E allora, quella strana bestia mal evoluta che è l’uomo si trova ad accarezzare oggetti e a lavorare su di essi a partire da una memoria che è già sempre la costruzione di un ricordo adatto per il presente e se poi quella bestia è anche artista allora sa giocare con questi ricordi affioranti e buttarli giù, schiettamente e sinceramente, senza troppo pensarci. Senza eccedere in intellettualismi di sorta.
Ed è così che giungiamo all’interno di una mostra che sin dal titolo (anch’esso importante, eh!) mostra il gioco evanescente di una filastrocca che si impone a noi come esigenza di configurazione di un’infanzia già sempre perduta ma già sempre presente come costruzione materiale del ricordo. Il titolo della mostra è Sedia sediola e così già divertiti ci immergiamo e scopriamo questo strano mondo fatto di tele che rappresentano sedie. Sì! avete capito bene: tele che rappresentano sedie, sedie sulle quali compaiono trasparenti figure infantili.
Non ricordo chi, un po’ provocatoriamente e un po’ prendendo in giro certe forme dell’arte contemporanea, diceva che all’interno di una mostra lui non sapeva distinguere se quella sedia o quell’estintore fossero un’opera d’arte o normali oggetti di uso quotidiano. Questo mattacchione aveva indubbiamente ragione, se un orinatoio può essere opera d’arte attraverso la de-contestualizzazione, allora anche questa tastiera che sto pigiando con veemenza (perché alcuni tasti faticano a dare risposta – e già soltanto la veemenza che debbo impiegare per scrivere, impone una veemenza anche al pensiero e così via – giusto per continuare la riflessione sul dominio degli artefatti su di noi) potrebbe esserla se inserita all’interno di un proprio discorso creativo. L’arte insomma ha sempre più a che fare con gli oggetti di uso comune, quotidiani, medi, ma non li domina e li plasma, cede ad essi come (forse) è giusto che sia.
Ma Mauro Di Silvestre è paradossalmente un artista ben più classico di quanto questo articolo sembri mostrare. In effetti c’è qualcosa che permette di valutare “classico” il suo lavoro, sicuramente per la tecnica utilizzata e il figurativo preciso e ordinato, ma ancor di più per il modo con cui attiva una relazione di dialogo con l’oggetto e ne fa uno strumento allegorico di scavo nella propria memoria e nella memoria altrui. L’oggetto non è de-contestualizzato né imposto nella sua quotidianità, non è semplicemente questo oggetto qui, la sedia sulla quale in questo momento sono seduto a scrivere, bensì è veicolo di rappresentazione allegorica di stati d’animo. Cosa c’è di più “classico” di questo?
Si tratta allora di sedie che sembrano a tratti sospese, in alcune tele c’è proprio come un accento metafisico, più spesso i riferimenti concreti servono a produrre ambienti mentali, come nel caso di una sedia newyorkese, che sta come de-realizzata su un sfondo rappresentato da un palazzo che il nostro artista vede quotidianamente di fronte a sé, e il pavimento è quello della casa dei genitori. Più spesso sulle tele compaiono figure evanescenti, spesso sono bambini, ombre di un ricordo, il fratellino quando era piccolo, o altri familiari, che appaiono e subito scompaiono per poi riaffiorare dalla tela a ricordare la necessità del ricordo. Certo, si potrebbe tacciare di autoreferenzialità il suo lavoro, uno scavo nella propria psiche e una ricerca di rapprendere in un gesto artistico una serie di esperienze collegabili soltanto per analogia da chi le ha vissute, e il pericolo è vivo e forte, ma queste tele riescono a produrre un certo colloquio con lo spettatore che dopo uno strano senso di spaesamento, forse, costruendo con la propria memoria ricordi di sedie e di spazi, un po’ si trova a condividere lo stesso gioco dell’artista. Io, ad esempio, mi sono trovato nella casa dei nonni e in una vecchia sezione del Partito Comunista. Perché il lavoro dell’artista è sui parati, sulle tappezzerie, sui pavimenti e sulle riggiole, tutto ha il sapore di qualcosa che è già sempre passato, qualsiasi età abbia lo spettatore.
Quando ce ne ritorniamo verso casa, così come una folgorazione, ci viene in mente un passaggio di Pessoa: “un uomo, se possiede la vera sapienza, sa godere dell’intero spettacolo del mondo da una sedia, senza saper leggere, senza parlare con nessuno, solo con l’uso dei sensi e con l’anima che non sappia essere triste”. Ma il mondo e la vita sono delle brutte bestie, e la vera sapienza è una chimera, per cui c’è concesso di godere di una seduta su una sedia, senza parlare o leggere, metafisica e assoluta, soltanto attraverso lo schermo di una tela e soltanto per poco, molto poco. Sapendo del resto che è un gioco e nulla più e che la vita è ben altra cosa, ben altra cosa e ben peggiore, dove è necessario gridare ed affannarsi per poi sedersi sulla solita sedia, di sera, quando la stanchezza abbassa le palpebre e non permette di impazzire di rabbia, e senza voglia di parlare o leggere si diventa non sapienti ma un pochettino più ignoranti e consumati dal risentimento.
Sedia sediola (2008-2013). Una specie di retrospettiva
di Mauro Di Silvestre
Galleria Cellamare Internocinquantasei
Napoli, dal 26 marzo al 30 aprile 2013