“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 26 January 2014 00:00

Il tempo ed io

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Sono nato a mezzanotte. Minuto più, minuto meno. Perciò i medici ed i miei hanno deciso il giorno, non è stato il giorno a decidere. Dieci ma poteva essere nove. Meglio guardare avanti, si dice. Giugno ottantasette, il muro di Berlino doveva ancora cadere, le guerre che si studiano a scuola erano finite. Le altre c’erano, sì, ma più quotidiane. Quasi innocue, striscianti. Molto meno importanti.

Quando sono arrivato regnavano la pace, la paura di perderla, ideologie già stanche, sfibrate. In mezzo ai corpi, i corpi che esistono senza averlo chiesto. Dopo magari apprendono. Ad avere un’anima, a desiderare. Ad ostinarsi, a continuare. Così io, corpo da pianto, da primi passi, da risata, da grembiule. Nessuno lo racconta però, in effetti, è ridicolo star vestiti tutti uguali tra le poesie a memoria. Col sabato del villaggio, m’illumino d’immenso − la più bella, la più facile − oppure il cinque maggio, il mare mentre urla, biancheggia al di sotto della nebbia. Silvia per me era la bimba al primo banco, lei non sembrava ridicola e non riuscivo a parlarle. Ognuno fa suo il verso ed il verbo. Essere o avere? Intanto confessarsi. Abbracciare quel modo di sentire disagio. Per le mani, per il guardare. È peccato. Può venire naturale. È peccato. Quindi osservare le gocce sulle dita, un Dio arrabbiato, il Dio spione. Segno della croce, confessione. Poi a Natale i cataloghi pieni di colori, le confezioni progettate − ma non lo sai, non te lo dicono, ci caschi − per farti comprare.
Il muro era caduto, consumavamo. E allora volevo, volevo davvero, quasi fino alle lacrime, toccare quelle sfumature, la forma, i personaggi. Piccolo corpo buffo e immaginifico. Sarò un guerriero, un calciatore, sarò. Perché domani mi sveglio, mi sveglio migliore. Domani mi sveglio, lei s’innamora. Gli amici mi ammirano, so palleggiare. Dieci, cento, mille volte, sempre meglio, più forte, più forte. Piccolo corpo imbranato ed uguale. Non cambiavo, niente cambiava. Non si cresce soltanto a volerlo.
Ma certi anni sono uno starnuto, l’operazione per l’appendicite. Sui libri arriva il ’45, Hitler s’ammazza, vincono i buoni. Impari che vivi nel mondo dei buoni. Ci sono i poveri, sei fortunato, è solo un problema da risolvere a breve. Ho fatto il segno della croce tante volte, poi altrettante sono state le domande. Cominciavo a sentire le parole come un bisogno di linee, esigenza di dire. Allora le buttavo sulla carta, le spingevo fuori balbettanti di fronte alle persone. Incertezza, passo a mezzo, passo d’oca.
Ho appreso una fiducia a intermittenza, se avessi avuto altro sarei altro. E magari, se fossimo immortali, a cent’anni potrei dirti scherzando: pensa che da piccolo scrivevo.
Ma non lo siamo ed era il dieci, a mezzanotte.
Guardare avanti è meglio, m’hanno detto.

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