“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 31 March 2014 00:00

Il grande attaccante

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Sono stato un grande attaccante, il terrore delle difese. Ho vissuto e goduto nell’era dei titani. Non so dirvi cosa abbia rappresentato per me veramente il calcio. Forse un modo di amare, ma anche di odiare. Le due cose vanno a braccetto, tutto sommato. Lo hanno fatto per tutta la mia vita. Un’esistenza all’apice, ma silenziosa. A tratti confusa, ma mai urlata. Le mie vicende extracalcistiche erano sempre raccontate sottovoce. Nei corridoi, nelle palestre, durante le docce. Gli sguardi sinistri e beffardi li ho sentiti sul collo da quando avevo 12 anni, li ho accettati, spesso a malincuore.

A suon di gol sono andato avanti, infilando da destra e da sinistra, da tutte le posizioni, sopra e sotto. E quante volte poi me lo sono fatto infilare io?! Tante volte, tutte memorabili. Forse non tutti sanno che adoro il cazzo. Quando venni acquistato dalla mia attuale squadra la voce già girava, ma effettivamente nessuno ne aveva certezza. Del resto, l’omosessualità nel calcio è cosa poco nota, oltre che assai poco gradita.
Ad ogni modo, l’attaccante che avrebbe fatto di lì a poco coppia fissa con me mi faceva proprio sangue. Non vedevo l’ora di scrutarlo per bene sotto la doccia. Esordii con la squadra il 22 dicembre, pochi giorni prima di Natale; faceva un freddo cane, ma io avevo una gran voglia di esultare togliendomi la maglia per mostrare i pettorali scolpiti e abbracciare i compagni di squadra. Detto, fatto! All’ottantottesimo minuto, il mio partner d’attacco s’inventava un cross in sforbiciata dalla linea di fondo ed io mi feci trovare pronto ad insaccare di testa in rete per il gol vittoria. Corsi ad abbracciarlo. In un orecchio gli sussurrai: “ti meriteresti un pompino mondiale per questo assist”. Quel bellissimo figlio di puttana, con un sorriso, mi disse: “pensa a giocare ricchione, che la partita non è ancora finita”. Be’, per non tirarvela tanto per le lunghe, passai tutta la serata a spompinarlo. Rimanemmo negli spogliatoi fin dopo la doccia. Aspettammo che gli altri compagni di squadra uscissero tutti facendo finta di perdere tempo con la sua nuova applicazione che aveva scaricato per lo smartphone. Quando rimanemmo soli disse: “ascoltami bene, io non sono frocio. Vuoi zucarmi la banana? Ok, ma nient’altro. Io non lo tocco a te, e non me lo fai nemmeno vedere. Appena lo cacci fuori te lo scamazzo sotto i piedi”. “Per me va bene” risposi. Ma ero curioso di capire perché avesse accettato di farsi fare un pompino da un uomo, così gli chiesi: “Scusa, curiosità femminile, ma perché te lo fai fare se non ti piaccio?” – e lui, con quel suo accento pugliese – “mica mi piaci tu, me piece o bucchino. E mo zuca e stattu citt!”. Aveva un notevole 22 centimetri, così ad occhio. Era molto severo, quasi austero. Non era all’insù, ma aveva un’aria arrogante, pieno di arterie e vene che si gonfiavano sulla dorsale facendogli assumere via via un’aria sempre più vogliosa.
Il match successivo lo giocammo con la prima in classifica. Era lo scontro diretto, visto che noi eravamo terzi, ma a soli due punti di distacco. Stavolta feci di tutto per far segnare il mio partner. All’inizio cercai di servirlo con passaggi filtranti di prima, in modo da prendere in controtempo la difesa avversaria e sfruttare i suoi movimenti in verticale. La linea difensiva della capolista però era molto ben allenata e faceva la tattica del fuorigioco alla perfezione. Alla fine dovetti optare per l’azione personale. In un primo momento provai cercando il cross dal fondo, ma i difensori in un paio di circostanze riuscirono ad anticiparlo di testa, in un altro paio di azioni invece i miei cross non furono precisi e non ebbi altre occasioni per sfruttare questo schema. Alla mezz’ora della ripresa però, dopo che loro avevano sprecato almeno tre clamorose palle gol lasciando il risultato ancora sullo 0 a 0, ebbi improvvisamente un varco centrale. Mi infilai palla al piede in mezzo ai difensori e mi trovai a tu per tu col portiere. Sulla sinistra avevo ampio specchio di porta per battere subito a rete, ma non volevo segnare. Temporeggiai un millesimo di secondo, il tempo giusto per permettere la rimonta del difensore alle mie spalle che stava intervenendo in scivolata alla disperata. Fu un attimo, tipo il batter di ciglia, ma riuscii in una frazione di secondo a mettere il piede destro a protezione del pallone in modo da far impattare la scivolata del difensore sulla mia caviglia e non sulla palla. Rigore ed espulsione! Il rigorista ero io, ma volevo che segnasse il mio amico. Del resto con quel fallaccio sulla caviglia non potevo certo rischiare un calcio di rigore. “Tocca a te, segna. Io non ce la faccio a tirare, mi fa troppo male”, ovviamente non era vero. Portiere da una parte e pallone dall’altra. In 10 non riuscirono a combinare molto e vincemmo anche quella balzando al secondo posto (nel frattempo la squadra che era seconda aveva vinto diventando nuova capolista).
Ancora una volta negli spogliatoi, dopo la doccia, rimanemmo soli. Stavolta però volevo di più. Intendiamoci, mi piaceva succhiargli l’uccello, l’avrei fatto volentieri di nuovo per tutta la notte come la volta precedente, ma volevo portare il nostro rapporto ad uno step successivo, tutto qui. “Che ti va di fare, stavolta?” esordii. E lui: “Guagliò, mettitelo bene in ghepa. Ti ho fatto luvare lo sfizio l’altra volta. Ti può bastare. Se proprio me lo vuoi zucare n’altra volta, inginocchiati e zuca. Però, ti avviso una cosa: bello, guarda che si sta storia esce da questa stenza, ti taglio la chepa! Hai capito?!”. Era molto serio, si vedeva da come gonfiava la vena del collo, simile a quella che aveva sul suo bel cazzone di 20 centimetri e passa. Sorridendo gli accarezzai il viso e gli dissi (o meglio, provai a dirgli): “dai, stavo scherzando”. Non mi diede il tempo di finire la frase che mi arrivò una sberla potentissima che mi prese tra l’orecchio e la guancia sinistra. Per un attimo mi mancarono le gambe e mi appoggiai all’armadietto dietro le mie spalle. Mi parve di sentire lui che sbraitava ancora qualcosa. Sembrava dialetto pugliese stretto, ma non ci capii molto, e mi girava anche la testa. Riuscii ad afferrare solo: “ffsqesfbsfhsfsd dgsdfgs df dgsd Ricchion!!!”.
Avevo la mente annebbiata e, non so perché, una strana rabbia iniziava a possedermi. Sentivo che qualcosa di disumano stava per crescermi dentro. Molte volte, fin da piccolo, ero stato oggetto di soprusi da parte dei bulli del quartiere che mi insultavano e mi picchiavano, ma mai avevo provato una rabbia simile. Presi il tavolinetto che era per terra davanti ai miei piedi, quello che il mister usa per poggiare i foglietti delle tattiche personali, e glielo frantumai in faccia. Cadde di colpo a testa indietro. Aveva il volto ricoperto di sangue ma non mi bastava. Lo presi a calci in faccia con i tacchetti. Poi iniziai a toglierli dalla suola e, ad uno ad uno, glieli infilai su per il culo. Emetteva uno strano rantolo che si acutizzava e diventava più gutturale con il sangue che gli fungeva da collutorio in gola. Tirai fuori il mio uccello e inizia a masturbarmi. Sempre più veloce, sempre più veloce. Lui, che ormai era una macchia di sangue, cercava di indirizzare lo sguardo sofferente verso di me per capire cosa stessi facendo, o forse per farmi pietà e indurmi a fermarmi. Non mi fermai, gli sborrai tutto in bocca fino a farlo soffocare nel mio sperma e nel suo sangue. Fu una liberazione, anni e anni di merda ingoiata e sputata di botto in faccia a questo terroncello di periferia. Mi sentivo finalmente bene. Finalmente un uomo. Un calciatore con le palle. Il miglior attaccante del campionato. Quello che si sta inculando ad una ad una tutte le difese avversarie e che ora lotta per il titolo. ‘Sono il numero uno’ pensavo. Ero felice.
“Ricchion, scetate! Hai finito de fissere il tavolino?”. Mi girava ancora la testa quando lui mi prese per i capelli e mi disse: “Guagliò, si giochi tra due settimane come hai giocato oggi, lo scudetto è nostro”. Tra due settimane avremmo giocato con la squadra momentaneamente al primo posto. Purtroppo però quella partita sarebbe poi finita 0 a 0 e i sogni scudetto sarebbero svaniti la settimana successiva con la sconfitta clamorosa in casa contro l’ultima in classifica. L’imponderabilità del calcio. Quanto a questa storia, il mio partner d’attacco era lì che ancora continuava a gridare cose incomprensibili in arcaico dialetto pugliese. Poi, sempre tenendomi la testa tra le mani, mi disse: “cul rù, muvete. Mmoccate stu puparul, tremone”. Ero già in posizione, aprii la bocca e glielo succhiai tutta la notte, ancora una volta.

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