Entro in sala operatoria, soprascarpe, cuffia, mascherina, devo avere uno sguardo esagitato o forse è solo il tono della mia voce che spinge tutti a guardarmi. Il chirurgo non alza gli occhi dal campo operatorio, sa bene cosa cerco, crede che io abbia già avuto le mie risposte. Io intanto penso che ha mani eccelse, ma non ha fegato e non ha cuore.
"Se è per la paziente di ieri è inutile che insista" dice senza guardarmi. Il mio respiro è affannoso, chiuso nella mascherina. "Firmerà un foglio. Lei non avrà alcuna responsabilità in caso di… fallimento". Finalmente alza gli occhi, mi fissa per pochi istanti, soppesa il mio tono sprezzante, anche l’anestesista mi guarda adesso, la ferrista, solo il rumore del respiratore. E del mio respiro. Dopo un attimo io non esisto già più, tutto riprende il proprio ritmo: ”Faccia tutti gli esami necessari all’intervento” dice asciutto.
Ed eccomi qui, adesso, davanti alla lastra del torace della signora Bianca. Solo una lastra di routine.
Sto per andare di là, per dirle che ha una grossa palla nel polmone e invece vorrei spingere questa scrivania e rovesciarla, correre fuori e andarmi a comprare un rossetto e staccare la spina per non dover ogni volta restare impigliata nelle vite degli altri. Nella vita della signora Bianca, con la nuova casa in cui stanno facendo il controsoffitto e sua figlia che studia per gli esami di patente.
Quanto è labile il confine tra il loro dolore e il mio, quanto è giusto entrarci o restarne fuori, non lo so mai, ogni volta mi porto a casa pezzi delle loro storie, incastrate nei miei silenzi amari.
È una roulette russa e io posso solo stare a guardare. Ma prima devo guardare dritto negli occhi tutto quell’azzurro e dire quanto resta. Non so se ce la faccio.
Non posso delegare. Sta a me.
Signora Bianca, ecco cosa può fare il suo angelo.