“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Veronica Galletta

Nero

Ho letto da qualche parte che gli scrittori scrivono sempre la stessa storia. Forse anche i pittori, mi sono detta, dipingono sempre la stessa tela. Forse anche io, dipingo sempre la stessa tela. Camminavo stamane, andavo verso lo studio. Era mattina presto, e mi ero alzata con così tanta voglia di dipingere, così tanta voglia, che tutto mi pareva un inciampo, un accidente. Così andavo rasente ai muri, guardando a terra, per non rischiare di incrociare nessuno, per tenere tutto dentro. Dovevo solo dipingerla, dovevo buttarla dentro, tutta quella voglia, così appena arrivata mi sono messa al lavoro, e ho dipinto, sempre, senza fermarmi. Il mio assistente mi guardava senza capire, ma io non c’ho badato. Ho fatto finta di niente, ho continuato. Niente, nulla doveva toccare questo mio cuore stamane, null’altro dovevano guardare i miei occhi, se non il fondo trasparente dell’Arno, e la mia tela.

Dieci luglio

Ora che ci penso, questa storia mi piacerebbe raccontarla diversamente. Vorrei riempirla di metafore, caricarla di significati. Vorrei che diventasse simbolo, monito, e anche un po’ invettiva. Ma poi mi rendo conto che non è niente di tutto questo, è solo una piccola cosa. È la storia del mio lavoro, di come sia molto bello, ma anche molto stancante. Seguo cantieri, a volte più di uno, spesso lontano da casa. C’è stato un periodo in particolare in cui ne avevo veramente tanti. Troppi. Non lo so perché li avessero dati tutti a me quei cantieri così lontani, vorrei pensare che è perché ero molto brava, e il merito, e la fiducia nei giovani, e cose così, ma so che non è vero. Credo fosse per caso. Forse ero di moda, forse perché erano delle gran rogne. Perché lo erano veramente, delle gran rogne, di solito di natura umana. Contadini contro impresa, operai contro padrone, sindaci contro contadini impresa operai e padroni. Un lavoro faticoso, e impegnativo, per il quale mi rendevo conto ogni giorno di più che gli studi fatti non erano abbastanza. Non avevo studiato psicologia clinica, tanto per dirne una, e la psicologia in certe occasioni può più di tante altre cose.

Garibaldi

Mia moglie si lamenta.
Non tutte le mattine, alcune mattine sì, altre no, secondo me dipende da come ha dormito.
Ma si lamenta sempre, anche quando non lo dice. Del resto, lei non approva. Non sopporta, dice “questa puzza nauseabonda di cadavere”, dice proprio così.

La Dama

A quei tempi non avevo ancora vinto il concorso, così lavoravo da sola, in proprio insomma. Cioè a dire il vero il concorso lo avevo anche vinto, ma aspettavo che mi chiamassero. Scorrimento della graduatoria, così si dice. Prima chi vogliamo noi poi tutti gli altri, così dico io. Comunque, nell’attesa continuavo a fare il giro delle case, tutti i giorni. Avevo un motorino, un Ciao scassato che sopportava paziente i miei capricci e i miei chili. Non so perché, ma quelle che fanno il mio lavoro, e lo fanno bene come me, sono sempre belle in carne. Così ero io, e ancora oggi non so se sono io che ho scelto il mio lavoro, dandoci dentro con arancini e sfoglie ripiene, o è il lavoro che ha scelto me, proprio a causa di questa mia passione per i carboidrati, come si chiamano adesso. Pane, pasta, pizza, dolci, insomma.

Cataratta

Alla terza mano non ne aveva già più voglia.
Guardò sua madre mischiare le carte, con quel suo modo di spingerle le une dentro le altre come se le infilzasse, come se volesse polverizzarle, e si chiese chi fra i due tenesse veramente a quel rito. Se non fosse un altro malinteso dell’amore filiale, come quello che li aveva portati per anni a mangiare padellate di alici fritte, impanate e fritte.
Tutto poteva cambiare, gli anni, le stagioni, i governi, una cosa sola era sempre uguale: una volta arrivato sull’isola, sceso dal traghetto, Paolo telefonava alla madre per comunicarle lo sbarco, e lei non gli lasciava neanche il tempo di fare il biglietto del pullman per il paese che aveva già messo sul fuoco la padella con l’olio. Le alici, si sa, si devono mangiare ben calde.

Tenerezza

Sono morta.
Agito le gambe ritmicamente: sono un corridore prima dei cento metri. Le braccia invece le lascio pendere lungo il corpo, le mani fredde, sempre di più, con il gelo che parte dalla punta delle dita a salire su, sempre più su, fino ad arrivare ai polsi, e oltre ancora.
Chiamano il mio nome, scuoto il capo lieve: sono un cavallo da corsa dietro al cancelletto. Con gli occhi fissi, scendo dalla gradinata sorridendo, il passo elegante sulla moquette blu scuro. Attendo pacifica l’effetto sorpresa: come previsto non tarda ad arrivare.

Armonico

I - Moto armonico forzato
Il giorno in cui ho discusso la tesi, non ti sei neanche degnato di venire, mentre io parlavo davanti a quei baccalà in parrucca, incellofanato nel mio vestito migliore, appeso alla cravatta come un cane alla catena. Mi pareva di vederli da dietro un vetro, i volti appannati, le teste polverose, gli sguardi miopi. L’odore acre del sale.

Un chimico

Solo il chimico può dire, e non sempre,
cosa verrà fuori dall'unione
di fluidi o solidi.
E chi può dire
come uomini e donne reagiranno
fra loro, o quali figli ne risulteranno?
C'erano Benjamin Pantier e sua moglie,
buoni in se stessi, ma cattivi l'uno con l'altro:
lui ossigeno, lei idrogeno,
loro figlio, un fuoco devastatore.
Io, Trainor, il farmacista, un mescolatore di sostanze chimiche,
morto mentre facevo un esperimento,
vissi senza sposarmi.
(Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River)

Hai appena finito di leggere, e mi guardi dritto negli occhi. Anche io ti guardo, come ipnotizzata. Allunghi la mano libera sul tavolino, verso la mia, facendo un buffo slalom con le dita fra il tuo Campari e la mia tisana. Io chino gli occhi a guardare le tue dita, lunghe dita da pianista. Lunghe anche le unghie, e sporche. Ecco, questa è la prima cosa che penso di te, pensando a te in maniera diversa, voglio dire. Lunghe dita da pianista con unghie sporche. Così la mia mano si ritrae, quasi da sola, e subito dopo anche la tua.

il Pickwick

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