“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 03 February 2014 00:00

Difesa e contropiede

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A volte rischio di promuovere oleograficamente il calcio a metafora di una nazione, me ne assumo la responsabilità, ma la stanchezza e l’implosione hanno coinvolto in contemporanea le pareti del corpo statale, partiti e parrocchie, e questo sport vissuto alla maniera dei Boniperti e dei Viola.
Un calcio da album delle figurine, da foto di gruppo in piedi e accosciati, da bianco e nero inteso come unico accostamento di colori possibile date le tecnologie a disposizione. Le poche trasmissioni erano gestite come una pesca a premi alla festa di fine estate. Vi smanettavano con un foglio di appunti che riportava le occasioni principali delle partite, o forse la lista della spesa da fare appena sfuggiti dallo sguardo indiscreto della telecamera, personaggi strapaesani che credevo confinati a discutere nei bar e nelle panchine dei parchi.

I calciatori tornavano dall’allenamento, e per estensione gli operai e i contadini dalla fabbrica e dai campi, trovando a casa non le escort ma le mogli in regola che avevano già apparecchiato la tavola con un piatto di minestra. Si muovevano pur sempre milioni, se non miliardi, ma in linea con una cadenza levantina, dove l’assenso al ritorno dei calciatori stranieri, uno solo per squadra poi cautamente due, dà veramente la sensazione di parlare di prima del diluvio. Che polemiche all’apertura delle frontiere! Era una scelta d’impatto dopo decenni di autarchia giustificata dal tiro di un dentista nord-coreano che eliminò l’Italia dal mondiale in Inghilterra. In ogni angolo dello Stivale si ragionava di questo: l’atmosfera somigliava a quella che vissero i legionari quando da Roma partì il dispaccio imperiale che consentiva ai Goti di varcare il Danubio.
Al di là dei sussulti, scontati, del partito della chiusura a oltranza, il calcio italiano era generoso, consentiva di gestire una società calcistica come il buon padre di famiglia del codice civile. Presidenti come Rozzi, Anconetani, Sibilia… Pisa, Ascoli, Avellino, che insieme fanno appena gli abitanti di Brescia, restarono un decennio in serie A, con i loro telecronisti, uomini a metà fra un’uscita di caccia al cinghiale e l’avanspettacolo del Bagaglino. Gente che sbagliava i nomi, gli accenti dei giocatori e non gliene poteva fregare di meno, perché in fondo erano i tifosi i primi a infischiarsene. Gente però che spendeva una vita a ricercare il tesoro di Schliemann − sì, lo scopritore di Troia mica l’ultimo soprintendente archeologo − e veniva gambizzata dalla camorra per il suo coraggio: Luigi Necco. Gente che poteva dire io c’ero durante l’assalto al villaggio olimpico di Monaco del commando di Settembre Nero ai danni degli atleti israeliani. Anzi: Piero Pasini era l’unico testimone diretto. Morì durante la radiocronaca di Bologna – Fiorentina a Tutto il calcio minuto per minuto.
Gente come Beppe Viola che scriveva su Linus, canzoni con Enzo Jannacci e i testi del Derby Club di Milano da dove transitarono Massimo Boldi, Teo Teocoli, Cochi e Renato, Paolo Villaggio, Lino Toffolo. Senza il grande Beppe Viola, mai avremmo avuto Quelli che il calcio. O magari avremmo avuto Quelli che il calcio condotto da Beppe Viola. Che fine avrebbero fatto, allora, Fabio Fazio e, esagerando con la concatenazione, Fazio e Saviano insieme, Vieni via con me, Quello che (non) ho?
Su tutti Gianni Brera. Fiasco alla Guccini in bella vista, dispensava perle di saggezza e soprannomi a improbabili uditori. Una sera lo sentii citare Joyce all’approssimarsi di una partita contro l’Irlanda. Una cosa pazzesca. Eppure Grangiuàn andava diritto, al netto delle sbuffate di pipa. Brera sapeva smascherare, rivelare, il genius homini e il genius loci: per il primo caso non è possibile tralasciare il famoso abatino, amaro calice che ancora è costretto a sorseggiare Gianni Rivera (leggi le parole che accompagnarono l’epiteto per capire la cultura di quest’uomo: "un omarino fragile ed elegante, così dotato di stile da apparire manierato e, qualche volta, finto"). Per il secondo caso cito a ragion veduta i suoi corsivi dove un giocatore della Sampdoria di nome Gianluca diventava Stradivialli. Capivi come Cremona fosse terra di liuti e di sforbiciate. Comunque di fuoriclasse.
Grazie a Gianni Brera calcio e carattere nazionale si specchiavano e si riconoscevano. Sosteneva che se i tedeschi li chiamano ‘panzer’ anche quando scendono in campo con la loro rappresentativa ci sarà una ragione. Se i francesi sono una formazione caffelatte ce ne sarà un’altra. Se i portoghesi ascoltano il fado, come non possono muoversi rallentati perfino a tu per tu con i portieri avversari? Di questo filosofeggiava trascurando il resto.
Se gli italiani avevano inventato la difesa e il contropiede era perché da quando formavano una nazione non collezionavano che giri di valzer e ambiguità agli occhi del mondo. E se mentre un tempo facevamo solo ridere i polli, oggi abbiamo superato ogni aspettativa provocando sghignazzi a cancellieri tedeschi, presidenti francesi e dittatori kazachi. Se siamo così, mai esposti e sempre inattendibili, pronti a cambiare partner alla prima occasione, perché rinnegare quest’anima furbastra nel calcio? Difesa e contropiede, il libero dietro le linee e tanti saluti al modulo ungherese W M che da schiacciasassi qual era, nel giro di un niente, a causa della nostra impostazione, venne relegato in soffitta. Gianni Brera lo sapeva: non aveva senso scervellarsi con le teorie e il calcio votato al pressing. Non è nelle nostre corde, semplicemente. Siamo nati per difendere anche sotto di 1-0. In qualche modo, magari presto, qualcosa succederà e non è detto che non vada nel modo migliore. Guarda te, l’unica guerra che abbiamo vinto qual è stata? Lì, a difendere la sconfitta, trincerati in Veneto, quando gli austriaci parevano arrivare a Bologna in quattro e quattr’otto e invece li abbiamo ricacciati per sempre e pure fregato mezzo Tirolo. Le volte che abbiamo attaccato, tipo Francia e Grecia nel ‘40, che è venuto fuori?
Gianni Brera amava citare l’Uruguay del 1950 che a forza di immigrati nostrani e dato come sicuro perdente al Maracanà, non si riversò in attacco seppur obbligato a recuperare ma restò ostinatamente fedele a questa follia del primo non buscarne. Finì per ribaltare il risultato grazie a due squallidi contropiede deplorati dagli esteti, vincere 2-1, portare a casa la coppa del mondo e gettare nel dramma l’intero Brasile. Suicida non era la tattica uruguagia ma fu il destino di tanti carioca che non credevano ai loro occhi.
Giampiero Boniperti metteva i contratti davanti agli occhi e chiedeva gentilmente la firma. "Ma qui non c’è scritto quanto guadagno, io pensavo a un aumento…". I giocatori ci mettevano un po’ ma poi capivano che il silenzio e l’espressione di Boniperti non lasciavano adito a dubbi: quel pezzo di carta sotto il naso era un prendere o lasciare. E i giocatori prendevano. Perché andavano alla Juve e questo non aveva prezzo. Oggi, da strapagati, con contratti che vengono scritti e vagliati da pool di avvocati, con benefit inconcepibili per un comune lavoratore di qualsiasi settore, sfruttamento d’immagine, bonus e la scritta Nike che esce perfino dai tubetti e si spalma indelebile sui polpacci al posto dell’ormai vetusto olio scaldamuscoli, scioperano. Ogni tanto un pizzico di sana demagogia ci sta. Mi è scappata, l’ho scritta ed esattamene in quest’istante, il tasto Canc del computer si è inceppato. Anzi, ora che ci penso, spengo proprio tutto.

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