erano più che giustificati. Era il giorno del suo compleanno e Margherita aveva organizzato una bella festa. Niente di straordinario, un’occasione per rivedere i vecchi amici, quelli che gli avevano resistito nel tempo, e soprattutto quelli disposti a reggere ancora, a quasi 70 anni, le sue notorie bevute. Nonostante l’età infatti, il nostro Giovanni il vizio di bere non l’aveva mai perso. Del resto, da più di 30 anni a quella parte, era l’unico che ancora si potesse concedere. Qualche scappatella col gentil sesso non era mancata, ma tutto sommato aveva fatto il bravo. Sempre dedito alla famiglia dal momento in cui nacque il suo primo e unico figlio Parmenide. Giovanni se ne stava lì seduto, a vedere qualche vecchio incontro di boxe e sorseggiare il suo scotch di marca scadente, quando arrivò la telefonata. La classica telefonata che lo riempiva di gioia ogni qual volta arrivava. “Pronto?”

“Papà, auguri – disse la voce al telefono – “allora, a che ora dobbiamo arrivare stasera?”

Era sua figlio che chiedeva l’orario d’inizio della festa, non perché davvero volesse saperlo, ma semplicemente per far capire che non aveva dimenticato l’evento e che non vedeva l’ora di festeggiare suo padre.

“Venite quando volete” rispose Giovanni e aggiunse “hai sentito tua madre?”

“Mi ha detto verso le sei, non troppo tardi in modo che Barbara le dà una mano a preparare i pasticcini”.

Barbara era sua moglie. Parmenide si era sposato qualche anno prima ed aveva dato già alla luce due piccoli. Del resto il lavoro non mancava, non avevano avuto problemi ad abbinare il pranzo con la cena. Non come 30 anni prima i suoi genitori, costretti a vivere in un periodo in cui il paese offriva poco o nulla. “Devo farti leggere il nuovo racconto che sto scrivendo” disse Parmenide. Il ragazzo aveva in grande considerazione il parere del padre, soprattutto dopo quella volta che gli aveva consigliato di cambiare alcune parti di quello che poi, grazie a quegli accorgimenti paterni, sarebbe diventato un best seller nazionale. “Ok, non vedo l’ora” disse Giovanni, poi continuò:

“non voglio regali”

“Vabbene, ma non prometto niente per Barbara. Sai che lei qualcosa deve sempre portartelo”.

“Lo so, però se proprio dovete regalarmi qualcosa, magari un Highland Park 18. Sono rimasto senza”.

“Ok, te lo portiamo stasera, a più tardi”.

Giovanni e Parmenide non parlavano molto tra loro. Condividevano interessi in comune che ad entrambi sembravano importanti. Avevano l’impressione di pensarla uguale sulle cose. A volte si guardavano in faccia e parevano capirsi al volo. Per loro quindi risultava spesso un’inutile perdita di fiato e tempo chiacchierare per più di un paio di minuti. Il più delle volte le loro conversazioni duravano infatti il tempo di una sigaretta. Quella volta non fu diversa dalle altre e si salutarono al solito modo:

“Ciao, figliolo”.

“Ciao Papà”. 

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