“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 03 January 2013 15:36

La vita dov'era la vita

Written by 

Città distrutte. Sei biografie infedeli, di Davide Orecchio, si presenta in copertina con il capo di un palazzo in fase di declino mentre accanto, con moto leggerissimo, s'alza il bianco di una mongolfiera. Qualcosa crolla e, crollando, è destinato a farsi polvere e macerie e poi assenza e ricordo sbiadito e più sbiadito ancora mentre – nel contempo – dallo stesso luogo in cui avviene questa frana, che sa d'irrimediabile scomparsa fisica, altro si solleva: una nuova vita forse, forse la stessa vita ma con altra forma, volubile ed ariosa.

L’immagine, discorde e assai poetica, rende bene la natura innaturale di questa raccolta di apparenti biografie che fanno della biografia un rammento incerto e instabile, volutamente inattendibile: qualcosa crolla, ossia finisce e, dal luogo delle macerie e della polvere, si solleva ciò ch'è fragile, volubile ed arioso.
Da ciò che ha un suo peso, una sua massa stabile e tangibile (il palazzo) a ciò che fluttua in balia del vento (la mongolfiera). Dal vero che si riteneva immobile e sicuro al leggiadro che s’innalza resistente. Dalla Storia – in forma di storie singole e allusive – alla Letteratura.
Città distrutte può dirsi Storia risollevata per Letteratura. Sei vite, oppresse “dalla disgrazia d’essere accadute”, ne sono il nucleo autentico: dalle macerie del loro crollo Davide Orecchio fa sorgere altrettante mongolfiere (le reinvenzioni narrative) ricostruendo per fregio artistico, per particolare ch’è infedele: muta un nome, la geografia di un posto, la cadenza cronologica degli attimi; qui schiarisce il tono di una voce, lì s’immagina il colore di un vestito; in una pagina prova a far sentire il freddo, in un'altra accende un luogo tramutandolo in fornace: Davide Orecchio così rimugina, rimescola, ripensa per ridire; al vero aggiunge il verosimile, all’accaduto l’accadibile. Ne viene una sincerità fatta di menzogna ovvero una menzogna più sincera.
Scrive Marcel Schwob, in Vite immaginarie: “L’arte del biografo consiste nella scelta. Non deve preoccuparsi di essere vero; deve creare entro un caos di tratti umani. Alcuni pazienti demiurghi hanno radunato per il biografo certe idee, certi movimenti della fisionomia, certi avvenimenti. La loro opera si trova nelle cronache, nelle memorie, negli epistolari e negli scolii. In mezzo a questo ammasso il biografo seleziona quanto gli serve a comporre una forma che non assomigli a nessun’altra. Non serve che sia uguale a quella che fu creata un tempo, è sufficiente che essa sia unica, come ogni altra creazione”.
Ebbene, Orecchio dal “caos di tratti umani” che appartiene alle cronache, alle memorie, agli epistolari ed agli scolii sceglie, seleziona, rimette in ordine, poi modifica, scompone e ricompone, reimmagina una forma, la muta ancora un poco, la perfeziona nei dettagli (il tono della gola, il colorito della pelle, la celerità dei passi, un gusto preferito, la maniera di tossire, la fretta o la calma nel guardare) perché sia unica. L’affida poi alla pagina. Ecco, per prima, Éster Terracina.
Éster nasce, tra i cuscini di velluto, nello stesso giorno in cui Ernesto Guevara intraprende il suo ultimo viaggio; muove i suoi primi passi quando l’Argentina spasima i suoi voti per la combriccola Perón; cresce, muta, si rinvigorisce mentre si diffondono i comandi militari: “gambe e braccia si allungano, nel cinquantanove mentre Guevara entra all’Avana s’arrampica su una magnolia di Plaza San Martín e cade, trascorre un mese ingessata, nel sessanta prende la varicella, nel sessantuno il morbillo, le resta una cicatrice sulla fronte, poi le nasce il ‘collo di un cigno’, le sbocciano i seni, i capelli scendono verso il basso, il viso sembra modellato da carezze, le lentiggini dai polpastrelli di un dio che la favorisca, la voce s’arrochisce un po’, lo sguardo è commovente”.
Éster partecipa alla “Marcia Silenziosa del sessantanove”, frequenta le baracche di San Martín, discute una tesi eccellente ottenendo un voto mediocre; Éster scrive: “L’ardore politico di un tempo è entrato in un abito e s’è infilato le scarpe ai piedi. Ho smesso di struggermi per il ritorno di Perón, lotto per due soli obiettivi: libertà e giustizia sociale”.
Éster marcia, urla, lega i propri polsi ad altri polsi in catena, torna a marciare, torna ad urlare, sente il fischio di un proiettile, sbanda, riparte, ancora marcia, ancora urla. E lotta. E si nasconde. Ed ha paura. E fugge.
Un pomeriggio, spossata da notti insonni trascorse tra le strade ed i caffé, s’insinua in una veglia funebre, s’accomoda in chiesa, tira un sospiro, reclina un po’ il capo, poi versa lacrime, condividendo – col proprio lutto – il lutto cui non appartiene. La prendono durante un controllo su un autobus, la portano di peso al centro Piqué dove la consumeranno nell’ombra fino a farla scomparire del tutto. Occorre forza, superato il groppo dato dalle pagine, per ricordarsi di un particolare: Éster Terracina non esiste.
Con lei, infatti, Davide Orecchio fa letteratura quanto fa letteratura con Eschilo Licursi, Valentin Rakar, Pietro Migliorisi, Kauder e Betta Rauch, cui dobbiamo la frase che segue: “Spesso mi dici che sono un rudere con un tono che mi fa impressione. Io spero di no. Certo, sono una città distrutta. Se Dio vuole, la storia è fatta di città distrutte e poi ricostruite”.
Parole che appartengono in realtà ad Oretta Bongarzoni e che – al pari dell’immagine di copertina – danno il senso profondo del volume di Orecchio, che pone un gesto dov’era un gesto, una frase dov’era una frase, un tremore dov’era un tremore. È così che la vita torna dov’era la vita.
È così per Oretta Bongarzoni ed è così per Nicola Crapsi, Andrea Tarkovskij, Alfredo Orecchio, Wilhelm von Humboldt e l’insieme senza nome delle donne sbiadite in Argentina. Sono loro le città distrutte ma, "se Dio vuole, la storia è fatta di città distrutte e poi ricostruite". Con un gesto dov’era un gesto, una frase dov’era una frase, un tremore dov’era un tremore. Con la vita dov’era la vita.
In basso le macerie, la polvere, la stasi. In alto, qualcosa di simile ad una mongolfiera: destinata lontana, quanto lontana può soltanto la letteratura quando inizia il suo volo.

 

 

 

Davide Orecchio
Città distrutte. Sei biografie infedeli
Gaffi, Roma, 2012
pp. 238

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook