“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 20 March 2014 00:00

Un volo inaspettato

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Rimuginare ultimamente le dava fastidio. Doveva convertire l'incazzatura in qualcosa di utile. Scrivere? Fotografare? Cucinare? Ecco, avrebbe cucinato un bel pollo alla cacciatora. Anzi no. Le costolette di maiale allo zucchero di canna. Era troppo arrabbiata, le mani le tremavano mentre tritava l’aglio per la marinatura. Voleva ucciderlo. Se fosse stato qui l’avrebbe sicuramente preso a calci. Ma tanto valeva. E, soprattutto, ne valeva la pena? Eh. Mah. Eh. Mah. E tutti i ma del mondo.

Le mancavano le bacche di ginepro, porca miseria. Non aveva di nuovo fatto la spesa, senza bacche non si va da nessuna parte. Cosa le stava dando fastidio? Cosa? Lo stomaco chiuso, la tachicardia opprimente, il mal di testa. Eppure era solo un cretino, stronzo per di più. Ma se lo sapeva perché la tachicardia aumentava in modo esponenziale ogni volta che lo pensava? Aveva la grazia di farla uscire dai gangheri per ore. Mentre versava olio e curcuma in una ciotola si era ricordata di un racconto scritto da una tale Stella di cui le sfuggiva il cognome. Narrava di due che facevano sesso in cucina, poi lui cadeva. Poi resuscitava. Ma lei avrebbe voluto farlo a pezzi sotto sotto.
Ecco, era ora di comprare i sacchetti freezer e una bella accetta. Ma vaffanculo anche l’accetta. Via un piatto contro il muro. Il fragore della porcellana sottile, niente lo eguaglia. Brava tesoro, sfogati. Sbam! Un altro piatto e un altro ancora. Ti odio maledetto. Maledetto cosa? Maledetto punto e basta.
Il resto non aveva più importanza. Non riusciva a respirare, il cuore le soffocava la trachea tanto sbalzava. Lo xanax, prendi il botticino. No, lo xanax no, dopo tutti gli sforzi fatti per smettere. Aveva anche smesso di fumare… appunto. Era senza sigarette e in mezzo ai cocci, accovacciata sul tappetino sotto al lavello. C’era polvere bianca dappertutto e lei di polvere bianca non voleva più sentir parlare. Di qualsiasi polvere si trattasse. E nemmeno di quella porta chiusa male. Erano stati anni difficili dove il giorno era uguale alla notte e la notte uguale al niente, dove oggi era uguale a domani e domani al giorno dopo. O forse al giorno prima. Era tutto piatto e senza colore, traboccante tristezza dietro ad una facciata nervosa. Aveva l’angoscia. Lascia andare dai, non c’è più né lui né le nottate a giocare a carte. Non c’è più niente e sei riuscita a salvarti, nonostante tutto. Però durante la salvazione aveva perso la stima di suo padre. Le colpe date solo a lei, la casa abbandonata correndo fuori dalla porta un giorno in una settimana qualunque di Agosto. Era stanca, stanca di guardare lui come la macchia indelebile nella sua vita. Voleva uno smacchiatore.
Doveva uscire. Sneakers, tuta e via di corsa verso la macchina. Si va al mare. O in campagna. Non aveva mai avuto le idee molto chiare e l’arrabbiatura non faceva che peggiorare le cose. Ma vaffanculo a ‘sto cretino. Quello nuovo. Non che quello prima fosse un falco, comunque. Aveva un radar particolare, lei.  Un grande turbinio di visi dietro agli occhi. Piangeva a dirotto, si era anche tagliata con un piatto e c'era sangue ovunque. Un salto veloce in bagno, niente cerotti. Che sorpresa, la disattenzione come stile di vita. Era disattenta su tutto, soprattutto nei propri confronti. Anzi, solo nei propri confronti. Quando si parlava degli altri era vispa e acuta e cercava sempre di soddisfare i bisogni di tutti. Certo che scoprire il trauma che le faceva avere così paura degli uomini sarebbe stato come vincere un terno secco al lotto.
Era successo qualcosa in quella parola “Peggio...”. Dietro il virgolettato precedente “È una cretina, credimi” che le aveva disturbato il sistema nervoso. Forse perché suo padre le diceva sempre che era cretina? Forse perché cretina ci sarà stata quella lì che aveva partorito la frase? Forse perché l’unico cretino era lui che aveva risposto “peggio…”. Ma fottiti tu e il tuo peggio. Sfigato. Ma allora, perché piangeva? Posto che lui era uno stronzo e si sapeva. Che le aveva mentito fin dall’inizio e si sapeva. Che al suo paese ne dicevano di cotte e di crude di lui e del suo matrimonio. Che suo padre avesse di lui la stessa opinione che avrebbe potuto avere nei confronti di un anellide. Ma cosa c’era che le dava così fastidio? La sconfitta? Respira dai, respira che se continui così ti viene un infarto in meno di mezzora, invece devi uscire, prendere la macchina e andare.
Ci provò a respirare, così tanto che quasi le venne una crisi di iperventilazione. Era il cuore. Era così. Non che soffrisse di cuore in senso stretto. Soffriva di cuore nel senso affettivo del termine. Era come correre in tondo quando si trattava di amore, per lei. Non si arrivava mai da nessuna parte. E giù a chiedersi i mille perché dei perché e dei percome. Uscì sbattendo la porta, con le scarpe metà allacciate e metà no, con una tuta sdrucita di almeno dieci chili prima che le stava bene tanto quanto un sacco della spazzatura. Non aveva preso l’acqua. Fa niente, poteva comprarla in autogrill. Quindi si era deciso per il mare? Pareva di sì. E ci si metteva pure la pioggia... Giù dagli scaloni, il solito portone, il solito nulla fuori in strada ad attenderla. Vaffanculo. Un mantra che ormai ripeteva da ore. Cretina a me. Anzi, peggio di cretina. Appunto. Facebook strumento creato dal demonio che distrugge qualsiasi possibilità di riparare rapporti in frantumi. La granata del web. Fonte infinita di amicizie indissolubili ma mai di rapporti amorosi. Guai. E pensare che in Australia il cinquanta per cento delle relazioni iniziava proprio sul web. Relazioni sane e durature, seguite spesso da matrimoni con figli. No, no, noi in Italia eravamo troppo indietro. Confondevamo ancora il web per una chat erotica, con tutti i danni del caso.
Pioveva talmente forte che, maledizione, non riusciva a vedere l’asfalto. Si accorse di essere al casello solo al “Ritirare il biglietto” urlato dalla colonnina. Aveva fatto il tragitto in trance, oscurata dalle lacrime. Se devi piangere, piangi; si era detta guardandosi nello specchietto retrovisore. Aveva un aspetto orribile, ma contava su un miglioramento marittimo, c’era da sperare che la giornata volgesse al meglio. L’autostrada correva diritta verso sud e i tir spalavano acqua sui vetri come un mare in tempesta, ma poco le importava. Guidare sotto la pioggia le era sempre piaciuto. Si accorse che pensava a quel cretino da ben cinque minuti, un miracolo. Vaffanculo. Ma vacci veloce come quella volta che ti ci ho mandato qualche mese fa, idiota. Niente da fare, era inferocita; si sentiva come quando  prese tre in italiano in terza liceo e arrivata a casa si ingoiò un bel tris di scatole di sonniferi di sua madre, come migliore soluzione alla vergogna. Si vergognava! Ecco cosa poteva essere quel male incurabile che la assaliva ogni volta. Vergogna. Chissà se l’omeopatia aveva qualche rimedio profondo per la vergogna....o se c'era qualche olio essenziale che la aiutasse a venirne fuori… Aveva voglia di tornare indietro per andare in erboristeria a prendere appuntamento per un consulto. Il cuore pompava velocissimo, le vene della nuca si gonfiavano. Le sentiva pulsare dietro alle orecchie. Lo stomaco cominciava a girare. Stava arrivando un attacco di panico, ma lei proseguì imperterrita verso sud. Allo svincolo girò a destra. “Niente Genova per oggi” sussurrò, guardando il mare luccicante sotto il sole delle sei di pomeriggio.
Stava per tramontare, ma ci sarebbe stato ancora qualche minuto per scattare un paio di foto. Con la reflex che aveva lasciato sul tavolo da pranzo. Era distratta, da mesi ormai. E si sentiva talmente sola che aveva preso l’abitudine di parlare al vuoto. Se ci fossero persone oltre lo spazio percepibile lei, questo, non poteva saperlo di certo. Però ci provava ogni giorno a scambiare due chiacchiere con la super realtà che la circondava. Forse era impazzita senza capire bene in che momento e, adesso, piangeva di nuovo. Per la stanchezza, la delusione, le costolette senza bacche di ginepro, il sangue delle costolette sotto le unghie che non  aveva spazzolato, il rimmel che le colava sul viso. I viadotti. Erano cominciati da un paio di minuti e ognuno di loro offriva mirabili scorci di mare lucido. Stava ormai scendendo la sera e più procedeva verso ovest più il traffico si diradava. Optò per l’uscita vicino al confine. Aveva visto l’indicazione per quel ponte da cui ci si buttava con l’elastico. Che strana abitudine quella di buttarsi nel vuoto per poi tornare su. Mi suicido, rimbalzo e torno indietro. Non aveva mai capito se era perché non ce la facevano a suicidarsi o perché erano completamente deficienti per volerci andare così vicino. Dopo una decina di curve arrivò al ponte. In lontananza il mare. E le luci. “Il batticuore è sparito” pensò, mentre parcheggiava e scendeva dalla macchina per avvicinarsi al parapetto. C’era un bel venticello tiepido e l’aria sapeva di salsedine. Se avesse potuto tornare indietro avrebbe fatto gli stessi errori? Tutto intorno taceva nel buio delle colline liguri. Sicuramente qui non c'erano i lupi… Vaffanculo. Scavalcò il parapetto e si mise a fissare l’orizzonte davanti a sé. Bastò sporgersi leggermente in avanti.
L’ultimo pensiero fu per sua madre e per sua nonna. Per i lupi che forse c’erano nei boschi. Poi fu tutto un volo ad occhi chiusi e senza respiro. Volava verso il mare, verso la luce. Catarsi di tutti i suoi mali. Acqua e sole e ali per volare sopra lo scempio che le si era fino a quel momento parato davanti col nome di vita. E quante volte avrebbe voluto cambiare, essere migliore. Cose impossibili da realizzare in vita. Si avvitata come un gabbiano sopra le colline verdi di ulivi, cercando uno spiazzo dove poter atterrare. Non cadeva verso il vuoto. Non le sarebbe capitato mai più. Non credeva che potesse essere così il dopo. E non faceva nemmeno male. Atterrò per riposarsi, ripromettendosi di ripartire dopo aver tirato il fiato. Cercò di sgranchirsi un po’ le ali, le braccia. Non erano ali quelle. Era lei che volava, come nei fumetti. Leggera. Anche le gambe erano stanche, avevano bisogno di riposo dopo una vita di corsa. Quindi si sdraiò, nel verde e nel profumo che poteva essere di rosmarino. Forse era arrivata fino in Sardegna in quel breve volo. Cercò di girarsi su un fianco e di stendere le gambe. Il sole batteva forte. Si accorse di essere avvolta in una specie di bozzolo e di non riuscire a divincolarsi. Cosa stava succedendo? Qualcuno voleva imprigionarla! Stava per succedere qualcosa, qualcosa si muoveva tra gli alberi e c’era fumo. Un fuoco forse. Magari c’erano altre persone, ma lei proprio non riusciva a rialzarsi.
Finché improvvisamente si divincolò, ansimando per lo sforzo e prendendo un’ampia boccata d’aria.
Quando si fosse addormentata esattamente non riusciva a collocarlo in memoria. Non era sicuramente sdraiata su un prato verde circondata da lupi, ma era sul suo divano avvolta nella grande coperta che le bloccava le gambe, appena in tempo per salvare il falò di costolette di maiale che aveva sui fornelli. Ecco da dove veniva il fumo.
Sarebbe stato meglio uscire e comprare le bacche di ginepro, pensò, invece di pensare a quel cretino.



PS: la foto è di Cristiana Folin.

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