“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 21 February 2013 01:00

La scrittura e la scena

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“È strano che tu non riesca ad afferrare il nocciolo della questione. Riesci solo a percepirne i contorni. E non capisci quanto sia grave”.
La scrittura di Yasmina Reza potrebbe definirsi attraverso questa battuta rubata ad Art: la definizione di un contorno con, al centro, qualcosa di grave e sfuggente, di profondo e di pallido, di pressante e accennato. Yasmina Reza scrive di massimi temi (il delirio, la violenza, il conflitto, l’amore e l’odio tra gli uomini, la bramosia di possesso, il desiderio di conquista o abbandono, lo sfruttamento dei deboli, la viltà verso i fragili, la prostrazione ai più forti) cesellando una cornice e ponendovi al centro una trama di icone, di segni, di simboli che non sono che tratti, rimandi, allusioni. A chi guarda interpretare l’insieme.

Così facendo comprende e traduce in scrittura una delle norme costituenti del Teatro in quanto Teatro: occorre concentrare la vita. Occorre, cioè, ridurre lo spazio d’azione e comprimere il tempo (senza perdere in spontaneità apparente) perché si intensifichi l’energia di ciò che si offre sul palco. Solo attraverso la riduzione dello spazio un’intera vicenda può avvenire in una stanza. Solo attraverso la concentrazione del tempo due o più persone impiegano un’ora per questioni che le terrebbero impegnate per giorni, per mesi, per anni. Solo attraverso l’intensificazione dell’energia un tema (o più di un tema) è definibile attraverso un pretesto.
Dunque: riduzione dello spazio, concentrazione del tempo, utilizzo di un pretesto.
In Art tutto avviene all’interno, nel breve volgere dello spettacolo, attraverso l’esposizione di un pretesto: una tela completamente bianca che Serge sostiene un capolavoro pittorico e che Marc definisce “questa merda”: toccherà ad Yvan placare lo scontro, dopo averlo (in)volontariamente agitato.
In Art tutto avviene in salotto, in un’ora e mezza, ed ha per argomento (visibile) una tela bianca perché Art è Teatro e, in quanto Teatro, può permettersi la finzione di un ambiente che misura quanto misura in larghezza il palcoscenico, una durata compatibile con la soglia d’attenzione del pubblico, un oggetto che non è il vero oggetto ma che sta per, rimanda a, significa anche.
È talmente Teatro Art che – con un piccolo sforzo di lettura inventiva – potrebbe definirsi ugualmente (ed ugualmente a ragione) una grande metafora dei rapporti di Potere o una scaltra riproposizione di un vecchio dramma amoroso.
Nel primo caso Serge e Marc sono personalizzazioni di due entità forti (due sovrani, due regnanti, due stati o due imperi) che, per una minuzia (un piccolo appezzamento di terra, ad esempio), s’impegnano a farsi la guerra fino ad una tregua momentanea (sancita dall'Yvan/“la voce della ragione”), preludio ad un nuovo conflitto. Letta così, Art è opera nella quale si ritrovano le antiche dinamiche degli antichi drammi storici senza il loro antico corredo.
Nel secondo caso Serge è la donna (o viceversa), Marc è l’uomo (o viceversa), Yvan è il mezzano, il servo, il ruffiano che riesce, con furbizia e mestiere e con talento ed astuzia, a riappacificare la coppia scoppiata. “Guarda che io non ti ho rimpiazzato con Paula” (Marc). “Perché, io ti avrei rimpiazzato con il quadro?” (Serge). “Un tempo mi tenevi in palmo di mano” (Marc). “Ci sono stati davvero tempi così, tra noi?” (Serge). “Amavo quel tuo sguardo. Ne ero lusingato” (Marc). “Sono costernato” (Serge). “Mi sento abbandonato. Tradito. Sì, sei diventato un traditore” (Marc). “Così siamo giunti alla fine di un rapporto durato quindici anni” (Serge). La pace – prima di una nuova baruffa sentimentale – si deve all'Yvan/”buffone”, servente della coppia e dipendente da essa (“Non sono come voi, io, a me non piace dominare, né essere un punto di riferimento, non voglio essere autonomo, voglio essere vostro amico, il vostro pagliaccio, il vostro buffone”).
Ugualmente (ed ugualmente a ragione) una grande metafora o una scaltra riproposizione. Questo perché la scrittura di Yasmina Reza è Teatro già nella sua dimensione cartacea.
Lo è a tal punto da prevedere anche i possibili giochi d’assito: il salotto che muta identità soltanto attraverso il cambio del quadro nel centro (dalla prima didascalia: “Non cambierà nulla, salvo il quadro esposto”); la presentazione che Yvan compie rivolgendosi direttamente alla platea, abbattendo la quarta parete (“Mi chiamo Yvan. Sono un po’ teso perché dopo aver lavorato per tutta la vita…”); gli a-parte in cui ognuna delle tre figure – cono di luce in un buio assoluto – può confessare ostentatamente le proprie ragioni: annullamento del verismo di palco, della continuità di recitazione, dell’identificazione assoluta tra ruolo, personaggio e andamento cronologico della vicenda.
Si aggiunga, a testimonianza ulteriore di una drammaturgia che è già scena, qualche battuta metateatrale (affidata ad Yvan) che, di volta in volta, anticipa ciò che sta per accadere (“Vedrai che con me Serge riderà. Con me riderà”: annuncio del proseguo dell’opera); evidenzia ciò che sta accadendo (“Per una volta che siamo tutti e tre assieme”: sottolineatura della compresenza in ribalta); indica ciò che è appena accaduto (“Il ritorno di Yvan”: una riapparizione farsesca viene così titolata).
Dinnanzi ad una tale funzionalità operativa del testo, ovvero dinnanzi ad una tale consapevolezza autoriale d’origine, il regista ha due opzioni: trarne uno e uno solo tra i molteplici significati possibili e calcare la messinscena marcando il proprio punto di vista (scavo, scelta e rigenerazione del tema, sua riformulazione innovativa) oppure lasciare che l’opera – dalle pagine scritte – sia filologicamente riproposta in teatro, facendo della regia un servizio all’inchiostro, senza alcuna caratterizzazione diversamente identitaria.
Giampiero Solari, ci pare, abbia volutamente scartato l’ipotesi di quella che, un tempo, si sarebbe detta “regia critica” e s’è contentato di servire il testo della Reza servendogli tre interpreti d’abilità e di mestiere che – con abilità e mestiere – servono, a loro volta, i tre ruoli. Da questo ne viene, nonostante la buona prova d’insieme, un senso conclusivo di insoddisfazione parziale, dovuto probabilmente alle attese di un approfondimento o di una personalizzazione che manca.
D’altronde, lasciando che Art sia l’offerta del testo così com’è il testo (con la sua intima natura equivoca, plurima, volutamente disponibile ad ogni interpretazione possibile) si resta dubbiosi quanto dubbiosi si resta davanti ad una contorno con, al centro, qualcosa di grave ma sfuggente; davanti ad una cornice con dentro una trama d’icone, di segni, di simboli; davanti ad una tela bianca “con fondo tutto bianco… tutto bianco… in diagonale delle sottili righe bianche, di traverso… e forse anche una riga orizzontale bianca, in basso” che può essere una grande metafora, una scaltra riproposizione o chissà cos’altro ancora.
O chissà cos’altro ancora. Appunto.

 

 

 

Art
di Yasmina Reza
traduzione Alessandra Serra
regia Giampiero Solari
con Gigio Alberti, Alessio Boni, Alessandro Haber
scene Gianni Carluccio
luci Marcello Iazzetti
costumi Nicoletta Ceccolini
produzione Nuovo Teatro
in collaborazione con Gli Ipocriti
durata 1h 25'
Napoli, Teatro Mercadante, 19 febbraio 2013
in scena dal 19 al 24 febbraio 2013

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