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Monday, 12 November 2012 19:29

L'archetipo ridondante

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Non saprei se definirlo una sorta di bestiario, perché non soltanto di fiere belve si tratta, né la curiosità collezionistica ed erudita è il senso di questa esposizione. Si potrebbe forse chiamarla sfilata laddove il senso profondo di questa definizione sta nel marciare delle figure e delle immagini impassibili di fronte all’occhio dello spettatore. Ma forse neanche questa definizione è quella esatta. Per cui: bisogna cercare qualcosa di più preciso. Anche perché – ma poi ci torneremo – si tratta di oscuri intagli nel cartone, con tecnica in levare, nel senso che dall’oscura nettezza del foglio nero, ecco comparire ogni forma e figura.

Ed allora: volto femminile (che però soltanto volto non è), lacrime atre e buie che immobili come tutta la scena (ma si può parlare di scena quando è l’archetipo che si mostra?) gocciolano lente e impassibili, e poi guanti (o mani?) con occhi ben visibili sul dorso, infine un bocchino (o si tratta di un piffero come in altre rappresentazioni o addirittura di un corno o di qualche altro simbolo?), il tutto a svelare la vanità o la vacuità dell’esistere o forse (più probabilmente) nessuna delle due. Ecco forse comparire il primo problema nell’affrontare questa esposizione, si tratta di figure che ricordano l’arte primitiva o forse le rappresentazioni più stilizzate che animo umano concepisce. Non infantili però perché nell’arte primitiva non è il bambino a parlare. C’è un respiro quasi religioso in queste opere, laddove la religione non è quella della rivelazione, la religione storica, che si espone nel tempo e redime il tempo, che si espone nel mondo e redime il mondo, che produce quella dimensione di linearità convulsiva. No!, non si tratta di questo. Ma piuttosto della più intima delle dimensioni sacre dell’umano, la ricerca di quell’attimo aurorale in cui tutto si riempiva di dèi e di significato.
Ma poi un pensiero: forse siamo noi a diventare troppo compulsivi. Siamo noi (ma poi che male c’è?) a ricercare qualcosa che necessariamente vada oltre. Potrebbe essere il nostro mood serale: e così, come a rompere una sorta di incanto indotto, ecco riapparire la realtà di una sala espositiva, le persone che la percorrono, le persone che discutono, le persone che osservano con il distacco della propria divisa.
Ed allora: una gabbia totalmente serrata, nessuno spazio di movimento, tutto composto a rappresentare la staticità assoluta della scena, uccelli immobili in posizioni innaturali, forse trafitti, sicuramente impossibilitati a raggiungere ogni forma di cibo o riproduzione. Ed ancora: volto con il mento che diviene uccello e occhio che diviene pesce dall’occhio umano (occhio assoluto?) e poi teste aperte a metà che si mostrano nella loro semplicità sconfortante o figure antropomorfe immerse nell’animalità ripetitiva di figure che si moltiplicano, corpi spaccati in due e gocciolanti, strane figure animali o antropomorfe a nascondere e a moltiplicare e l’umano e l’animalità.
A questo punto abbiamo bisogno di cominciare a ragionare sui nomi: l’esposizione ha come titolo Eden laddove il paradiso non è quello che possiamo supporre (ma lo supponiamo ancora?), luogo di beatitudine o di serenità, azzurra scena di perfezione, cielo immenso e rassicurante nell’eternità dei tempi dopo il tempo. Eden sembra invece rappresentazione iconografica dell’immenso salto imperscrutabile dell’umanità che si fa tale e che prima ancora di inquadrare se stessa nella sua potenzialità razionale risulta ancora immersa nella percezione primordiale. Sì!, proprio , dove domina il simbolo, perché è il simbolo a precedere ogni atto di razionalità. È il simbolo il primordiale e l’altra metà, quella già sempre da ricercare, è già sempre perduta.
Ma poi (finalmente) ci fermiamo e differiamo (perché poi noi uomini da qualche millennio a questa parte è ciò che facciamo) e ci distacchiamo (che poi è questo il senso dell’umano, il distacco da ogni forma di immanenza) e compare ancora di fronte a noi la scena classica da classica galleria, e allora di nuovo compaiono le persone che camminano, che discutono, che osservano.
E noi situati in questa situazione.
Ed infine (necessariamente) razionalizziamo: la tecnica usata dall’artista è originale e gradevolmente artigianale. Si tratta di prendere un cartoncino nero e dal suo interno ricavarne, con lavoro certosino e paradossale, figure di ogni genere, intagliate con perfezione disarmante e con piccole sbavature che fanno del lavoro un lavoro umano non meccanico, non tecnico in senso moderno. Chissà da quando l’arte è divenuta tale, ovvero una forma dell’operare umano distaccata da ogni altra forma di esposizione e di creazione!
E così lo dobbiamo ammettere: forse abbiamo goduto nell’eccedere le nostre sensazioni. Abbiamo provato la finzione di essere ancora noi e sempre “primitivi”. Quando invece tutto si risolve (probabilmente) in un abile e gradevole divertissement.
E così ce ne ritorniamo verso casa, senza pensarci più di tanto.

 

Eden
di Oreste Zevola
Pan – Palazzo delle Arti di Napoli
Dal 25 settembre al 17 ottobre 2012.

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