“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 05 April 2014 00:00

La barba di Tomás Milián

Written by 

Quando a inizio anni Zero toccò anche a me ascoltare The Director’s Cut (Ipecat, 2001) dei Fantômas io in parte già sapevo a cosa andavo incontro perché a fine anni Novanta mi era già toccato ascoltare Amenaza al Mundo/Fantômas (Ipecac, 1998). La prima volta coi Fantômas fu un misto di sgomento e fastidio, etichettai l’album – nell’intimità, sia chiaro, che in giro si parlava di capolavoro –come “inascoltabile” e passai oltre; la musica indie, ai tempi, ci concedeva svariati momenti siffatti, di subitaneo stupore, e c’era tanto e tanto che starci dietro imponeva di essere ingiustamente selettivi.

Poi, nel caso, si recuperava; e fu così che a inizio anni Zero dovetti rivalutare quell’indefinibile progetto di quel genio eclettico di Mike Patton che si pregiava di gente come Dave Lombardo (batteria), Buzz Osborne (chitarra) e Trevor Dunn (basso). Ora, per non stare qui a bearmi oltre sul deprecabile cliché della “musica dei tempi miei” che tanto e tanto ne avrei voglia ma proprio non è il caso se non altro per non palesare malcelati sintomi di vecchiezza, dico solo che questo secondo album dei Fantômas era una rivisitazione in chiave Fantômas di pezzi di colonne sonore degli anni Cinquanta-Settanta (con un paio di eccezioni anni Novanta) e vittime illustri della violenza iconoclasta della band erano personalità quali Henry Mancini, Nino Rota, Bernard Hermann, Angelo Badalamenti e Christopher Komeda.
Per capirci, consiglio di prestare attenzione alla “cover” del tema de Il Padrino (Nino Rota, 1972): The Godfather (https://www.youtube.com/watch?v=PdZccCC-O8s).
Quando alla fine degli anni Zero mi è toccato ascoltare il primo album dei Calibro 35 inutile dirvi che il mondo era cambiato, in peggio, e che anche la musica era cambiata, in peggio. Sicché al primo approccio con questa nuova band italiana – composta da Enrico Gabrielli (tastiere, flauto, sassofono, xilofono), Massimo Martellotta (chitarre e lap steel), Fabio Rondanini (batteria), Luca Cavina (basso) e Tommaso Colliva (produzione in regia) – un qualcosa di vagamente proustiano ha scosso i miei timpani assopiti, un qualcosa al solito di estemporaneo e di malamente compreso poiché in tal caso etichettai l’album come “bello, ma non è il mio genere” e passai oltre, salvo recuperare pochi giorni fa, in previsione del concerto del 3 aprile al Duel:Beat di Agnano (NA). Quanto inopinato è stato il ritardo, quanto godibile l’ascolto dei quattro album usciti tra il 2008 e il 2013.
Innanzitutto segnaliamo che il concerto dei Calibro 35 rientra in un ciclo di concerti, sotto il nome Suo.Na. Il ritmo delle cose belle, che è partito a marzo con i Nobraino, Piers Faccini e i Perturbazione, e che proseguirà fino a maggio con Brunori SAS, The Zen Circus, Maria Antonietta e gli Gnut.
Poi segnaliamo che ho vagolato in sala taccuino alla mano con la vana speranza di fissare su carta rari momenti epifanici oppure un unico, eccezionale, satori manco fossi Kerouac ai boulevard di Parigi. Niente di tutto questo, naturellement.
Io dico – mentre i Calibro 35 ci danno dentro alla grande facendo rivivere il poliziottesco anni Settanta in salsa funky-jazz-progressive, e tutti si esaltano, entusiasti, perché bontà loro era quello che cercavano in questo giovedì primaverile a differenza di me che la ricerca distolgo dal fatale nichilismo e dal fatalismo apocalittico di tempi di tristezza insolita per coloro i quali si sono ben pasciuti tra gli agi dell’insidioso capitalismo trionfante, un tempo, e annaspante, oggi – dunque, dicevo, io dico perché tutti non ci si rade più come un tempo? Dovessi fissare su carta una costante da rimembrare in ere future – e l’ho fatto, ahimè – fisserei questa cosa che oggi è di moda tenere la barba incolta e alcuni ardiscono anche di riproporre, con una spregiudicatezza tale da inorridire e basire e quant’altro è concesso all’umano scalpore, quei baffi che tanto male fanno ancora a chi è stato giovane e ricco di baldanza in tempi non recenti fino al decennio felice dei Novanta e ne ha serbata, miserrimo lui, documentazione fotografica. Proprio in questi giorni constatavo l’appeal della barba su uomini e donne, che la barba è oggi un sex symbol irrinunciabile (http://espresso.repubblica.it/visioni/lifestyle/2014/02/13/news/com-e-sexy-quella-barba-1.153010), e allora ieri mi guardavo intorno tra tante barbe e ci pensavo a questa cosa, e poi gettavo uno sguardo sul palco e coonstatavo con sconcerto che anche loro, i virtuosi strumentisti che compongono i Calibro 35, c’avevano ‘ste barbe che verrà un giorno in cui un nuovo Totò si aggirerà nelle notti oscure della crisi con forbici e rasoi a ripulire teste e gote dell’ultimo maschio di inizio millennio e sarà, quel giorno, perlomeno glabro. Ecco, magari ai tempi bui seguissero tempi glabri…
Dopo una tale tirata moralistica mi vien da dire, se non altro, che c’è speranza, perché ieri ho visto in giro pochi occhiali da nerd e allora è evidente che tutto muta, che tutto è soggetto a finire, ma lo spettacolo dell’omologazione è quanto mai triste.
Pensieri siffatti per fortuna non mi hanno distratto dall’ascolto di una delle band più interessanti del panorama alternativo italiano. Qui c’era poco da prendere appunti: i Calibro 35 sono trascinanti, trasmettono energia, risultano – per cercare di delimitarli con un solo termine – incalzanti, e ciò è giusto. Noi ascoltiamo i Calibro 35 che ci ripropongono le colonne sonore dei mitici poliziotteschi (ma non solo, che la loro discografia col tempo si è sempre più arricchita di pezzi originali fino all’ultimo album, Traditore di tutti, che è la colonna sonora immaginata del romanzo giallo di Scerbanenco) e ne saggiamo la tensione continua perché è così che deve essere: una cosa strana, un film anni Settanta senza immagini ma di soli suoni, con noi che ascoltiamo e danziamo e poghiamo e magari nelle immagini di cui il film è privo sfrecciano di continuo pallottole e sgorga sangue a fiumi; non a caso, altro appunto inutile sul mio taccuino, il gruppo mi pare renda il massimo quando suona sotto luci rosso sangue.
Personalmente ho approvato tutto ciò, e a fine concerto mi sono ritenuto pienamente soddisfatto. Restava un senso di mancanza, quel satori che non è sopraggiunto, e che ho immaginato come una scena tarantiniana in cui in cui Er Monnezza mi prendeva alle spalle, mi girava, e faccia a faccia partiva con uno sputacchiato monologo sui massimi sistemi del mondo in un romanesco falso pronunciato da una voce falsa di un Ferruccio Amendola che non c’è più: inutilità di una visione del mondo complessa, banalità del male, mestizia italica, ‘coattitudine’ alla barba di Tomás Milián.


Calibro 35
tastiere, flauto, sassofono, xilofono
Enrico Gabrielli
chitarre e lap steel Massio Martellotta
batteria Fabio Rondanini
basso Luca Cavina
produzione in regia Tommaso Colliva
opening act: A New Horizon
Napoli, Duel:Beat – Sala 3, 3 aprile 2014

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook