“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 04 March 2014 00:00

L’incontro

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Marta era sul treno, seduta dalla parte del finestrino, e guardava scorrere i paesaggi davanti ai suoi occhi: tutto sembrava far parte di un grande flusso di luci, colori e forme. Di quel paesaggio in movimento non riusciva a distinguere nulla, la sua mente era simile a quella visione: fulminea e confusa.
L’aria condizionata le faceva ghiacciare le ossa e strofinò le mani sulle spalle, per scaldarle. Erano passate già tre ore e Marta aveva voglia di sgranchirsi le gambe, ma non voleva disturbare l’austero uomo d’affari che, seduto al suo fianco, scriveva freneticamente numeri al computer. “Che vita triste dev’essere la sua", pensò.

Seduta davanti a lei c’era una giovane donna, gracile nei suoi vestiti firmati, i capelli tanto strettamente raccolti che dovevano dolerle alla testa, lo smalto rosso e gli occhi vuoti cerchiati da una spessa linea di matita nera. Più in là alcuni bambini si rincorrevano, si picchiavano e infine cadevano a terra esausti. Due giovani si guardavano fissi, immobili, come stessero sognando l’uno negli occhi dell’altro.
Marta ora fissava la spilla sul petto della giovane donna. Pian piano quella perse forma, colore e all’improvviso riemerse alla sua memoria il tempo della sua infanzia, quando la Maestra la puniva mettendola col banco fuori dalla classe, faccia al muro.
“Ricordo che i primi minuti me ne stavo ritta sulla sedia”, pensava, “immobilizzata dal pensiero ch’ella potesse tornare a controllarmi, poi la tensione diminuiva, allora mi alzavo e cominciavo a camminare avanti e indietro come una marionetta, per passare il tempo. Poi, mi sembrava di sentire i passi della Maestra avvicinarsi alla porta e balzavo sulla sedia trattenendo il fiato: ma niente. A quel punto mi rialzavo e posavo l’orecchio sulla porta: sentivo le voci nella classe e immaginavo cosa stessero facendo tutti gli altri bravi bambini. Mi sembra ancora di vederli, gli angeli, in silenzio e composti. E io, l’esclusa. Loro dentro, io fuori. Tutte quelle ore passate ad immaginare gli oggetti all’interno, i colori dei gessetti che la Maestra stava utilizzando, i miei compagni, la finestra che dava sul giardino...”.
In quel momento passò il carrello di cibi e bevande:
− Signorina, desidera qualcosa?
ma lei non rispose.
Ritornò alla realtà solo quando il treno si fermò bruscamente, facendola sobbalzare sulla poltrona. A quel punto si rese conto che nel suo scompartimento tutti se n’erano andati ad eccezione dei due giovani che stavano ancora lì a fissarsi. Li guardò più attentamente. Lui aveva capelli ed occhi scuri, teneva un libro tra le mani − Marta tentò di scorgerne il titolo inclinando leggermente la testa, ma non vi riuscì − e con un’aria assorta pareva scrutare qualcosa di impenetrabile, quasi oscuro. Lei invece aveva occhi vispi e vivi, sosteneva lo sguardo ostinato di lui quasi vi esercitasse una irresistibile forza magnetica.
Passò il controllore e Marta gli porse distrattamente il biglietto, lui con movimento meccanico lo prese, lo guardò e subito passò allo scompartimento successivo. Osservò che si muoveva come una marionetta: abbassava la testa, allungava e ritraeva il braccio sempre allo stesso ritmo, come se le sue membra fossero legate a fili mossi da una macchina infernale che lo costringeva a compiere, quasi contro la sua volontà, sempre gli stessi movimenti.
Marta si annoiava, avrebbe dovuto pur fare qualcosa in modo da far scorrere più velocemente quelle interminabili ore di viaggio, dunque prese il suo taccuino − quello nero, sul quale di solito appuntava i suoi pensieri − e scrisse:

13 giugno 2014
Finalmente tra poche ore lo vedrò. Ho paura, quasi tremo. Ma così vuole il destino: mi basterà guardarlo negli occhi, anche per un solo istante e capirò tutto, le parole non serviranno. Come per quei due giovani là avanti. Distruggerò quel muro che mi costringe a vivere rinchiusa nella mia immaginazione, che mi impedisce di vedere l’essenziale bellezza del mondo al di fuori di me.

Aveva conosciuto “lui” su un sito di incontri. Non le era mai parso una persona meschina o opportunista, come la maggior parte delle persone che si incrociano solitamente in quei luoghi virtuali. Aveva nutrito di lui la sua mente per mesi, fino a crearsi un’immagine nitida quanto fragile della sua persona. Fragile perché non vi era alcuna certezza, né che l’individuo reale corrispondesse a quello virtuale, né che esso stesso fosse esattamente come Marta l’aveva disegnato su quella sua grande tela mentale. Ogni giorno aveva lavorato alla sua opera, aggiungendo sempre nuove sfumature, nuovi particolari, nuove pennellate di luce. Forse un getto d’acqua avrebbe cancellato tutti i colori che Marta aveva giorno per giorno dipinti. Forse ora quel rapporto così inafferrabile e incorruttibile si sarebbe contaminato o addirittura infranto a contatto con la realtà.
Perché non poteva chiamare amore quella cascata di interconnessioni cerebrali che la univano a quella persona; non poteva chiamare amore quella marea di associazioni mentali che la spingeva a riva esausta, dopo essere affogata negli abissi dell’assoluta intangibilità.
Marta appoggiò la testa al finestrino e chiuse gli occhi, immobile, cercando di frenare i suoi pensieri: era quasi arrivata a destinazione.
Quando scese dal treno, si guardò intorno spaesata. Era un caldo pomeriggio di sole, il cemento pareva ribollire sotto i suoi piedi. La stazione era affollata, tutti passando la strattonavano e lei per poco non cadde a terra. Lui le aveva detto che si sarebbero incontrati sotto l’enorme orologio della stazione. Lei si diresse al luogo prestabilito ed attese sotto i raggi cocenti che, come lunghe dita dalle unghie dorate, le graffiavano la pelle.
Dopo qualche minuto, vide da lontano avvicinarsi un ragazzo molto alto, dall’aria familiare. Era certa che fosse lui. Allora cominciò a camminargli incontro a testa alta, cercando un segnale nei suoi occhi. Il ragazzo l’aveva riconosciuta perché a sua volta la scrutava. Nel momento stesso in cui stavano per incrociarsi lei accennò un sorriso, ma lui le passò oltre. Solo le loro mani si sfiorarono. Una lacrima le rigò il volto e stette immobile, come pietrificata, sotto il cielo azzurro e crudele.
Marta non avrebbe potuto sognare in altro modo il primo incontro con “lui”. Un rumore provocato da un vicino passeggero l’aveva d’un tratto destata. Si rese conto di aver realmente raggiunto la meta, corse in bagno a sistemarsi e, quando venne il momento, scese dal treno.
Il vento le attraversava i capelli, il cielo era di un blu chiarissimo, il sole la accarezzava con delicatezza.
Si diresse verso l’orologio. Lui stava già lì ad aspettarla con le braccia incrociate, battendo il piede a terra per l’agitazione. Marta lo riconobbe subito e si fermò, come qualcuno che voglia soffermarsi ad assaporare la visione di un paesaggio, per guardarlo da lontano. Sentiva l’adrenalina correrle lungo tutto il corpo, il cuore le batteva all’impazzata, le dita le tremavano.
Quando si trovarono l’uno di fronte all’altro, le parole vennero meno e stettero a guardarsi, con lo stupore misto a paura di quelli che per la prima volta vedono il mare.
Si allontanarono fianco a fianco, mormorando qualche inutile parola, mentre dietro di loro il cielo si tingeva di rosso e il grande orologio muoveva la sua sottile lancetta nera.

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