“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Novembre 2012

Friday, 30 November 2012 10:56

Foglia tra le foglie, in pieno autunno

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Spazio. Una patina curvata fa da fondo; più corta di quanto sia l’ampiezza dell’assito, mostra volutamente i propri limiti. Dinnanzi ad essa una quinta rettangolare allude a una parete: bianca, con macchie catramate e tumorali. Le sedie non sono sedie ma sagome ferrose ed essenziali che consentono un appoggio; di lato due quadrangoli in metallo disegnano l’assenza del mobilio ospedaliero. Il sipario, nero, è lasciato pendere ai margini del palco. Vestiario per chi è di scena è visibile in appoggio: un cappello a falde strette, due camicie di cotone, una borsetta in piume nere, un abito notturno con intarsi argento, un pantalone marrone con cintura, un bastone di legname. Trovarobato buono per la recita: siamo in teatro.

Thursday, 29 November 2012 16:07

Il mito eterno della porta di confine

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Il filo della casualità, il nastro rosso, il laccio che tiene insieme le cose, l’abitudine, il mondo che gira, con i suoi ritmi e i suoi automatismi, le percezioni inveterate, l’irriflessività dell’esistere, tutto questo ad un certo punto può sciogliersi, oppure può spezzarsi. E quando il filo si spezza, quando le persone sono sostituite dal vuoto della loro assenza, ci si pongono domande, le grandi domande, ci si interroga sull’esistente e l’inesistente e la linea di confine, tra il reale e l’irreale, il pensato e il vissuto, si fa labile, incerta, fluttuante, e come equilibristi si ondeggia, sospesi sul vuoto, sull’abisso delle domande senza risposta, del buio del non conosciuto.

Wednesday, 28 November 2012 11:47

vite parallele

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   Tori era la miglior puttana della città, di sicuro la più brava ed esperta pompinara del quartiere, per questo era la più richiesta sul mercato e aveva la miglior clientela fra tutte le sue rivali 

Tuesday, 27 November 2012 20:58

Ucciderò Roger Federer (parte 2)

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2. “Il mese peggiore è ottobre, senza ombra di dubbio”

“Uccidere Roger Federer, mica cosa da poco”, ragionava il piccolo signor F mentre disperatamente cercava di tamponare il sangue che a leggeri ma rapidi e costanti fiotti fuoriusciva da un piccolo taglio situato poco sotto l’orecchio, “Uccidere Roger Federer” sembrava proprio il titolo di un romanzo o di un racconto, o addirittura il titolo di un film, un po’ come “Essere John Malkovich”, film che il piccolo signor F non aveva mai visto ma di cui amava profondamente e senza darsene ragione il titolo.

Mark Spencer gli era sembrato da subito un nome appropriato e se l’era preso al volo… pensava che fare la vita e la carriera dello scrittore con uno stupido nome italiano sarebbe stato più da coglioni che altro “meglio l’america” ripeteva e s’era messo un nome americano che gli scivolasse addosso come un vestito fresco di sartoria
praticamente nessuno dei suoi amici o conoscenti di sorta sapeva il suo vero nome di battesimo forse solo la madre ma anche lei per vantarsi con le amiche dal parrucchiere o al club del taglio-&-cucito diceva con certa boria da laureata “si… io sono la mamma di Mark Spencer lo scrittore”

Sala Ichòs e la sua piccola folla d’un sabato sera di fine novembre; l’atmosfera, come sempre, sa di vino e familiarità. Vi si omaggia Federico Garcia Lorca. L’omaggio al poeta s’affida a tre figure, due musici e un narratore; quest’ultimo ha l’aria familiare e la rassicurante bonomia del seriale preserale televisivo (Lucio Allocca). L’accompagnano una voce, qualche percussione e un paio di chitarre (Lello Ferraro e Antonio Chioccarelli).
Federico Garcia Lorca è lì, in un angolo, scruta dal basso una scena che gli fa posto; una sua foto, come votiva, accampa a scranno una sorta di comodino che drappeggia porpora.

Monday, 26 November 2012 19:37

Sullo scivolamento e altri annegamenti

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Che il mondo, così come si presenta quando apriamo gli occhi in un mattino uggioso o di sole, sia soltanto una delle mie rappresentazioni, quella prediletta, quella rassicurante, quella che la nostra mente costruisce nella sua relazione con il reale, che la realtà quotidiana insomma sia questo è indubbio, ma (appunto) è soltanto una delle forme di rappresentazione, quella sulla quale si adatta la nostra burocratica azione sul mondo, quella da cui prende avvio ogni opaco discorso sull’esistente opaco in una opaca condivisione. Le sue forme proprie sono in un certo senso l’accettazione e lo sbadiglio.

L’odore del sangue è uscito postumo nel 1997, a undici anni dalla morte di Goffredo Parise. Scritto presumibilmente tra gli anni Settanta e Ottanta (lo stesso periodo in cui l’autore pubblicava la sua opera perfetta: I sillabari, 1972, 1982), questo romanzo, terminato ma stilisticamente e strutturalmente incompiuto, è la narrazione in prima persona di uno psicanalista di mezza età che, mentre vive una relazione con la giovane Paloma, si ritrova d’un tratto a dover analizzare dall’esterno il rapporto morboso tra la moglie Silvia e un giovane fascista, Ugo. Si tratta di un romanzo torbido e personale sulla gelosia, come ha fatto notare a pochi giorni dalla pubblicazione Raffaele La Capria: "un libro che Parise deve aver buttato giù di getto per liberarsi dall’incubo che lo ossessionava e che lo ha sempre ossessionato, e pensando, mentre lo scriveva, che comunque questo libro non avrebbe visto mai la luce perché non lo avrebbe mai pubblicato" (Corriere della Sera, 15 giugno 1997).

Friday, 23 November 2012 18:25

Nessuna via d'uscita

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L’Accademia siamo noi. Platea (piuttosto scarna purtroppo) imbarazzata, sospesa, in attesa. Le luci in sala non si spengono, non subito, e sulle spine ci si chiede se è già cominciato, se quei passi che risuonano alle spalle siano già l’inizio dello spettacolo... e quando i passi si fermano e si seggono dietro di noi (sì dietro!) la seconda, terribile domanda, che non si osa rivolgere accanto, ma risuona nei precordi senza osare volgere lo sguardo è: “ci si è seduti troppo avanti?!”. E un altro pensiero, malevolo, figlio dell’imbarazzo destabilizzato, sarebbe già pronto ad archiviare la provocazione metateatrale, l’Accademia è già pronta a classificare, scrollandosi di dosso la sgradevole sensazione di straniamento.

Thursday, 22 November 2012 20:29

Le confessioni di un pugile materasso

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Quando vidi il primo incontro di boxe avevo 16 anni. La boxe a quell'epoca rappresentava quello che era più lontano dai miei ideali di sport e disciplina; disciplina intesa come sinonimo di correttezza e rispetto delle regole, ma soprattutto come strumento essenziale del vivere civile. Man mano, con gli anni, ho leggermente mutato la considerazione, da un punto di vista prettamente sportivo, che fosse uno spettacolo privo di vero mordente, come all'epoca invece consideravo il calcio. Mai però mi sarei aspettato che a trent'anni sarebbe diventato il mio sport per eccellenza, tanto da farne, se mi passate il termine, un'applicazione metodologica del quotidiano. Il fatto è questo, ad un certo punto della mia vita ho dovuto fare a pugni.

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il Pickwick

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