“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Francesca Saturnino

Factory: la raffinata rivolta pop di Romeo e Giulietta

Barberino di Mugello, a mezz’ora di macchina da Firenze. Venerdì sera, gioca la Fiorentina e, sarà un caso, ma nel foyer del Teatro Comunale Corsini prevale il gentil sesso. A pochi minuti dall’inizio dello spettacolo, invasione di campo dalla sala: le famiglie dei Capuleti e dei Montecchi vengono a prenderci, distribuendo saluti e piccole figurine – a mò di pubblicità elettorale – per convincerci a parteggiare per le diverse “squadre”.

Ermanna Montanari: il corpo della voce

“Ch’a m’so ardota a crèdar d’no esi gnanca tota, ch’a m’so vesta a cve e a lè int e’stes zir ad temp, una mateda a dirì vuiètar, mo dal volt ch’ai pens, a soia viva o morta? E cvi che in sogn im dis che j è a post e i rid mo in d’ei?”.

 

“Che mi sono ridotta a credere di non esserci neanche tutta, che mi sono vista qui e lì allo stesso tempo, una pazzia, direte voi, ma delle volte ci penso, sono viva o morta?”.

 

Penombra densa e avvolgente, palco vuoto, con pochi oggetti, geometricamente disposti. Al centro una pedana bianca, a destra un contrabbasso; a sinistra, un tavolo con pc e synth per riverberare e mixare suoni e sequenze. Sullo sfondo, uno schermo su cui verranno proiettati disegni, macchie di colore e sottotitoli.

Deflorian/Tagliarini: la vie est un point de vue

Non sempre capita, ma a volte, seduti nella penombra della platea di un teatro, si possono vivere attimi di pura illuminazione: sono brevi e ti lasciano con un leggero stordimento. Non sai spiegarti bene il perché, te ne vai via con l’animo leggero e la testa che ragiona e ragiona e ragiona. A vuoto.

Occhi sul mondo drag queen

Palco nudo. In proscenio, quattro sedie dorate; per terra, specchi, trucchi, smalti. Ai lati, due file verticali di lampadine, che incastonano la scena a mo’ di camerino. Sullo sfondo, tre file di attaccapanni con vestiti brillanti, tra colori sgargianti e scialli piumati. In fondo a destra, una tv accesa su quella che ha tutta l’aria di essere (e ne avremo poi conferma) una soap opera sudamericana. Odore d’incenso che si sparge nell’aria. È questo l’interno in cui irrompe “Alice”, nome d’arte del giovane protagonista che, con i suoi occhi di ragazzo ingenuo e impacciato, ci conduce nel mondo misterioso e attraente delle drag queen: la platea è lo specchio verso il quale questi esseri perturbanti e narcisi si scrutano continuamente e metateatralmente, per tutta la durata dello spettacolo.

Il lieve movimento di "Due donne che ballano"

Interno dismesso, spoglio ma curato, realista. Quinte, una porta d’ingresso vera e uno spazio ricavato ai margini della scena, che funziona come una sorta di cantuccio. Pavimento a quadri grigi e bordeaux, pochi oggetti tra cui un tavolo con due sedie in tono, sullo sfondo una grande libreria, piena di "giornalini".

Dieci anni di Fibre Parallele. Spagnulo racconta

Bari. Sul lungomare, il viola del cielo si fonde con quello dell’acqua. Alle due di pomeriggio i pescatori sono ancora sul molo, ad aprire ricci e arricciare polpi dai colori iridati. Il Teatro Margherita, il Petruzzelli e il cinema teatro Kursaal si fanno compagnia, l’uno a poca distanza dall’altro, a ricordare un passato glorioso e antico. Oggi sono chiusi. Nei vicoli stretti di Bari Vecchia, sotto gli archi, edicole votive e affreschi di "San Nicolino", come lo chiama la signora Nunzia, che impasta orecchiette e ti parla, sorridendo, in un dialetto contratto e rotondo, pieno di ritmo e melodia. Tutto scorre lento, almeno a quest’ora della giornata, se non fosse per sparuti gruppi di ragazzini che giocano a pallone nelle piccole piazze che ti si aprono davanti, quando meno te l’aspetti.

I vent'anni di resistenza del Teatro Elicantropo


Anche a chi non frequenta regolarmente i teatri di Napoli sarà capitato, almeno una volta, di passare un’ora o più nell’antro nero e accogliente in Vico Gerolomini, budello stretto e lungo che collega l’Anticaglia alla parte finale di via Tribunali: nel cuore antico della città. Chi ci è stato ricorderà la forma particolare di questo spazio con una platea di soli trentotto posti, ricavata su due gradinate che tagliano a metà una sala piccola col soffitto alto e profondo, una volta parte della cappella del complesso dei Gerolomini. L’imponente scenografia (di Roberto Crea) del recente adattamento di Scannasurice firmato Cerciello/Villa, probabilmente, poteva nascere solo in un posto così.

Il teatro racconta la realtà (e rompe il silenzio): intervista a Terry Paternoster

Sulla scena nera si muove, compatta, una schiera, che intona canti sacri e antichi a ritmo di tamburello. Quando la schiera si rompe, i nove giovani attori, cinque donne e quattro uomini, in mutande e sottane, si dispongono in riga davanti a un fascio rettangolare di luce rossa. In dialetto lucano si passano barattoli, sputi, sguardi e imprecazioni: tutti riuniti, per le ferie, a fare la conserva “re pumm'dur". C’è chi è emigrato in Germania e non torna da un anno; chi non si è mai allontanato ma da quel paesino della Val D’Agri vorrebbe fuggire; chi a casa non è tornato mai più. Un grumo di storie e umane pulsioni compresse dentro barattoli di acqua infetta, dove gli attori soffiano, per ricreare il suono del bollore della salsa in cottura.

La lingua, le “vecchie mura”, il gioco: intervista a Tonino Taiuti

E stu spasso mo è fernuto: 
ce so’ gghiuto a na "Cantata",
ma però me so’ addurmuto,
aggio perzo na nuttata.
Senza cchiù chella curnice,
nun teneva cchiù sapore!
‘a "Madonna" era n’attrice,
"Sarchiàpone" era n’attore.
So’ spettacole ‘e Natale,
è na vecchia tradizione
comm’ ‘a tombola, ‘o bengale,
‘o Presepio, ‘o capitone.
Chill’ambiente, e chella gente
‘ncopp’ ‘a scena a recita’.
Chille ‘e mo nun fanno niente
pecché ‘a vonno stilizza’.

('A cantata d’ ‘e pasture, Raffeaele Viviani)


Bell’è Babbele, bella e senz’uocchie...
Vecchia, sorda e semp’annura...
E mo addò jamme?
Addò ce portane?
Da quale parte de’ mure, stanotte, amma piglia’ l’acqua d’ ‘a morte?
[...]

Lengua?
E che mi abbisogna di una lengua a me?
Ne tengo ciente,
‘e Menelicche
e una, di soppiatto, ‘e fuoco
e abbruscia,
abbruscia,
cupole e ciardine,
parucche e pettinasse,
nutricce e signore,
carrozze e ‘ciucesse [...]

(Signurì, signurì, Enzo Moscato)

Il ritorno di Tommaso Tuzzoli in Sala Assoli

“Facevano l’amore, come se si stessero picchiando. Poi, a lungo si vantarono dei lividi, sfiorandosi le cicatrici”.

 

È raro e dolce, quando, in teatro, le parole diventano leggere, e fluttuano come immagini o brevemente si posano e come invisibili schegge feriscono, affidate al corpo e alla voce di chi le passa a noi. Quando, del testo recitato, resta una sensazione, dei colori nitidi, la posa emotiva – ruvida o lieve – di un’urgenza che ci è stata donata, empaticamente trasmessa. Come un’idea che s’insinua, piano piano, senza far rumore, e che poi si ferma: e resta.

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il Pickwick

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